Il 15 luglio 2018 la redazione ha incontrato Roberto Zappalà presso gli spazi di Scenario pubblico, sede della Compagnia Zappalà Danza. La conversazione con il coreografo ha attraversato i nodi principali della sua ricerca artistica – il corpo, il movimento, la residenza, l’impegno – senza dimenticare l’entusiasmo e le insidie del territorio siciliano in cui si radica da sempre la sua attività. L’intervista permette di cogliere l’autenticità di un metodo compositivo ormai riconosciuto a livello internazionale, come dimostrano le lunghe tournée in Argentina e in Europa, e di riconoscere il piglio vulcanico di un autore costantemente in moto.
Riprese audio-video: Francesco Pellegrino, Ana Duque; fotografia: Francesco Pellegrino; foto di scena: Ana Duque; montaggio: Vittoria Majorana, Damiano Pellegrino.
Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.
D: La tua è una danza forte, potente e istintiva, vulcanica e profondamente radicata alla terra. Qual è il ruolo delle tue origini siciliane all’interno del linguaggio coreografico della compagnia Zappalà Danza?
R: Al plu-ra-le! La nostra danza, perché un coreografo senza danzatore è praticamente inesistente. La nostra danza è nata attraverso la convivenza quotidiana con diversi danzatori. Seppur in percentuali diverse, il loro contributo negli anni è stato importantissimo ed essenziale.
La nostra danza è molto vulcanica, ma è quasi un luogo comune ormai. È molto forte, potente. Qualcuno dice erotica. Sono tutte sottolineature che mi stanno bene. Sono giuste. Sono abbastanza corrette. Ed è inevitabile che il territorio sia stato fortemente influencer in questo: perché il territorio è vulcanico, perché il territorio è arrogante, violento, dolce quando vuole; perché il territorio ha questi chiaroscuri straordinari nel carattere delle persone, nella luce, nel clima.
Tutto questo, quindi, credo ‒ ma forse dovrebbero dirlo gli altri ‒ ha influenzato la nostra danza, la mia danza. D'altronde, quasi in maniera scientifica, sono tornato alle mie origini, quindi nella mia città, probabilmente per questa ragione, perché sentivo l’esigenza di costruire qualcosa di profondamente autentico e non credo che sia possibile farlo senza condividere con il proprio territorio alcuni passaggi della propria vita creativa.
D: Dietro ogni espressione artistica e d’autore ci sono sempre delle influenze e dei modelli. Quali sono i tuoi?
R: In realtà non ho mai avuto un modello specificamente artistico o creativo. Non c’è ‘il Coreografo’ che ha stimolato qualcosa in me. Oggi senza alcun dubbio posso dire che il mio modello è proprio il mio territorio. Sono i corpi delle persone ‘normali’, non danzatori, gli atteggiamenti che loro hanno nel loro processo di vita naturale e quotidiano.
Poi ovviamente sono stato influenzato da diversi autori, ma il fatto di essere venuto nel mio territorio all’inizio della mia carriera di coreografo ha fatto sì che tutto andasse in una direzione d’autenticità. Questo è stato il motivo che mi ha spinto a venire in un luogo arido, creativamente, per quanto riguarda la danza. Altrimenti avrei rischiato di ‘copiare’, come spesso accade. Non è una cosa negativa, di per sé, perché comunque ognuno di noi si appoggia a qualcos’altro che è già esistito. Mentre nel caso specifico desideravo proprio cominciare da una situazione basica.
Poi gli autori che hanno influenzato la mia visione di messa in scena artistica sono tanti, ma anche autori e artisti che non hanno nulla a che vedere con la danza.
D: Da fondatore della compagnia Zappalà Danza hai sviluppato, nel corso degli anni, il tuo preciso linguaggio coreografico dove il corpo vuole e deve essere onesto, poetico e istintivo. Qual è la tua idea di movimento e quale la sua genesi?
R: Poetico, istintivo, devoto… Queste sono tutte suggestioni che in parte mi sono creato, in parte ho capito man mano. In fondo non c’è una vera regola di costruzione coreografica nel mio lavoro. Forse la parola più idonea da usare è proprio ‘istintivo’. Quando c’è l’istinto, è difficile programmare un metodo, una metodologia di costruzione.
