Sulle tracce di Clemente, a cura di Antonio Marras

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Vorrei scrivere di un’esperienza che ho vissuto, prima di tutto, con il corpo, e non ci riesco. Raccontare della lettura attraverso la parola scritta è cosa più semplice – l’universo da maneggiare è sempre fatto di aggettivi, verbi, nomi, immateriale che si cerca di restituire nell’impalpabilità della sintassi. Ma provare a rendere intellegibile, cioè comunicabile, un segmento – pur breve e limitato – di vita che si è vissuto, per di più quando ci si è abbandonate a una sensazione di incantamento, può essere paralizzante. Tutto questo per dire che vorrei provare a parlare di una mostra che ha un titolo strano, per chi non è del luogo in cui si svolge, cioè il Museo Sanna (Museo Nazionale Archeologico ed Etnografico) a Sassari, e che si potrà visitare fino al 30 settembre 2022.

Sulle tracce di Clemente rimane espressione misteriosa, quasi custode di una dimensione fantasmatica destinata a rimanere tale. È vero che all’inizio del percorso espositivo si trova una sorta di ingresso, una camera-ritratto, con tanto di quadro e divanetto finemente intarsiato, di Gavino Clemente, ebanista sassarese vissuto a cavallo tra Otto e Novecento, considerato inventore del cosiddetto ‘stile sardo’, collezionista di oggetti etnografici della tradizione isolana successivamente donati al museo e al quale, per questo, è stato intitolato il padiglione visitabile – al momento l’unico aperto, in attesa del riallestimento complessivo della collezione permanente. Eppure, di lui ci si dimentica presto, per immergersi nell’immaginario di chi, la mostra, l’ha concepita utilizzando il materiale raccolto da Clemente per creare qualcosa di completamente diverso.

Sulle tracce di Clemente potrebbe allora chiamarsi ‘Vedere come Antonio Marras’ – lo stilista algherese che per anni è stato direttore artistico della maison Kenzo e che poi è rientrato sull’isola, con il proprio marchio e due concept store ad Alghero (La Boutique Antonio Marras) e Milano (Nonostante Marras), veri e propri luoghi espositivi. Si potrebbe dire che la mostra altro non è che un gesto di riscrittura per immagini: Marras prende una serie disparata di oggetti che appartengono alla collezione del museo, di fatture, periodi, forme e funzioni diverse, e le assembla in teche anacronistiche e atemporali – bruciaprofumi, IV-I secolo a.C.; cuffie di Desulo e Ittiri, XX secolo; statuette zoomorfe, IV-VI secolo; teste puniche; gancere sarde; statuette votive neolitiche; teste femminili del periodo punico; camicie e corsetti e gonne provenienti da svariate ma precise località della Sardegna; vasellami funebri di età romana ecc. Forse ecco, il racconto di una mostra potrebbe anche essere questo, un lunghissimo elenco minuzioso, dettagliato, chirurgico nel diagnosticare epoche e luoghi, siti e periodi, eppure poi i nomi comincerebbero a confondersi – ‘quelli erano bottoni del XIX o del XX secolo, e quella stoffa, ripetimi come si chiama a modo il paese che lo cerco su Google Maps’ – ecco, il rischio è che tutto poi si rituffi in quell’et cetera che tutto oscura, ricaccia nell’oblio degli archivi presto dimenticati.

