Proposte
In un articolo apparso nel primo libro interamente dedicato alla figura cinematografica di Toni Servillo e intitolato Toni Servillo. L’attore in più, si legge che il volto dell’attore campano sarebbe in grado di rappresentare di per sé la complessa stagione del più contemporaneo cinema italiano, vale a dire quella cominciata negli anni Duemila.[1] Nel 2008 Servillo è stato il simbolo di quella che venne definita la rinascita del cinema italiano, legittimata dai premi di Cannes, interpretando sia il ruolo di Franco in Gomorra di Matteo Garrone, sia quello di Giulio Andreotti nel Divo di Paolo Sorrentino. Ma prima di questa definitiva ed internazionale consacrazione a capofila del divismo nostrano, Servillo era stato impegnato a sostenere il lavoro di giovani registi, dimostrando una straordinaria sensibilità nei confronti di progetti di valore che necessitavano del coraggio di uomini della sua esperienza per prendere corpo.[2] Oltre a Sorrentino, cui spesso – come vedremo – le figura di Servillo viene sovrapposta in una relazione di assoluta reciprocità autoriale, basterà ricordare il peso che l’attore ha avuto nell’esordio di Andrea Molaioli (La ragazza del lago, 2007), nel fin qui più ambizioso e riuscito lavoro di Claudio Cupellini (Una vita tranquilla, 2010), o addirittura in opere che – è il caso di dirlo – semplicemente non sarebbero nemmeno esistite se Servillo non ci avesse messo il suo corpo (l’ottimo Gorbaciof di Stefano Incerti, 2010). Dopo le concitate presentazioni veneziane, mentre scrivo, Servillo è nelle sale con il discusso e riuscito film di Marco Bellocchio Bella addormentata e con È stato il figlio, prima prova da regista di Daniele Ciprì senza Franco Maresco – un film, quest’ultimo, che funziona secondo quelle dinamiche attoriali che saranno al centro del nostro discorso. Sempre in questi giorni è sul set del nuovo film italiano di Sorrentino: La grande bellezza. Insomma, come si legge in uno speciale recentemente dedicato – con tanto di copertina – all’attore, Toni Servillo si conferma da ormai un decennio «il centravanti di sfondamento del cinema italiano».[3]
Nonostante la storia del ‘Servillo cinematografico’ sia sostanzialmente contenuta in poco più di una decina d’anni, si presenta come estremamente articolata e comprensibile solo a patto di riannodare una serie di fili culturali che consentano di capire da dove è arrivato Servillo, in quale cinema si è installato e in che modo ne ha incarnato l’essenza. Intendo dire che non è solo importante ribadire la rilevanza dell’esperienza e della particolare educazione teatrale di Servillo, maturata all’interno di un ambiente culturale particolare come quello napoletano e dei Teatri Uniti, ma è altrettanto importante cogliere la posizione liminare che l’attore ha assunto a cavallo tra la fine di un periodo sfumato e storiograficamente complesso come quello cosiddetto del ‘cinema della transizione’[4] negli anni Novanta e i primi passi di un periodo di diversa consapevolezza storica e culturale nel nostro cinema, che una studiosa americana come Millicent Marcus ha definito – in un articolo assai discusso, ma ricco di spunti – «Italian “post-realist” cinema».[5]
Toni Servillo si è inserito all’interno di un sistema traballante come quello del cinema italiano contemporaneo riversandovi una carica di impegno civile espressa nella scelta dei soggetti e in uno stile recitativo che ha contribuito a rafforzare soluzioni stilistiche e di regia divenute già ‘classiche’ in un cinema che – tra i vari problemi – ha avuto in anni recenti, e per certi versi continua ad avere, anche quello delle forme del racconto e della visione, stretto com’è tra la standardizzazione televisiva e il rischio dell’esclusività autoriale.[6] In questo articolo si tenterà di delineare il ruolo attivo di Servillo all’interno del cinema italiano contemporaneo, mostrando come il suo stile recitativo e la sua presenza scenica abbiano notevolmente influenzato i registi con cui ha lavorato. Non pretendo – nonostante la boutade contenuta nel gioco di parole del titolo – di sostenere che esista uno stile à la Servillo nel cinema italiano, ma più semplicemente che la recitazione e la fisicità di Servillo problematizzino la relazione tra attore e regista, attore e sceneggiatura in quanto testo, attore e personaggio, attore e stile cinematografico e – naturalmente – teatro e cinema.
Può un attore cinematografico, attraverso il suo corpo, la sua gestualità, la sua voce, costringere un regista a scelte stilistiche obbligate? Può esistere in un cinema comunque sia mainstream una scrittura filmica che proceda dalla performance di un attore? E di più: può questo attore arrivare addirittura a giocare un ruolo in sede di montaggio, vale a dire nel luogo in cui – per usare le parole di Servillo –[7] il regista abusa del suo interprete? Sono queste le domande che, ad un livello critico, giacciono dietro l’impegno del Servillo cinematografico e che in fondo guidano quella ‘proposta attoriale’ che si pone come obiettivo quello di mettere sorprendentemente in comunicazione una lunga e gloriosa storia teatrale con una più recente cinematografica. Tale proposta funziona non solo ad un livello recitativo, ma influenza la scrittura, le riprese e l’intera produzione del film; tale proposta si adagia con maestria su un conflitto che è strutturale e linguistico ad un tempo e che oppone la carnalità del teatro alla supposta disincarnazione dello spettacolo filmico. Si tratta di una proposta di analisi poco praticata e che però aveva avuto qualche precedente, nei primi anni Settanta, allorché ci si chiedeva quale fosse il peso specifico dell’attore nella scrittura del film e si identificavano una serie di attori comici di diversissima estrazione (da Chaplin a Keaton, da Lloyd a Laurel e Hardy, dai Marx a Tati, da Petrolini a Lewis, per arrivare a studiare Totò) che sarebbero in grado di «attirare l’attenzione sul funzionamento del film, sulla sua scrittura, e sui materiali», evidenziando «l’immancabile effetto di scrittura» che una tale recitazione verrebbe a creare.[8]
Equilibri
A voler tradurre in termini banalmente gerarchici la questione, bisognerebbe osservare che la negoziazione in gioco tra teatro e cinema procede da una democrazia creativa che è invero più teatrale che cinematografica e che rimane al cuore del progetto culturale e della filosofia dei Teatri Uniti. Per quanto Servillo ami definirsi un «attore servile»,[9] è egli stesso a porre in evidenza l’importanza che per lui conserva il poter fornire la sua opinione su una sceneggiatura, per non dire naturalmente sulla costruzione di un personaggio.[10] Leggendo le interviste ai suoi registi cinematografici, si evince inoltre che Servillo assume un ruolo importante anche nel suggerire attori e attrici per i ruoli principali.[11] Servillo vive il set come vivrebbe la preparazione di uno spettacolo teatrale, senza rinunciare alla sensibilità di regista che gli appartiene e senza scavalcare mai la figura del regista cinematografico, il quale dovrà poi gestire le diverse geometrie espressive di un mezzo che a tutta prima parrebbe lontano dalle marche relazionali della recitazione di Servillo. Si tratta, in altri termini, di una filosofia creativa che si fonda sulla continuità tra il regista e l’attore, che nel caso del Servillo teatrale sono spesso la stessa persona.