Molti mi fanno una domanda del tipo: qual è il metodo? In realtà non c’è. Infatti, quando mi chiedono di insegnare coreografia, io mi rifiuto perché non credo che si possa insegnare. Si possono dare dei suggerimenti. Il corpo umano ha una gestione così diversa da una macchina, che mi sembra improponibile immaginare di trasferire agli altri una metodologia assoluta; anche perché, comunque, si parte da e si parla di creatività e questa non può essere scientifica.
Tutte le cose che faccio io non hanno nulla di scientifico, di certo, di sicuro o di ovvio. Possono essere ribaltate totalmente. Non posso firmare come se fosse la bibbia. È semplicemente la mia visione.
Non esiste, quindi, una regola perché l’istinto primordiale è alla base di tutto ed è quello che io cerco poi di trasferire ai danzatori, pur facendo una danza molto costruita. Non è una danza che si basa in scena sull’improvvisazione totale, come fanno tanti altri. È più una danza che usa l’improvvisazione per poi costruire delle cose molto chiare.
Se proprio devo spiegare qualcosa, questo è il meccanismo generale, ma non c’è una regola assoluta. Può essere totalmente ribaltata in base all’opera che stiamo portando in scena.
D: Quindi il processo creativo può variare…
R: Può variare, assolutamente… Varia! Magari non varia il processo ‘creativo pre-creativo’: cioè tutti i lavori che faccio con Nello Calabrò, il nostro drammaturgo di riferimento, le letture, lo storyboard…
L’obiettivo finale però ‒ questo quando capita di insegnare lo dico sempre ‒ è l’opera stessa, che è il risultato dell’opera. È ovvio che è anche il processo che tu hai creato; però ciò che va in scena è quello che il pubblico vede, è l’atto finale che deve essere coerente al tuo pensiero. Tutto il processo creativo può essere anche super intelligente, super logico, ma non è detto che sia piacevole, adatto, corretto, giusto, attraente, a livello performativo.
Quindi a me piace separare molto. Una cosa è il processo creativo che deve essere inevitabilmente coerente, intelligente, colto se è il caso ‒ può essere anche non colto ‒ un’altra è l’attivazione della sensibilità del pubblico. Lì devi arrivare con un prodotto che abbia la sua capacità di attrazione performativa. Io faccio questa differenza. Diversifico le due cose. Non sempre uno spettacolo bello ha avuto un processo ‘intelligente’ e non sempre un processo intelligente arriva ad avere una performance bella. Bella sotto l’aspetto che riguarda l’applauso finale.
Quando dico ‘bellezza’, non dico la bellezza formale ma la bellezza dell’intelligenza del lavoro. Attenzione! Non sto semplicemente dicendo che stiamo lì a zampettare.
Può anche essere solo quello. Se diciamo che la performance deve essere ballata sulla forma, lì bisogna comporre qualcosa che abbia nella forma l’oggetto principale del desiderio. Per questo dico che non c’è una regola, perché dipende da quello che va in scena.
D: La base, comunque, è l’istinto…
R: Io penso che, nella mia danza soprattutto, ci sia l’istinto alla base della mia creatività. Non è un caso che Mo.Dem, il nostro linguaggio, si chiama così perché vuol dire Movimento Democratico. Essendoci molta democrazia, la tendenza è quella di accettare anche l’istinto degli artisti che ci sono in scena.
Questo è un principio che mi porto dietro. Poi ormai sono un bel po’ di anni…
D: Nel 2015 Scenario Pubblico ha ricevuto uno tra i riconoscimenti più significativi del panorama artistico nostrano, divenendo uno dei tre centri di produzione nazionale della danza in Italia. Quali cambiamenti e difficoltà ha comportato questo passaggio così importante?
R: Cambiamenti?! Tantissimi, riguardo a questo nuovo diktat positivo del Ministero, a questo riconoscimento. I cambiamenti, però, non sono sempre stati accompagnati da cose negative. Anzi…
Forse l’elemento negativo è l’eccesso di produttività dello spazio. Paghiamo un po’ lo scotto di poche altre attività, di poche altre strutture simili nella città e ancor più nella regione. Quindi tutta la nuova giovane danza, tutti i giovani autori ‒ ma anche quelli meno giovani ‒ fanno riferimento a noi e questo ovviamente è anche difficile da gestire, imbarazzante certe volte perché c’è un eccesso per cui dobbiamo dire molto spesso di no.
