1. Scenografia come azione e come programmazione
Quando alla fine del 1962 la rivista Sipario decide di realizzare un numero monografico dedicato alla Scenografia italiana d’oggi,[1] l’unico artista di ricerca coinvolto è Achille Perilli. Un mese prima dell’uscita, Franco Quadri, in quel momento caporedattore del periodico, scrive al pittore illustrandogli il progetto di questo numero speciale, che intendeva proporre una panoramica critica «di quello che in questi ultimi anni è stato fatto, soffermandosi in un esame delle correnti più vive e particolarmente sul rapporto tra scenografia e testo teatrale, tra scenografia e cultura italiana d’oggi».[2] Il critico, nelle righe successive, specifica come il piano della redazione sia quello di realizzare un’inchiesta tra gli scenografi italiani e, parallelamente, offrire una visione ad ampio raggio del fenomeno scenico dai punti di vista specifici rispettivamente di uno scrittore, un pittore, un regista, un attore e un architetto. Per quanto riguarda questa seconda sezione, la scelta del curatore del numero, Guido Ballo, cade proprio su Perilli perché già a quella data, come si afferma nella lettera di Quadri, è nota l’opera di ‘scenografo’ del pittore ed evidente la sua competenza in merito alla disciplina.[3]
Così accanto alle firme di Luigi Squarzina, Luigi Pestalozza, Giuseppe Bartolucci e Massimo Grillandi troviamo anche quella di Perilli, che presenta un testo programmatico dal titolo Scenografia come azione e come programmazione.[4] In realtà, alla fine del 1962 l’artista può annoverare fra le fila dei suoi lavori per il teatro solamente il balletto ‘astratto’ Collage,[5] realizzato insieme ad Aldo Clementi per l’Accademia Filarmonica Romana (Teatro Eliseo, Roma, dal 14 al 16 maggio 1961). Perché dunque coinvolgere un pittore che si era prestato alle scene in un’unica occasione? È chiaro che alla redazione, a Guido Ballo e a Fabio Mauri – allora direttore della sede romana di Bompiani, casa editrice della rivista – sia nota non soltanto la prova scenica all’Eliseo, ma soprattutto il lavoro svolto dal pittore fino a quel momento in particolare sul fronte teorico. Il testo del 1962, difatti, si presenta come una lucida sistematizzazione da parte di Perilli del ruolo del pittore all’interno del ‘nuovo Teatro’, inteso non come una rappresentazione di un testo da recitare, bensì come «sintesi di varie forme espressive delle quali la parola non sia esclusivamente la determinante dell’azione».[6] Il teatro viene affrontato dall’artista come un’arte spiccatamente visiva, un luogo dove i diversi linguaggi si incontrano sotto l’egida di un comune sperimentalismo e alla ricerca di un coinvolgimento multisensoriale dello spettatore. Proprio su quest’ultimo si concentrano gli sforzi del ‘teatro dei pittori’.