Questa continuità, come si diceva, è uno degli elementi chiave della filosofia dei Teatri Uniti. Cominciata nel 1987 grazie alla fusione di Falso Movimento di Mario Martone con il Teatro Studio di Caserta di Servillo e il Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller, questa storia è stata caratterizzata non soltanto dalla consapevolezza della vicinanza e della comunicazione di forme espressive e performative differenti – come i casi di Servillo e Martone mostrano esemplarmente –, ma anche dalla coscienza di una stretta relazionalità di ruoli tra il regista e l’attore. Il ‘regista/autore’ è una figura in sé debole, sempre esposta al rischio di perdere il contatto col testo o con il personaggio e bisognosa di trarre forza dai suoi attori e dal palcoscenico e dunque di condividere il suo ruolo e la sua funzione. Solo così si può capire l’alto grado di maturità e responsabilità che Servillo riconosce a questa relazione – sia a teatro che al cinema – quando dice che l’attore è anzitutto un testimone e che il regista ripone in lui la sua fiducia e si sente testimoniato dall’attore.[12]
Lavorare con Servillo significa allora riconsiderare l’equilibrio tra il regista e l’attore e scoprire la figura del ‘regista/attore’ che al cinema è assai più inedita che a teatro, se non altro a causa di una serie di procedimenti tecnici e creativi che gradualmente distanziano sempre più l’interprete dalla sua performance e lo consegnano ad un altro tipo di scrittura e di modulazione. Ciò che però un attore come Servillo vuole che rimanga nello spettatore che pure lo vede su uno schermo, è la consapevolezza che qualcosa ‘stia accadendo’, che qualcosa si stia formando materialmente grazie ad una serie di strumenti di cui il corpo dell’attore si fa catalizzatore privilegiato. Questa consapevolezza deve farsi strada anche se il cinema non potrà restituire l’effimero ‘accadimento’ teatrale e non lo potrà fare – in maniera del tutto paradossale – proprio perché quell’accadimento è registrato per sempre e consegnato alla dimensione del passato.
Questo passaggio lascia intendere come mai Servillo – che considera cinema e teatro come marito e moglie che dormono in letti separati –[13] sia anzitutto inquietato dal montaggio, cioè da quella fase creativa in cui non solo l’attore non presta più il suo corpo, ma in cui qualcun altro può rimodellare il senso di un gesto, di un movimento, di uno spazio e di un tempo plasmati da scelte fisiche di recitazione. Il montaggio è il luogo in cui le diverse culture visuali si fronteggiano dovendo fare i conti con lo specifico delle loro esigenze narrative, dovendo fare i conti con il proposito dell’opera, che porta – nei casi migliori – ad offrire al pubblico qualcosa di comprensibile ed emozionante all’interno di regole di scrittura più o meno condivise.
Teatro e cinema sono spesso stati – e sempre più in anni recenti, anche in Italia – l’uno l’‘oltre’ dell’altro. Messe in scena in cui l’immagine in movimento sfonda prospettive e proporzioni corrono parallele a film in cui la teatralità esibita arresta e rivitalizza il normale scorrere del racconto per immagini. Ma oltre agli esiti più sperimentali e se vogliamo più dichiaratamente teorici e concettuali, oltre al desiderio di cinema e ai tanti progetti di film che stanno nei cassetti di diverse compagnie,[14] esiste la possibilità di lavorare alla fusione delle esperienze, lungo una contaminazione di tipo inclusivo che infiltra il teatro dentro il corpo del film e ci offre soluzioni spazio-temporali che, d’improvviso, mutano la dimensione del nostro esperire ciò che stiamo vedendo.
Materie
Al di là allora di quella che può essere la fattiva collaborazione che Servillo offre sul set ai suoi registi, va sottolineato un altro genere di contributo che si attesta al livello del linguaggio filmico, in una particolare declinazione vincolata in maniera significativa al corpo dell’attore e che si rivela assolutamente incisiva non solo nel definire e prolungare quello che gli studiosi delle emozioni definirebbero il mood del film, ma anche a guidare lo spettatore dentro lo spazio filmico.[15] Come si sa, il film viene costruito stilisticamente per simulare uno spazio in cui lo spettatore non solo si orienti, ma possa muoversi e simulare l’azione. I movimenti di macchina e le regole di montaggio servono ad assecondare – oppure a rifiutare volutamente – questo gioco preriflessivo che risulta fondamentale per l’elaborazione della nostra cognizione filmica. Diversi studi nel campo della psicologia visuale e delle neuroscienze cognitive hanno dimostrato quanto importante sia la costruzione di questo spazio frammentato che invece risulta perfettamente unificato e sensato agli occhi dello spettatore.[16] Lo stile del film gioca un ruolo decisivo in questo senso, ma nel caso che stiamo analizzando ci preme mostrare come anche un attore possa divenire il marker che dà senso ad uno spazio, che disegna uno spazio e lo rende coerente, esattamente come accade a teatro con un gesto, una camminata, o un semplice movimento. In altri termini, la materialità che in più momenti Servillo ama richiamare per le sue performance teatrali – e che si basa fondamentalmente sull’educazione della propria fisicità –, può funzionare ugualmente anche al cinema e andare a porsi in posizione dialettica rispetto alla materia del film stesso.
Sono tanti, come vedremo, i film in cui è Servillo a svolgere da sé il ruolo che altrove è affidato a soluzioni di montaggio o a scelte registiche volte alla costruzione dello spazio filmico. Si tratta di un caso in cui lo spazio scenico – nel quale le regole di orientamento seguono tutt’altre direttrici – e lo spazio filmico vengono trattati alla stessa stregua, grazie ad un attore che decide di designare il suo spazio nel film come designerebbe il suo spazio sulla scena, con la sola differenza che nel film deve regolare la sua gestione dell’azione sulla base di una presenza terza che è quella della macchina da presa (mdp).
Sentiamo che dice Servillo a proposito della sua filosofia di recitazione, strettamente legata a canoni e sensibilità ritmiche musicali:
In realtà anche in teatro mi interessa molto lavorare su una prossemica elementare, cioè su una scienza che stabilisca con esattezza i rapporti spaziali e le loro combinazioni che chiariscono la drammaturgia musicale, in rapporto ad una gestione dello spettacolo non coreografica, ma coreutica.[17]
L’attenzione allo spazio e alle combinazioni spaziali che rendono significante l’azione di un attore è problema profondamente cinematografico, per quanto nell’arte del film ricadano quasi esclusivamente tra le mani del regista e del montatore, escludendo l’attore da questa particolare filosofia spaziale. Le performance cinematografiche di Servillo riattivano una serie di questioni linguistiche capitali che – in tempi, cinematografie e mode culturali differenti – hanno legato il corpo dell’attore al linguaggio del film.