Ovviamente il riconoscimento ci ha fatto un grande piacere. Abbiamo rifirmato per i prossimi tre anni e immagino che ne faremo altri tre. Manca, però, non solo il supporto economico ma soprattutto il dialogo progettuale con il territorio e in particolar modo con la città di Catania. Questa è la cosa negativa. Pur essendo una grande istituzione ministeriale, una delle tre istituzioni ministeriali relativa a questo settore, il sistema istituzionale cittadino non riesce a comprendere quanto questo possa esser ancor più utile all’interno di una città attiva, viva. La città non si è ancora resa conto secondo me di questa opportunità. Tutti gli sforzi sono sostenuti soprattutto dal Ministero, parzialmente dalla Regione Siciliana ma per nulla dalla città di Catania. Magari prima o poi cambierà un po’, ma vorrei sottolineare che questa situazione deve cambiare un po’ per tutti. È vero che noi siamo i più in vista riguardo al nostro settore, ma tutti i settori devono essere ricostruiti sotto l’aspetto delle dinamiche culturali. Vedo che la città è andata un po’ indietro, a parte noi perché c’è un grande sostegno ministeriale. Come Compagnia Zappalà Danza noi giriamo il mondo, ma l’istituzione Scenario Pubblico è un’altra cosa. Ha una location nella città, agisce soprattutto sul territorio. Ciò che noi diamo, lo diamo al novanta per cento al territorio e questo prima o poi se ne deve accorgere. Faccio una piccola divagazione legata alla parte amministrativa. C’è un introito enorme per la città di Catania, mi riferisco al pubblico. Non so esattamente, ma ogni anno ‘noi’ facciamo entrare alla città quasi duecento mila euro in cambio di ‘zero’ da parte della città. Quindi è totalmente l’opposto. Tutta la nostra attività, che si fa per merito del Ministero e parzialmente della regione, dà alla città (alberghi, negozi, ristoranti, ecc.) otto mesi di remunerazione continua di questi ottanta, novanta o cento artisti che ciclicamente vengono e frequentano lo spazio. Poi c’è il passaggio di ciò che rimane alla città culturalmente: le lingue che questi artisti parlano. La cosa che mi farebbe più piacere fare è costruire un sistema che faccia avvicinare gli artisti per farli rimanere qui. Questo sì che cambierebbe non solo la percezione dell’arte, della cultura performativa nei cittadini, ma soprattutto farebbe crescere il livello di civiltà di Catania che è veramente basso.
D: Ti sei cimentato in alcune ‘riscritture’ come quelle di Romeo e Giulietta 1.1 (La sfocatura dei corpi) del 2006, che hai portato di nuovo in scena nel 2016, esattamente dieci anni dopo. Qual è il rapporto tra le due opere e qual è la ragione che ti spinge a riportare in scena delle produzioni coreografiche del passato? E in questo senso che metodo di lavoro prediligi? Lettura precisa e filologica o reinterpretazione di un’opera sulla base di una partitura preesistente?
R: Proprio adesso ho appena firmato un contratto per il Teatro Regio dell’Opera di Torino e farò una rivisitazione, appunto, di un’opera di Pirandello ‒ a cui ho pensato due mesi prima di dire sì ‒ La Giara su musica di Casella. È un’opera abbastanza sconosciuta nel campo musicale operistico. Mi interessava proprio il tema pirandelliano perché lo avevo già fatto. Riprendere un dialogo con Pirandello sarà stimolante.
Le questioni sono due. I progetti passati che io riprendo fanno parte di un ulteriore progetto che si chiama Antologia, che desidera rivedere, riosservare vecchi spettacoli, non rivisitarli esattamente perché in alcuni casi sono rimasti praticamente uguali. Riosservarli dopo tanto tempo, con altri danzatori che hanno una sensibilità diversa. Quindi, leggendo il passato, provo a immaginare quale possa essere il futuro: se è il caso di invertire rotta totalmente, se mi sono annoiato, se invece ero in anticipo… In ogni lavoro, devo dire, sto trovando delle cose diverse.