Forse è per questo che le teche in cui sono visibili gli oggetti non hanno didascalie, ma solamente titoli, titoli narrativi, titoli che tutto mescolano come sono mescolate le epoche e le materie e i luoghi, unite sotto un principio che ancora sembra funzionare nello spazio e nel tempo: raccontare storie. Marras crea delle meravigliose Wunderkammern che sono piccole scatole narrative dotate di una propria eco, capaci cioè di richiamare racconto, sia esso qualcosa di già esistente o qualcosa di appositamente congegnato per l’occasione. ‘Specchio delle mie brame’, ‘Orgoglio e pregiudizio’, ‘Il pifferaio magico’, ‘Pendenti e pennuti’ sono giochi di parole con gli oggetti e con l’immaginario, con la memoria letteraria e con l’ironia della riscrittura, ammantati però di un sentimento perturbante nei manichini, nelle statue di stoffa e nelle sculture femminili che aleggiano come muse inquietanti, sospese come le camicie e i corsetti delle ‘Danzatrici volanti’, spezzate in due, con le gonne aperte sulla parete opposta congelate in un eterno attimo di apertura festosa. Ci sono poi oggetti che hanno invece richiamato storie su misura, storie confezionate come abiti, che aprono la materia e la rendono, nuovamente, impalpabile come le voci degli scrittori e delle scrittrici evocate dai QR code inquadrabili accanto. Le parole di Flavio Soriga, Francesco Abate, Marcello Fois, Antonella Anedda, Elvira Serra e Bianca Pitzorno possono risuonare nelle stanze a partire da pugnali nuragici, maschere, lapidi, tappeti mortuari, teschi e tovaglie su cui sono iscritte maledizioni amorose, e allora avviene quel piccolo miracolo per cui il teschio e la tovaglia e il tappeto e il pugnale e la lapide e la maschera cominciano a muoversi, hanno braccia e gambe e voce e occhi e ci parlano proprio lì di fronte a noi, impietrite mentre ascoltiamo la storia di una donna rifiutata che cerca di lanciare un maleficio contro l’amante ingrato, e che poi le si ritorce contro, il cuore spezzato.

Anche così, provando a dire di quello che si è visto e delle sensazioni e del ricordo di queste sedimentato nel tempo, si continua a perdere qualcosa. Forse ciò che rimane indelebile è il metodo, un accostamento per elementi giustapposti, un montaggio sintomatico ed eterodosso, la capacità di dare voce al dettaglio, e sembra proprio di ritrovare la lezione di una delle autrici convocate, Antonella Anedda, in un libro di qualche anno fa, La vita dei dettagli (2009), in cui all’inizio chi dice io ritaglia, letteralmente, dei pezzi di quadri amati, perché «usando lo sguardo come un coltello […] ognuno avesse il suo quadro, inventasse un’altra storia, vedesse, a sua volta, in modo impensato». Allora concludo provando a mettere in pratica quanto ho imparato.

‘Nakano Takeisha’ [La donna guerriera appartiene alla roccia]

Lei è una delle guerriere Onna-bugeisha: erano donne della nobiltà giapponese ammesse alla battaglia, che combattevano a fianco dei samurai, alla pari. È una guerriera di tessuto, sovraimpressione di luoghi – tutte le stoffe sono sarde – e di forme che piegano la materia per assecondare l’immagine. Riguardando la fotografia in modo rapido, mi sembra di intravvedere nel copricapo il profilo di un animale, una specie di capra o un profilo di Anubi, che esiste solo se la osservo di profilo, che svanisce nella visione frontale. Forse ricordo del teschio simil-caprino che ho visto in una teca poco prima. Ricordo di quella volta in montagna in cui ho visto uno stambecco, molto anziano, lento e maestoso, le corna lunghissime.

‘Visi e sigilli’ [Quelle siamo noi?]

Le donne di pietra hanno sguardi assenti e lontani, sembrano essere incapaci di vedere, di vedersi. Il braccio, però, sembra dire che va tutto bene – ‘ok’ sta diventando un gesto desueto, da anni Novanta. Ma forse questa volta guardano davvero il riflesso fantasmatico delle danzatrici senza testa né gambe, e si chiedono se quelli sono i loro corpi di un tempo.

‘A ruota libera’ [Breve storia di una piega]

Dopo essere andata alla mostra, mi sono confrontata con un collega, un uomo molto saggio, un epigrafista, che ascolto sempre con un po’ di timore, perché lui è in grado di leggere cose sulla pietra che la mia retina non è in grado di mettere a fuoco, perché il suo occhio sa leggere il tempo. Mi ha raccontato di aver sentito, non ricordava più dove, che qualcuno aveva criticato il fatto che le gonne tradizionali sarde, caratterizzate da pieghe particolari ed estremamente laboriose, fossero state appese, nella mostra, in pose innaturali che ne avrebbero, in un modo o nell’altro, modificato l’arricciatura. Forse era vero, la piega un po’ ne avrebbe sofferto. Ma senza quel gesto che per alcuni può sembrare ardito, quella piega non l’avrei mai incontrata.