Lasciando da parte ogni discorso d’avanguardia o sperimentale, che ci porterebbe del tutto fuori strada considerando qual è la via cinematografica scelta da Servillo – quella di un cinema d’autore non privo di presa popolare –, non possono però non venire alla mente almeno gli scritti di Ejzenštejn, che torna più volte negli anni sulla relazione tra la recitazione e il linguaggio del film, osservando come sia decisivo che una nuova teoria del montaggio sia legata ad una precisa idea di recitazione fondata sulla consapevolezza dello spazio in cui l’azione si sviluppa (Il montaggio delle attrazioni, 1924), oppure come sia fondamentale la reciprocità tra il gesto, la voce e le scelte stilistiche per dare fondamento a qualsiasi struttura audiovisiva (Il montaggio verticale, 1940).
Non è un caso – ed anzi mi pare che ciò sia in linea con quanto qui sostenuto – che tali note abbiano stimolato riflessioni sopra lo scambio semiotico tra cinema e teatro e sul modo in cui l’‘immagine’ teatrale, che si offre senza limiti allo sguardo, e il ‘quadro’ cinematografico, che costringe invece il punto di vista, possano comunicare.[18]
L’idea centrale in Servillo, secondo cui la recitazione deve mantenere la sua natura di elemento vivo che si dà ‘in atto’, si offre in fondo come elemento di congiunzione nel momento in cui l’attore si cala all’interno del quadro cinematografico. Si potrebbe dire che Servillo tende costantemente a sfondare questo quadro, a fare sentire il più possibile lo svolgersi, il compiersi, il formarsi della sua recitazione anche davanti agli occhi dello spettatore cinematografico. Come ha detto Claudio Cupellini, «un film con Toni Servillo per un giovane regista è una lezione di cinema che si mastica e si assimila mentre si gira. È un work in progress».[19] Ed è proprio questo elemento di ‘progressività’ ad incidere sulla materia del film e a restare visibile anche a film concluso.
Ciò che Servillo dice a proposito dei rapporti spaziali e delle loro combinazioni, o a proposito della drammaturgia musicale fondata su una gestione coreutica dello spettacolo, certamente rimanda a un’esperienza teatrale maturata all’interno della scuola e della tradizione napoletana, ma al contempo, oggi, non può non riportarci davanti agli occhi la straordinaria lettura prossemica del Divo, in cui è il movimento compresso del personaggio Andreotti a sottrarre realismo e a denunciare la spettacolare messa in scena delle azioni e delle loro conseguenze: c’è qualcosa che sta avvenendo dentro l’attore, che sta compiendosi nelle pieghe di una sua espressione e che riempie di senso una narrazione per la quale la mdp deve assecondare la grammatica del corpo dell’attore. Oppure si pensi alla superba camminata che Servillo s’inventa per il suo Marino Pacileo alias Gorbaciof, una camminata che diventa il sigillo del film, dentro la quale non solo sta ‘tutto’ il personaggio, ma sta la filosofia visiva del film, con la mdp portata a mano che può seguire il movimento, oppure che lo può attendere fissa, ma che non può in nessun modo svincolarsi da esso, né tantomeno tagliarlo e restituirlo frammentato. I non-luoghi che Gorbaciof attraversa diventano un enorme palcoscenico realistico nel quale condurre il pubblico con una libertà di movimento più teatrale che cinematografica.
Siamo di fronte a casi in cui la performance offre non solo la struttura segreta del film, ma la chiave di risoluzione stilistica della narrazione stessa, uniformando spazialità e temporalità al comportamento dell’attore. Del resto lo stesso Servillo è ben consapevole di questo atteggiamento, quando osserva quanto sia importante per lui, quando gira un film, trovarsi nel punto giusto dell’inquadratura,[20] suggerire il movimento di macchina, imporre il proprio personaggio fisicamente e psicologicamente e perfino suggerire o aggirare il taglio di montaggio.
Ora, resta evidente che questo particolare ‘dirActor’s cut’ si trova a suggestionare solo alcune parti dei film e solo in casi rari offre una copertura maggiore rispetto al testo filmico. Ma più oltre osserveremo come tale atteggiamento prevalga nelle sequenze più significative sia dal punto di vista narrativo che stilistico e fin d’ora possiamo tranquillamente invitare il lettore a concentrarsi con la memoria sui film che ha visto interpretare da Servillo per notare, con un semplice esercizio, come non solo alla sua mente si affacceranno le sequenze più smaccatamente ‘servilliane’, ma anche come l’‘umore’ stilistico del film – giacché immagino sia difficile ricordare esattamente movimenti di macchina e scelte di montaggio – sia del tutto uniformato al dettato dell’attore.
Tradizioni
Quanto scritto fin qui perderebbe di senso se si trascurasse il fatto che tutta questa ricerca ricade dentro una tradizione che potrebbe non essere immediatamente ricondotta a questi esiti, vale a dire la tradizione spettacolare su cui si è innestata l’esperienza dei Teatri Uniti, sempre attenta a legare lo studio drammaturgico e le sue innovazioni ad un contesto sociale, culturale e civile – nello specifico quello napoletano.[21] Basta dare uno sguardo nei credits di film quali Morte di un matematico napoletano (Martone, 1992), o Teatro di guerra (Martone, 1998), ma anche dei primi film di Sorrentino e Molaioli. Vi si troveranno persone che lavorano o hanno lavorato e collaborato a diverso titolo e livello con Teatri Uniti. Pescando alla rinfusa: Angelo Curti, Licia Maglietta, Enzo Moscato, Fabrizia Ramondino, Anna Bonaiuto, Carlo Cecchi, Lino Fiorito, Stefano Incerti, Valia Santella, Pasquale Mari, Andrea Renzi, Daghi Rondanini, Nicola Giuliano, Jacopo Quadri, Cesare Accetta, e ovviamente Martone, Servillo ed anche Sorrentino.