Adesso ci stanno chiedendo per il 2020 uno dei lavori, forse, che ha più girato: Mediterraneo. Le antiche sponde del futuro. Un lavoro tosto, anche, molto danzato però tosto. Sto cercando di capire se valga la pena di rifarlo o meno, perché c’è una cosa che mi stimola ma nel frattempo mi fa stare sulle spine: osservare e vedere che è passato tanto tempo sul piano del linguaggio. Mi veniva voglia, infatti, a volte di cambiare radicalmente. Poi parlando con Nello Calabrò, con alcuni studiosi, ho capito invece che la parte storica della creazione ha un ruolo importantissimo. Da noi viene chiamato ‘il repertorio’. Immaginare di cambiarlo radicalmente sarebbe una follia. Ne faccio un altro a quel punto.
Abbiamo immaginato di immergerci in questi nuovi percorsi antologici con un atteggiamento di sottolineatura di certi aspetti, in alcuni casi di attualizzazione, soprattutto per ciò che riguarda i testi. In Agata, che rifaremo dopo dieci anni per la stagione del Teatro Stabile di Catania, i testi dovranno inevitabilmente essere cambiati perché i processi penali sono andati in una direzione diversa; tutto quello che diciamo dovrà essere rivisto però la parte principale della danza bene o male rimarrà sempre uguale. Questi sono i processi legati alla parte antologica.
Per ciò che riguarda le scelte drammaturgiche anche in questo caso non c’è una regola ben precisa. Dipende dai momenti che riscontriamo nella società. Ultimamente con Transiti Humanitatis ci siamo dedicati molto all’umanità. Addirittura con Mediterraneo, che riprenderemo, abbiamo capito che tutte le guerre che raccontavamo ormai non ci sono più. Le scelte che noi facciamo vengono fatte in relazione a ciò che sta succedendo nella società. Non può esserci una regola. Nella Giara, per esempio, ovviamente sottolineeremo le riflessioni che Pirandello ti porta a fare così come è stato in Berretti a sonagli.
Comunque non sempre ci riferiamo a dei testi. Se consideriamo che ho fatto sessantacinque, sessantasei opere a serata intere, tre, quattro dedicate alla letteratura non sono così tante.
Il contrario invece succede spessissimo. Una volta capito il tema da trattare, lo riconduciamo a testi letterari nella fase di ricerca. In questo senso Nello Calabrò ha avuto un ruolo importantissimo, è stato veramente il mio alter ego della parola.
D: Una domanda sui tuoi ultimi lavori: Corpo a corpo con Caino e Abele dalla Genesi. Una storia in cui bene e male si confondono e non si sa più chi sia il carnefice e chi la vittima. Perché questa scelta e perché raccontarla proprio adesso?
R: I progetti che fanno parte del grande progetto Duett, in realtà, sono due meditazioni: una si intitola Corpo a corpo e una Come le ali. Sono state due meditazioni con la volontà e il desiderio di capire, alla fine, se era il caso di fare un progetto unico che si chiamasse Liederduett, due episodi su Caino e Abele. Avevo la necessità di capire se c’era veramente questo racconto bilaterale. La domanda che io mi sono fatto era una sola: in una società violenta come la nostra, qualora non ci fosse stato il primo omicidio della storia di Caino su Abele ‒ fratricidio, quindi, ancor peggio ‒ cosa sarebbe accaduto?
Questa è stata la domanda. Se volete banale, super banale, però a mio avviso molto profonda perché bisogna partire dal passato. Tutti i nostri comportamenti derivano da accadimenti. Allora ho capito subito che Caino e Abele doveva essere trattato su due livelli: il livello della lotta, del conflitto, dello scontro fra questi due corpi e il livello di utopia generale, che io ho chiamato ‘la simbiosi’. Quindi il desiderio di convivere, di continuare la propria vita insieme.
Ecco, questo è abbastanza utopico: immaginare che la società tutta, nella sua interezza, debba essere simbiotica, in sintonia quotidianamente. Non c’è la sintonia fra marito e moglie, figuriamoci tra persone che non si conoscono. Però noi artisti dobbiamo cercare prima di sognare e poi di far sognare gli altri. Questo è il nostro compito.