Siamo di fronte ad una storia in cui l’aspetto locale rimane la base per una proposta universale che tuttavia è comprensibile solo a patto di non rinunciare a quella località. Tale discorso è stato fondamentale – e in parte lo è ancora e forse lo sarà sempre di più – anche per il cinema italiano e proprio a partire da quegli anni ‘di transizione’ di cui parlavamo in apertura e verso la fine dei quali Servillo ha cominciato a recitare per il cinema. Nel già citato volume edito dalla Mostra di Pesaro, Vito Zagarrio sottolineava quanto fosse interessante ed indicativo notare la comparsa di scuole emerse in aree locali come la Lombardia, la Sicilia, la Toscana e in particolare l’area intorno a Napoli, con autori come Martone, Antonio Capuano, Pappi Corsicato, Antonietta De Lillo, Stefano Incerti, Giuseppe Gaudino, Salvatore Piscicelli. Quel che Zagarrio mette in luce è come tali scuole, e quella napoletana soprattutto, si caratterizzino per la libera intersezione al loro interno di forme d’arte differenti, per il contatto tra gruppi diversi e per lo scambio di idee e di collaboratori. Al contempo viene evidenziato come uno dei maggiori aspetti di novità di questo nuovo cinema italiano sia l’importanza sempre crescente di un gruppo di attori ed attrici che hanno la possibilità, insieme, non solo di dare una presenza fisica a questo cinema, ma perfino un certo potere economico[22] – a quel tempo, ‘il divo’ era Sergio Castellitto.
La rilevanza di queste scuole regionali può essere compresa e letta come una reazione al vuoto di identità seguito agli anni di piombo e poi al cinema difficile degli anni Ottanta, come il primo passo verso la ricostruzione di un tessuto sociale formato da uomini e donne impegnati a diverso titolo nel campo della cultura: registi, drammaturghi, artisti, attori, musicisti, fotografi e così via. Questa azione sembra essere la risposta ad un bisogno di confronto con un ristretto, ma profondo, senso di appartenenza – ad un’area geografica, ma anche ad una vicenda culturale – senza il quale risulta impossibile giungere ad interrogare lo stato sociale e culturale dell’intero paese. Il sentimento morale che serpeggiava in certo cinema della transizione e che a sprazzi abbiamo rivisto sul finire del primo decennio di questo secolo – si pensi se non altro alle fortune del cinema del reale – ricorda quei momenti di incertezza e di rinascita che hanno caratterizzato altri – e più drammatici – momenti della nostra storia, ma che ci permettono di capire perché artisti come Servillo, cresciuti ed educati dentro questa tradizione, avvertano la loro ricerca come un contributo ad un impegno civile e ad uno sforzo morale che deve passare per le arti, per il teatro, per il cinema.[23]
Nel suo studio sul ‘divismo all’italiana’, Marcia Landy ha osservato come dal secondo dopoguerra in poi gli attori del cinema italiano abbiano lavorato su precise connotazioni geo-antropologiche, cesellate nella lingua e nella corporalità. Era un modo, secondo Landy, di fare incontrare tradizione e modernità, regionalismo e valori culturali e nondimeno di creare una nuova estetica legata a un’industria.[24] L’interrelazione tra acting e direction, unita alla sensibilità nel legare tradizione e modernità, ci permetterebbe di collocare Servillo anche sulla scia di una scuola di attori cinematografici che pure non rientra tra i modelli in più sedi richiamati dall’attore medesimo.
Fondazioni
Come si legge anche nel loro Manifesto, l’esperienza dei Teatri Uniti è legata a un’idea di teatro profondamente radicata in una situazione sociale quale quella di Napoli e poi dell’Italia tra i tardi anni Ottanta e i primi Novanta. Alex Marlow-Mann ha scritto che «the collective nature of Teatri Uniti’s work provides the strongest argument that the N[ew] N[eapolitan] C[inema] should be considered a distinct and coherent movement».[25] Si tratta insomma di un momento di rifondazione culturale e di intervento sociale senza il quale non è possibile dare una coerenza progettuale al nuovo cinema napoletano. Per tali ragioni non è nemmeno possibile comprendere la pervasiva azione del Servillo cinematografico se non si capisce che cosa di quella esperienza è transitato verso il cinema.
Isoliamo tre punti, alcuni già menzionati, altri che vedremo, che a mio modo di vedere giocano un ruolo decisivo nelle proposte registiche e attoriali di personaggi di spicco del gruppo come Servillo e Martone: 1) la reciprocità tra autore e attore; 2) la concreta consapevolezza dello spazio dell’evento e il valore di questo accadimento sia in teatro che al cinema; 3) la responsabilità morale nei confronti del pubblico. Sono principi che Servillo conserva sia quando lavora sulla tradizione napoletana, che quando reinterpreta i classici, o si ritrova a dover interpretare un personaggio cinematografico. In ognuno dei suoi personaggi filmici Servillo instilla qualcosa del suo lavoro teatrale: la riflessione sul corpo che risale ai tardi anni Settanta con il Teatro Studio di Caserta; lo studio sulla lingua e sulla tradizione popolare, sul gesto, favorite dall’incontro con Leo De Berardinis e Perla Peragallo, l’attenzione alle parole e al loro significato e suono e il lavoro sulla voce, che molto significativamente raggiunge uno dei suoi picchi in un film, Il divo; infine, la consapevolezza di una spazialità dettata dall’attore e dal suo comportamento che è l’elemento più complesso e sorprendente che Servillo riesce a trasferire nel film.
Corpo
Il modo in cui Servillo usa relazionarsi con lo spazio profilmico – ferme restando le strutture cinematografiche in cui si cala – riporta per certi versi alla mente un concetto di corpo cinematografico che risale alle origini del cinema. Come ha mostrato in maniera convincente Jonathan Auerbach, nella primissima e pre-narrativa fase della storia del cinema, gli aspetti cinestetici del corpo umano erano ritenuti decisivi per creare un ponte con lo spettatore – tema dalle conseguenze neurocognitive profonde. Al contempo la mobilità della figura umana giocava un ruolo chiave nell’occupare, organizzare e configurare lo spazio.[26] Pensiamo ancora a quel che scrive Landy dei ‘Diva film’ italiani degli anni Dieci – riportandoci vicini al nostro titolo: «[the diva] was in many instances […] the creative impulse for the film, functioning even as director, as was arguably the case with the diva Francesca Bertini».[27]
Ci sono diversi momenti in cui è facile rendersi conto di come la performance di Servillo organizzi lo spazio. Per esempio, vi sono casi in cui il regista usa la mdp per seguire il modo in cui l’attore si muove e cammina in sequenze in cui si rinuncia al taglio di montaggio proprio per non rinunciare alla continuità di un movimento dispersivo – com’è il caso della scena della discoteca in L’uomo in più (Sorrentino, 2001, film in cui il comportamento della mdp è del tutto diverso nel trattare le figure di Servillo e di Renzi), o del salone di automobili in Luna Rossa (Capuano, 2001). Oppure si può pensare alla soluzione delle scene più emozionanti di Una vita tranquilla, giocate tra il ristorante e la cantina dove è stato nascosto un cadavere, o anche di più all’incipit di Gorbaciof – e a molti altri momenti, essendo questo film il testo per eccellenza rispetto a questo genere di contributo – dove lo stesso effetto è raggiunto assecondando Servillo con l’uso della macchina a mano. Sono casi in cui l’attore non solo si appropria dello spazio e lo sottrae ad altre scritture, ma possiamo dire che ne offra allo spettatore l’esatta misurazione.