Ho suddiviso queste due opere nel momento di conflitto, che è Corpo a corpo, e nel momento di simbiosi, che è Come le ali. Entrambi titoli di suggestione, che hanno fatto un percorso di presentazione al pubblico in momenti diversi, mentre adesso debutteremo a Bolzano Danza in prima mondiale con l’opera costruita, cioè messa in scena tutta in una serata, cambiando totalmente le musiche originali sia di Corpo a Corpo che di Come le ali.
Questo è il progetto. Dentro c’era anche un progetto diverso, mio, personale che era di dimostrazione a me stesso ‒ quindi una sorta di studio, una sorta di scuola di composizione ‒ per capire come è possibile elaborare uno spettacolo con una musica e cambiarla dandogli dei connotati diversi. Penso di aver dimostrato a me stesso che questo è fattibile e spero che per chi ha visto l’uno e l’altro possa esser recepito in maniera chiara. È scolastico come ragionamento. Dobbiamo ancora andare in scena, vedremo qual è il risultato finale.
D: Nello Calabrò è ormai una certezza come drammaturgo. Che ruolo hanno per te le parole e che dialettica c’è secondo te tra verbo e corpo in movimento?
R: Si, l’ho detto prima: Nello Calabrò è ormai il mio alter ego. Ormai credo che siano quindici, diciassette anni. Il primo lavoro che abbiamo fatto insieme è stato proprio Mediterraneo, quindi addirittura vent’anni.
La parola per me è molto importante, però è sempre molto delicata da usare. Noi non tendiamo a recitare, ma tendiamo semplicemente a parlare, a usare la parola come musicata e non obbligatoriamente come significato di ciò che stiamo dicendo in quell’istante. La usiamo spesso per rompere il ritmo, per diversificare le emozioni in quel momento.
In questo meccanismo il lavoro di Nello è importantissimo perché conoscendo benissimo il tipo di opera riesce a modulare i testi in relazione ai ritmi esistenti. Poi le cose si costruiscono man mano. Fino a oggi, quando abbiamo fatto l’ultima prova prima di Bolzano, Nello è venuto e abbiamo cambiato delle piccole sfumature del testo per rendere il suono più appetibile a prescindere dal significato.
Fra verbo e corpo io direi che il verbo è già, nell’espressione naturale, un corpo che si muove, che può essere immaginato, mentre il corpo è inevitabilmente fatto, dettato, costruito da lettere, da parole. Solo che sono lettere e parole immaginarie che uno, come dire, costruisce pian piano. È un tassello che viene alimentato in maniera assolutamente istintiva e naturale rispetto alla sensibilità del pubblico stesso, che percepisce queste emozioni dei corpi.
Verbo e corpo possono andare assolutamente in sintonia, però noi siamo decisamente una compagnia di danza. A volte si usa il termine di ‘teatro danza’ che però ha proprio un altro tipo di carattere rispetto al nostro, non dico che è riduttivo per noi ma è proprio diverso.
Usiamo, però, il testo per alleggerire anche la visione del corpo. In certi casi può essere un escamotage. Non sempre.
D: Un’ultima domanda. La danza è un linguaggio che si interseca con altre forme d’arte e d’espressione culturale. Chiaramente riguarda anche la vostra produzione coreografica, come per esempio i testi da cui avete tratto alcune opere come l’Odissea di Omero, il Romeo e Giulietta di Shakespeare e Oratorio per Eva con Mark Twain e anche moltissimi riferimenti pittorici. Ho visto spesso dei riferimenti caravaggeschi…
R: Sì, poi anche molti scultorei anche. Tipo Rodin e altri…
D: Come riesci a far dialogare tutti questi riferimenti, che comunque prendi da altre forme artistiche, con la tua danza e, in questo senso, come interviene Nello Calabrò nella strutturazione di questo dialogo tra altre forme d’arte e danza?
R: Non so se ci riesco. Per alcuni ci riesco e per altri no e sinceramente non so dirti come. Non è che c’è un meccanismo. Credo, però, che alcuni linguaggi come la pittura e la scultura è abbastanza automatico abbinarli e assimilarli al movimento, alla danza. Vedi la scultura di Rodin, di cui abbiamo fatto un’opera, una riflessione da studio. L’idea che qualcosa di fisso, di immobile possa essere invece strumento e stimolo per un’azione creativa di danza è straordinario: da quella immobilità, invece, è nato I am beautiful per esempio.