Di nuovo, questa centralità del corpo richiama un altro degli aspetti caratterizzanti il nuovo cinema napoletano, come aveva osservato Dario Minutolo:
Quello del corpo, delle sue diverse declinazioni, è un tema molto forte che il cinema napoletano mutua da una cultura secolare, che trova espressione nella gestualità e nell’erotismo, ad esempio, ma anche nella consapevolezza del «corpo proprio» come prima fonte di conoscenza, di «orientamento», non meno che nel «corpo della città» e nel corpus testuale che essa rappresenta e in cui si rappresenta.[28]
Di nuovo è interessante notare la reciprocità tra attore e regista – «questa attenzione al corpo, che è poi sempre corpo dell’attore a cui si oppone/accosta la mdp come corpo del regista» – fino a descrivere il film come una sorta di «corpo a corpo» tra autore, attore e testo.[29] Sono tutti elementi che ci consentono di cogliere la continuità tra le due esperienze, messa bene in luce anche dalle parole di Claudio Cupellini: «La grandezza di un attore come Servillo sta nel portare tutte le virtù del teatro al cinema senza che muoia la componente cinematografica».[30]
Cinema: personaggi
Nonostante ciò, alcuni degli elementi che andremo a isolare nella recitazione cinematografica di Servillo sorprendono a prima vista per il loro presentarsi come essenzialmente anti-cinematografici: lunghi silenzi, oppure intensi monologhi, immobilità fisica di contro ad improvvisa fluidità, radicalità dello sguardo in macchina. Tutte queste soluzioni comportano il ricorso a long takes e piani sequenza, a falsi frame-stops e ingenerano tempi morti carichi di una metariflessività che sembra voler spingere il senso del film continuamente oltre il testo. Si badi che Servillo non inibisce il regista, ma piuttosto stimola una ‘regia forte’ che si esalti nel confronto con le sue posizioni – si spiega così il rapporto con un regista di personalità come Sorrentino.
Toni Servillo struttura i suoi personaggi cinematografici in modo da renderli, per usare i termini di Marc Vernet, «garanti dell’immagine»,[31] un’idea che è molto vicina al valore testimoniale dell’attore che Servillo rivendica in teatro. Ciò avviene, oltre che con le scelte recitative di cui s’è detto, anche grazie all’ironia che sfuma questi personaggi e permette all’attore di muoversi agevolmente tra il personaggio e la sua interpretazione rendendo lo spettatore consapevole che qualcosa sta accadendo di fronte a lui, proprio mentre guarda il film.
A mio parere i personaggi cui Servillo dà forma costituiscono una brillante incarnazione di personaggi ‘post-realisti’, trattenendo in sé quello «state of afterness»[32] che, in linea con Millicent Marcus, si esprime rendendo visibile il processo di costruzione. Nella sua analisi del Divo quale testo chiave per comprendere la sua idea di cinema italiano post-realista, Marcus osserva come sia forte l’impressione che Giulio Andreotti si formi proprio davanti ai nostri occhi. Un’osservazione che dà conto di come il processo di costruzione del personaggio, la sua materialità, non vada persa al momento del trapasso nel film, per cui si ritrovano, in quell’Andreotti, le varie fasi della sua preparazione:
Prima delle riprese, durante le sedute di prova del trucco, ho sviluppato il comportamento, la camminata, l’atteggiamento fisico, la voce, che è stata per me la parte più angosciante perché è la cosa più personale di un attore, è l’intonazione del suo strumento. Con il personaggio di Andreotti ho dovuto recitare con una voce che non è la mia. Ma è valsa la pena di fare tutti questi sacrifici.[33]
Ancora questa ricerca sul personaggio cela un impegno civile mai slegato dalla sua componente metariflessiva, tanto da far dire a Servillo che la sua recitazione nel Divo si poneva anzitutto l’obiettivo di aiutare gli spettatori italiani a capire che genere di spettatori erano stati durante quella lunga stagione politica.[34]Un punto sul quale anche Marcus chiude il suo articolo: «the space between Sorrentino’s Giulio and history’s Andreotti is the space that we must now inhabit as spectators and citizens, charged with the responsibility for rendering judgment on a history that is still playing itself out in the present tense of Italian life».[35]
Questa volontà di costruire il personaggio di fronte alla mdp era già ravvisabile in Luna rossa, in cui ci troviamo di fronte per la prima volta al personaggio che Servillo privilegerà al cinema: Amerigo è un personaggio da tragedia classica perfettamente a suo agio nel ruolo di boss della camorra. Giocando sul termine ‘tragediatori’, coniato dal vecchio boss per definire i membri della famiglia Cammarano, Capuano si muove fra tragedie cronachistiche e tragedia greca e necessita di attori in grado di sfumare il passaggio dall’una all’altra o di offrircele in parallelo. Servillo comincia a caratterizzarsi per la sua scontrosità, la dissimulazione dei sentimenti, i silenzi ostinati ed una violenza che conserva una sua perversa sacralità e che acquista peso man mano che la presenza scenica di Servillo prende il sopravvento sugli altri personaggi – en passant si potrebbe notare che Amerigo, quando è nervoso, si tocca la fede nuziale proprio come farà Andreotti nel Divo.