A me personalmente la pittura (sia quella antica, sia quella contemporanea) così come la scultura, dà tantissime emozioni e suggestioni. Il ruolo di Nello, fra le due cose, è sempre un ruolo un po’ da studioso. Lui è un po’ uno sgobbone sotto l’aspetto della ricerca delle informazioni, ha una memoria straordinaria, cosa che io non ho. Sono più istintivo. Cerco di carpire o captare con l’istinto se quella cosa funziona lì, quando metterla, quando levarla, che ascolto ci deve essere. D’altronde questo è il mio ruolo, altrimenti diventa tutto troppo scientifico. Mentre lui ha una memoria impressionante e si ricorda qualsiasi cosa vede. Sa più cose di me della danza, genericamente parlando, perché ha una grande memoria visiva. Un grande lettore, di qualsiasi sciocchezza. Il suo ruolo, quindi, è estremamente importante perché riesce a connettere le varie azioni di ricerca che lui ha fatto, che insieme abbiamo fatto, di cui abbiamo discusso in vista dell’atto creativo. Poi, ripeto, non è detto che veramente ci riusciamo a rendere connessi i diversi linguaggi espressivi.
D: Questa era l’ultima domanda, però che progettualità futura, che speranza hai rispetto alla danza?
R: Quella futura sarà La Giara. Più avanti vedremo se si riprenderà Mediterraneo.
Sinceramente in questo momento non ho delle intenzioni. Mi vorrei dedicare un po’ più agli altri, riuscire a trovare dei giovani coreografi. C’è tanta roba, ma non di alto livello. Devo dire, però, che molti giovani iniziano molto meglio rispetto a quando ho iniziato io. Non solo come qualità delle cose, che è oggettivo, e questo lo dico con il massimo della serenità. Alcune cose che io vedo dei giovani sono molto migliori rispetto alle cose che ho fatto io all’inizio. Però è anche vero che vengono dati loro degli strumenti migliori, molto più ampi. Hanno quindi un’occasione da non perdere. È un momento in cui l’Italia sta crescendo a livello coreografico.
Io ho l’impressione che sia soprattutto la danza a stimolare le altre arti. Trovo che la danza abbia stimolato molto il teatro. Ci sono molti registi che sono fisici e usano il corpo in maniera molto potente. È stata quindi la danza a entrare in maniera disarmante nei sistemi creativi generali e così tutti hanno attinto da là, soprattutto il teatro: e ha fatto bene perché aveva bisogno di rinnovarsi.
La danza, invece, continua a rinnovarsi secondo me in maniera esasperata, come se tutti debbano trovare qualcosa di nuovo, assolutamente nuovo. Io non sono propenso a voler trovare per forza il nuovo. Sono più propenso a trovare qualcosa che sia autentico e di qualità, cioè fatto bene. In qualche modo in questo momento molta parte dell’arte, delle performance sono ‘cotte e mangiate’. Questo mi fa un po’ paura nel mondo delle attività performative. Credo che si debba andare più lenti e procedere verso un altro livello di costruzione della performance.
Questo non vuol dire che non farò cose nuove, ma veramente devono essere sentite. Anche perché io metto davanti un aspetto che è molto importante: la produttività. Noi gestiamo dei soldi pubblici. Quando si gestiscono dei soldi pubblici ed eccedi nella produttività, alcuni prodotti vengono sostituiti in maniera quasi bulimica dal sistema. Questo mi fa paura, quindi mi vorrei dedicare a far capire che non bisogna eccedere e in quanto direttore di un centro di produzione spero di avere voce in capitolo. Una cosa è essere un artista di riferimento, un’altra è poi essere il direttore di un centro di produzione. Sono due attività diverse. Entrambe devono essere fatte. Quando sono direttore di un centro di produzione sono al servizio di tutto il sistema, quando faccio il coreografo e l’artista faccio quello che voglio e spero che le mie cose possano interessare pure agli altri. Sono due livelli molto diversi ma entrambi molto importanti.