Su questo personaggio e su questo registro si attesteranno, pur affinandosi e offrendo un maggior contributo linguistico al film, i protagonisti dell’Uomo in più, delle Conseguenze dell’amore (Sorrentino, 2004), del Divo, di Gomorra e del Gioiellino (Molaioli, 2011). Diversi saranno invece i ruoli del Maestro Falasco in Lascia perdere, Johnny! (Bentivoglio, 2007), una sorta di cammeo comico, e del commissario Sanzio in La ragazza del lago (Molaioli, 2007), in cui la scontrosità, i silenzi e l’immobilità si attagliano ad un personaggio positivo e profondamente ironico, forse il primo caso al cinema in cui Servillo raggiunge in pieno «lo spazio di movimento che c’è tra sé e ciò che ritorna dai personaggi a se stessi».[36]
La caratterizzazione psicologica del personaggio attraverso soluzioni fisiche di recitazione porta fino al punto estremo di cambiare una sceneggiatura una volta che si sa di avere Servillo come attore. Diego De Silva, sceneggiatore di Gorbaciof, ha raccontato come Marino Pacileo fosse, in una prima stesura, un personaggio dalla psicologia complessa, quasi un eroe romantico. La scelta di Servillo ha finito col cambiare questa psicologia,[37] o forse sarebbe meglio dire con lo stilizzarla nella sua stessa filosofia recitativa. Per inciso potremmo notare come la psicologia che Servillo infonde nei suoi personaggi si sia prolungata fino a influenzare anche le fortunate prove letterarie di Paolo Sorrentino. Nel romanzo d’esordio, Hanno tutti ragione (2010), Sorrentino scrive nei ringraziamenti: «Toni Servillo. Il suo viso, sormontato da una parrucca rossiccia e da Ray-Ban azzurrati, ha guidato la creazione di Tony Pagoda»,[38] indirizzando il lettore verso il crooner Antonio Pisapia dell’Uomo in più. Lo stesso può dirsi per il secondo libro, Tony Pagoda e i suoi amici, in cui la sovrapposizione è apparsa talmente forte da indurre in errore i redattori dell’inserto culturale del «Sole 24 Ore», che – forse confusi dalla scelta di inserire un fotogramma proprio dell’Uomo in più e incuranti del fatto che l’estensore dell’articolo non nominasse l’attore – hanno intitolato una recensione al libro di Sorrentino Il mondo adulto di Servillo.[39]
Stili
L’uomo in più resta il vero turning point nella carriera cinematografica di Toni Servillo non soltanto per quanto concerne la caratterizzazione del suo ‘personaggio-tipo’, ma anche per quel che riguarda il contributo stilistico. È questo il film in cui si ritrova uno stile cinematografico che Sorrentino sta cercando come neo-regista e Servillo studiando come attore di teatro che valuta sempre più la possibilità di spendersi altrettanto bene nel cinema. Da un lato il mondo poetico di Sorrentino conduce Servillo verso la scelta di una recitazione passiva fondata su pause, silenzi e una gestualità molto controllata. Dall’altro lato, la fisicità di Servillo, il suo approccio teatrale e la particolare relazione che intesse con il personaggio aiutano notevolmente Sorrentino a indovinare il giusto ritmo e a strutturare lo spazio del suo film. Da subito la coppia Sorrentino-Servillo – come molte altre volte è accaduto al cinema – dimostra un equilibrio che fa sì che l’attore incarni alla perfezione non solo l’idea di personaggio del regista, ma la soluzione stilistica che sta dietro il personaggio.
Il ricorso alla recitazione passiva è senza dubbio ciò che più di ogni altra cosa colpisce lo spettatore medio che assiste ad un film di Servillo. Certamente questa scelta non è né del tutto nuova, né esclusivamente cinematografica, se c’è chi, come Silvia Grande, trova similitudini tra il Titta Di Girolamo delle Conseguenze dell’amore e il Peppino Priore che Servillo portava in scena durante le riprese del film nel suo fortunato adattamento di Sabato, domenica e lunedì,[40] nonostante, al di là delle differenza espressive, il personaggio di Titta e quello di Peppino giochino un ruolo del tutto diverso nell’economia narrativa e drammaturgica del film e del testo teatrale, il che potrebbe portarci a riflettere, con Anna Barsotti, sul processo di attrazione verso il ruolo di protagonista che caratterizzerebbe il Servillo cinematografico.[41]
Questo tipo di recitazione, fondata su lunghe pause, silenzi e insistiti sguardi in macchina, enfatizza al contempo la metariflessività del personaggio e un atteggiamento refrattario nei confronti della mdp e dei suoi tempi, che in qualche modo può essere ricondotto allo stile di De Filippo:
La pausa di Eduardo – ha detto Servillo – è la drammatizzazione dell’evento, qualcosa che prescinde dalla narrazione e che fa riflettere il teatro su se stesso, spostando lo spettatore nella dimensione della vita rivelata, fa cadere la maschera e il personaggio, e lo lascia nudo davanti all’esistenza.[42]
Spesso, nei film di Servillo, la pausa coincide con lo sguardo in mdp, senza dubbi – a usare le parole con cui l’attore descrive la recitazione di Eduardo – il momento in cui si esalta la drammatizzazione dell’evento, si sottolinea l’attimo in cui si prescinde dalla storia e si trasporta lo spettatore verso una rivelazione in cui stile e vita si trovano a coincidere. Come diceva Edward Branigan, lo sguardo in macchina è inconcepibile perché non presuppone il controcampo, a meno di non mostrare, nel controcampo, la mdp, o – paradossalmente – noi spettatori.[43] In altre parole è un vicolo cieco narrativo, uno scacco del linguaggio filmico.
Nell’Uomo in più il cantante Antonio Pisapia fissa la mdp dopo il suo ultimo e sfortunato concerto in un paesino sperduto, nel momento in cui capisce che la sua carriera, insieme con la sua vita precedente, è finita.
Nelle Conseguenze dell’amore, la stessa tecnica è usata con la medesima intensità e significato durante il primo monologo – in voce off – di Titta, quando presenta se stesso e arriva a dire «Io non sono un uomo frivolo…» e poi di nuovo alla fine del film, circolarmente, quando Titta sta sparendo nel cemento.
Lo sguardo in macchina può essere sostituito da un’altra soluzione quale il falso frame-stop, dove il regista sfrutta la capacità di Servillo di rimanere perfettamente immobile, come se lo scorrere dei fotogrammi fosse stato arrestato. Nelle Conseguenze dell’amore il direttore dell’hotel dove Titta vive gli dice: «Lei sarebbe un magnifico giocatore di poker. Ha il volto immobile». Non è dunque un caso se in questo stesso film troviamo uno dei più notevoli falsi frame-stop, durante la scena del bluff nella banca: Sorrentino, con un movimento di macchina avvolgente arriva a fermarsi sul volto pietrificato di Servillo che non muove un muscolo. Questa fissità, la stessa che costringe gli impiegati a cedere, rilancia il patto segreto che il cinema di Sorrentino continuamente rinnova con il suo spettatore grazie a ricorrenti gesti di intesa che sembrano debordare rispetto alla narrazione.
Lo sguardo in macchina e il falso frame-stop sono radicalizzati da Sorrentino nel Divo, che può essere considerato il film in cui il regista ottiene il massimo dallo stile filmico della recitazione del suo attore. Le occorrenze di sguardi in macchina sono numerose, accompagnate da casi in cui l’attore oltrepassa con lo sguardo il contatto con la mdp e lo spettatore. Come abbiamo già avuto modo di dire, Il divo è un film che implica anche un discorso sul concetto di spettatorialità e questo è il motivo per cui lo sguardo in macchina è così ricercato e vi si fa ricorso anche con altri personaggi, quali il Cirino Pomicino di Carlo Buccirosso, o lo Sbardella di Massimo Popolizio. Nel Divo rintracciamo anche l’uso del falso frame-stop come apertura critica rispetto al reale significato di quella che, fin dal sottotitolo del film, viene definita «la spettacolare vita di Giulio Andreotti». Durante la presentazione del settimo governo Andreotti, abbiamo un vero frame-stop che immortala il momento storico e in qualche modo lo documenta. All’opposto, alla fine del film, durante il processo, abbiamo un falso frame-stop – che Servillo e Sorrentino si premurano di svelare attraverso un batter di ciglia – che sottolinea con ironia l’imprendibilità della verità nell’ultimo show del divo.
I monologhi sono strettamente legati a questo genere di soluzioni linguistiche, essendo momenti in cui la storia è come sospesa e riflette su di sé, come dimostra anche l’ottimo, e ultimo in ordine di tempo, monologo del senatore Beffardi – la preparazione del discorso di dimissioni che non pronuncerà mai, ma anche il vero messaggio del film – in Bella addormentata. Dopo i monologhi dell’Uomo in più e delle Conseguenze dell’amore, quello del Divo si presenta come una delle migliori e più emblematiche scene del cinema italiano contemporaneo, del tutto in linea con la poetica post-realista di cui s’è detto. A questo proposito, e a conferma della coerenza di percorso, sarà utile ricordare un aspetto quasi mai sottolineato, vale a dire il fatto che Sorrentino avesse detto a Servillo di essersi ispirato, mentre scriveva il monologo, a quello che Servillo recitava nello spettacolo – poi divenuto anche film – Rasoi, e gli abbia chiesto di tenerlo a mente. Si tratta di un monologo all’apparenza molto diverso da quello di Andreotti, sia da un punto di vista fisico che spaziale, ma nel quale Servillo sostiene ci sia «una matrice comune».[44]
È importante notare come Sorrentino prepari la scena del monologo del Divo denunciandone la natura teatrale, mostrando Andreotti in casa sua sotto dei riflettori da palcoscenico, mentre si appresta ad esibirsi nel suo pezzo forte.
Servillo, durante il monologo, non rinuncia alla sua recitazione passiva, ma riesce a mostrare perfettamente il crescendo delle emozioni e dell’eccitazione del suo freddo personaggio attraverso il controllo accurato di una micro-gestualità e di una micro-mimica che solo al cinema può funzionare. Per tutto il tempo del monologo Andreotti/Servillo non guarda in macchina, va oltre, fissa una certa idea di verità cui guardava anche nel giorno della formazione del suo settimo governo. Alla fine i riflettori si spengono nel surreale teatro rappresentato dalla casa del Presidente. Già i primi due film di Sorrentino – e Il divo a maggior ragione, nonostante quel senso di ‘interpretazione definitiva’ che lo pervade – erano divenuti una sorta di Bibbia per gli altri registi che si trovano a lavorare con Servillo. Molaioli sembra privilegiare il Servillo più controllato e minimalista: il modello è il commissario Sanzio – una variazione di Titta Di Girolamo dalla parte della legge, come ha scritto Roberto Nepoti–,[45] mentre il ragionier Botta del Gioiellino alterna momenti controllati ad altri del tutto enfatici e istrionici. Molaioli sembra lavorare su quella che Maurizio Grande avrebbe chiamato «neutralizzazione della versatilità»,[46] che altro non è che una diversa esaltazione della versatilità medesima. Allo stesso modo il Rosario Russo/Antonio Di Martino di Una vita tranquilla è un personaggio doppio – che diventerà triplo nel finale – che alterna i due livelli di psicologia servilliana, quello compassato e quello violento. Come abbiamo detto Cupellini sfrutta appieno le capacità di Servillo nell’organizzazione dello spazio e imposta sull’ambiguità il suo personaggio fin dalla prima inquadratura e ricorrendo a uno degli stilemi preferiti dell’attore: dopo aver sparato ad un cinghiale durante un’uscita di caccia, Servillo fissa la mdp creando da subito nello spettatore un sentimento di instabilità. Una vita tranquilla è anche un film sul cambio di identità che passa per il trucco e il travestimento, componenti importanti per Servillo da L’uomo in più in poi. Sarebbe interessante, ma non è questa la sede, studiare l’efficacia del Servillo truccato, che oscilla dai casi estremi di Lascia perdere, Johnny!, Il divo, Gorbaciof, È stato il figlio, ad altri in cui basta una barba, una parrucca o un semplice paio d’occhiali a ‘sbilanciare’ il personaggio verso la sua psicologia.
Gorbaciof, caso felicissimo di trucco, è a mio modo di vedere il più servilliano dei film, almeno secondo quanto si è sostenuto in questo scritto. Marino Pacileo conserva molte delle caratteristiche dei precedenti personaggi, ma ha un modo di camminare e di muoversi che raccontano una storia a parte e costituiscono la forma del film. Gorbaciof risulta uno dei più riusciti personaggi del cinema italiano degli ultimi anni e per quanto vada riconosciuto il lavoro di Stefano Incerti e dei suoi collaboratori, da più parti è stato notato che il film ‘è’ Toni Servillo. E questo non nel senso che la recitazione è eccellente ma lo stile del film non le sta dietro, quanto piuttosto nel senso che recitazione e stile del film sono la stessa cosa, combaciano perfettamente. L’uso della macchina a mano diventa una scelta giusta per seguire meglio Servillo e – cosa non da meno – una soluzione importante per un film low-budget rispetto alla steadycam o al carrello (che peraltro non è adatto a Servillo).
Nella sequenza finale di Gorbaciof troviamo il solo e altamente significativo sguardo in macchina del film: Pacileo sta morendo e guarda fuori dal finestrino dell’auto; il suo sguardo è vuoto, di un vuoto che altre volte abbiamo visto nei personaggi di Servillo; Incerti ci offre il controcampo di quello sguardo, un punto di vista assurdo che non sapremmo dire se reale o meno. Poi Gorbaciof muore, semplicemente, con un impercettibile mutamento degli occhi e la perdita di contatto con la mdp e con lo spettatore. Il film non avrebbe potuto procedere oltre. Nemmeno di un’inquadratura.
Resta l’idea, in questo come negli altri film, che tutto dipenda dall’attore, che sia lui a gestire i tempi, a calcolare le reazioni, a scegliere il momento, in altri termini a ‘incorporare’ le materie del film.
1 P. De Sanctis, L’eleganza del divo. Servillo nel cinema italiano, in E. Magrelli (a cura di), Toni Servillo. L’attore in più, Nardò, Besa, 2011, p. 39.
2 La questione del ‘peso produttivo’ di Servillo nel nostro cinema è del resto una missione che l’attore ha reso in più sedi esplicita. Si veda anche l’ultima videointervista, rilasciata a «la Repubblica» durante l’ultima Mostra veneziana, in cui riferisce questo suo impegno all’opera prima di Daniele Ciprì e dei suoi produttori: http://video.repubblica.it/dossier/venezia-2012/venezia-69-servillo-siciliano-tragico-per-cipri/104096/102476?ref=HREC2-10 (consultata il 02/09/2012).
3 L. Irdi, I miei mille volti d’attore nell’Italia dei cinici e dei disperati, «Il Venerdì», supplemento a «la Repubblica», 22 luglio 2012, p. 15.
4 Cfr. V. Zagarrio (a cura di), Il cinema della transizione. Scenari italiani degli anni Novanta, Venezia, Marsilio, 2000.
5 M. Marcus, The Ironist and the Author: Post-Realism in Paolo Sorrentino’s Il Divo, «The Italianist», 30, 2010, pp. 245-257.
6 Sulla resistenza comunicazionale del cinema all’interno del generale addomesticamento del visuale, rimando ad un breve e puntuale intervento di Gianni Canova che dà conto di questa situazione: G. Canova, Il cinema italiano nell’era del Cavaliere, «MicroMega», 6, 2010, pp. 3-8.
7 T. Servillo, G. Capitta, Interpretazione e creatività, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 15.
8 A. Cappabianca, Totò: le distrazioni del linguaggio, «Filmcritica», 222, 1972, p. 71.
9 E. Magrelli, Il talento e la disciplina. Conversazione con Toni Servillo, in Id. (a cura di), Toni Servillo, cit., p. 37.
10 S. Grande, Toni Servillo. Il primo violino, Roma, Bulzoni, 2010, p. 144. A tale riguardo potrà valere da ottimo esempio ciò che viene mostrato negli extra del DVD di Gorbaciof: Servillo dà istruzioni alla giovane attrice Mi Yang – che non parla né italiano, né inglese, ma solo il cinese – e poi discute con Stefano Incerti la costruzione di questo complesso personaggio.
11 E. Magrelli, Toni Servillo, cit., pp. 104-147.
12 T. Servillo, G. Capitta, Interpretazione e creatività, cit., p. 89.
13 E. Magrelli, Il talento e la disciplina, cit., p. 25.
14 Si veda il n. 2 (2007) della rivista «Brancaleone», dedicato ai rapporti tra cinema e teatro contemporanei e intitolato Il cinema e il suo doppio.
15 Cfr. G.S. Smith, Film Structure and the Emotion System, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.
16 Cfr. D.T. Levin, C. Wang, Spatial Representation in Cognitive Science and Film, «Projections», 1, 2009, pp. 24-52; J. Magliano, J.M. Zacks, The Impact of Continuity Editing in Narrative Film on Event Segmentation, «Cognitive Science», 2011, pp. 1-27; T.J. Smith, The Attentional Theory of Cinematic Continuity, «Projections», 1, 2012, pp. 1-27. Si veda poi, anche per una ricognizione sulla letteratura, V. Gallese, M. Guerra, Embodying Movies: Embodied Simulation and Film Studies, «Cinema: Journal of Philosophy and the Moving Image», 3, 2012.
17 T. Servillo, G. Capitta, Interpretazione e creatività, cit., p. 31.
18 F. Ruffini, Horizontal and Vertical Montage in Theatre, «New Theatre Quarterly», 2, 1986, pp. 29-37.
19 D. Monetti, L. Pallanch, Claudio Cupellini, in E. Magrelli (a cura di), Toni Servillo, cit., pp. 111-112.
20 La dichiarazione è presente negli Extra del DVD delle Conseguenze dell’amore (Medusa Home Entertainment, 2004).
21 Si veda F. Angelini, Rasoi. Teatri napoletani del ’900, Roma, Bulzoni, 2003, pp. 97-174, e – più recentemente – M. Porzio, La Resistenza teatrale. Il teatro di ricerca a Napoli dalle origini al terremoto, Roma, Bulzoni, 2011.
22 V. Zagarrio, Il cinema della transizione. Cronache di fine secolo, in Id. (a cura di), Il cinema della transizione, cit., pp. 14 e 16.
23 Si leggano al riguardo alcune delle dichiarazioni di Servillo in La valigia dell’attore impegnato: Jasmine Trinca, Toni Servillo, Elio Germano, Alba Rohrwacher, a cura di G.A. Nazzaro, «MicroMega», 6, 2010, pp. 69-84.
24 M. Landy, Stardom Italian Style: Screen Performance and Personality in Italian Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 2008, p. XIII.
25 A. Marlow-Mann, The New Neapolitan Cinema, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2011, p. 19.
26 J. Auerbach, Body Shots. Early Cinema’s Incarnations, Los Angeles-Berkeley, University of California Press, 2007, pp. 6-7.
27 M. Landy, Stardom Italian Style, cit., p. XIV.
28 D. Minutolo, Il cinema all’ombra del Vesuvio. La topografia come “forma simbolica”, in V. Zagarrio (a cura di), Il cinema della transizione, cit., p. 330.
29 Ivi, p. 331.
30 D. Monetti, L. Pallanch, Claudio Cupellini, cit., p. 107.
31 M. Vernet, Le personnage du film, «Iris», 1986, 7, pp. 81-110.
32 M. Marcus, The Ironist and the Author, cit., p. 246.
33 T. Servillo in E. Magrelli, Il talento e la disciplina, cit., p. 30.
34 La dichiarazione si trova negli Extra del DVD del Divo (Medusa Home Entertainment, 2008).
35 M. Marcus, The Ironist and the Author, cit., p. 256.
36 T. Servillo, G. Capitta, Interpretazione e creatività, cit., p. 8.
37 La dichiarazione si trova negli Extra del DVD di Gorbaciof (CG Home Video, 2011).
38 P. Sorrentino, Hanno tutti ragione, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 318.
39 E. Morreale, Il mondo adulto di Servillo, «Domenica», supplemento a «Il Sole 24 Ore», 29 luglio 2012, p. 43.
40 S. Grande, Toni Servillo, cit., p. 126. Si veda quanto scrive al riguardo anche A. Barsotti, Estroversione e introversione in Toni Servillo tra teatro e cinema, in A. Barsotti, C. Titomanlio (a cura di), Teatro e Media, Ghezzano, Felici Editore, 2012, p. 219.
41 Cfr. A. Barsotti, Estroversione e introversione in Toni Servillo tra teatro e cinema, cit., p. 203.
42 E. Magrelli, Il talento e la disciplina, cit., p. 12.
43 E. Branigan, Narrative Comprehension and Film, Routledge, New York, 1992, p. 53.
44 Il video in cui Servillo racconta il fatto si trova online: http://www.youtube.com/watch?v=-VB165Qmb7k (consultato il 07/08/2012).
45 R. Nepoti, Storia di un delitto nella provincia del Nord, «la Repubblica», 14 settembre 2007.
46 Grande parla anche di «diverso utilizzo del volto, che diventa un quadrante di microsegnali automatici, rendendo quasi impercettibile la differenza fra pulsione di vita e pulsione alla quiete»: M. Grande, La commedia italiana, a cura di O. Caldiron, Roma, Bulzoni, 2003, p. 267.