La risposta della composizione coreografica alla musica di J.S. Bach è un intero capitolo a parte della storia culturale del Novecento. A partire dalle trascrizioni (vere e proprie ‘traduzioni’) di Ferruccio Busoni, con cui studiò Maud Allan che fu tra le prime a comprendere musica di Bach nei suoi concerti di danza (Vienna, 1902), il primo modernismo coreico ha riscoperto la musica di Bach in tutta la forza della sua dimensione immaginativa. Spesso a contrasto con la musica romantica, che aveva ormai esaurito il suo ruolo, nonché usata come correttivo alla nuova musica modernista che montava prepotente. L’uso della musica di Bach per le composizioni della danza modernista corrispose a un ritorno dell’antico a cui si poteva attingere perché i valori dei quali si faceva tramite consuonavano perfettamente con le nuove esigenze di libertà, sia nei termini dei generi musicali che in quelli più drammaturgici e coreici. E fu un procedere in largo anticipo rispetto alle superstizioni da piedistallo della filologia musicale, che nel Novecento da una parte ha fatto di Bach il campione ideale del neo-classicismo, argine alla prudenza farisaica della «distanza storica» (almeno da Furtwängler fino al nazionalsocialismo). E dall’altra, lo ha eletto a paladino del risentimento piccolo borghese post-bellico in cerca di regressioni culturali più autentiche, per alleggerire il senso di colpa nei confronti del passato più recente. Nicolas Nabokov ha apostrofato come uno ‘zoo’ l’incontro tra danza e musica nel primo Novecento, in cui l’idea del passato è un supplemento della storia. Se Luciano Berio, ancóra nel 1981, considerava il ritorno alle opere di Bach «legato alla riscoperta della dimensione pratica del fare musica», nel 1987, ossia due anni prima della caduta del muro di Berlino, John Cage invitava a «lasciar perdere Bach» poiché musica incapace di rappresentare la complessità del tempo contemporaneo. Ma l’anno prima, Steve Paxton aveva improvvisato sulle Goldberg Variations nella versione per pianoforte di Glenn Gould realizzando uno dei più alti incontri tra danza e musica nella cultura performativa del Novecento. L’anno dopo, inoltre, uscirà un importante libro di filosofia della musica: MatthaÌuspassion di H. Blumenberg. In entrambi i casi, la vitalità della musica di J.S. Bach è restituita alla vita del futuro. Esiste, dunque, un ‘caso Bach’ che proprio nella prassi coreografica rivela una rinnovata, certamente inedita, percezione culturale del suo mondo musicale. Infatti, i maggiori coreografi contemporanei ritrovano, nelle partiture bachiane, nuove ragioni per la loro ricerca di innovazione. Da William Forsythe a Hans van Manen, da Jiri Kylián a Nacho Duato e Virgilio Sieni, la percezione di una molteplicità di piani sonori differenti nella maestria del contrappunto bachiano si traduce in un accesso più vero all’idea di pluralità dell’epoca contemporanea.
La ricerca coreografica di Roberto Zappalà propone dinamiche connesse alla terra, votate alla disarticolazione di gesti e figure, in grado di aderire a un disegno che vede i corpi al centro di un feroce rovesciamento di linee e posizioni. È un’istintività di matrice animalesca a guidare i movimenti e a comporre quadri che tentano di mimare la fluidità incandescente della lava senza rinunciare all’intreccio di frame narrativi. Il fecondo dialogo con il dramaturg Nello Calabrò assegna ai progetti della Compagnia Zappalà Danza una profondità di sguardo e di racconto che rappresenta un unicum nel contesto italiano e rilancia un modello di ensemble creativo. Il metodo compositivo[1] di Zappalà si agglutina intorno allo scarto fra improvvisazione e tecnica ballettistica: la partitura si affida alle individualità di ogni interprete e allo stesso tempo aderisce a un codice linguistico – modem – geometricamente connotato.[2] La sintesi di tale linguaggio coreografico si declina in tre diverse accezioni del corpo (devoto, etico, istintivo), che implicano la centralità del movimento, la ricerca della qualità estetica della composizione e con essa la «supremazia dell’immagine sul significato».[3] La potente «geografia delle sensazioni»[4] messa in atto da Zappalà prevede innanzitutto una pre-disposizione «alla purezza ma anche alla perversione, alla fatica ma anche alla leggiadria…»; tale inclinazione fa sì che i corpi dei danzatori siano devoti al pubblico da cui attendono una «consacrazione»[5] capace di trasformarsi in poesia. Tra i vettori che contribuiscono ad accelerare il coinvolgimento degli spettatori c’è senza dubbio la dimensione ‘etica’ della danza di Zappalà, cioè l’attenzione al portato di sofferenza dei corpi, soprattutto di quelli esposti alla violenza del mondo. Partendo da un’acuta osservazione degli scenari isolani, lo sguardo del coreografo si proietta lungo le direttrici dei naufragi contemporanei, (dis)seminando gesti e pratiche di re-enactment che esplorano – e tentano di superare – i pregiudizi verso alcune etnie. Grazie a una serie di mediazioni letterarie e filosofiche,[6] si giunge alla codificazione di «una sorta di saggio sul corpo poetico, “cor-po-etico”»[7] che conduce all’eliminazione dal registro espressivo del pudore[8], considerato un freno all’istinto, nonché di ogni gabbia culturale attraverso un processo di «esegesi», ovvero di scoperta minuziosa delle molteplici possibilità di escursione, interne ed esterne, delle giunture muscolo-scheletriche a cui si accompagna un intenso scavo psicologico. È proprio tale ‘escursione’ a determinare la direzione coreografica di Zappalà, nel senso rilevato da Tomassini, come «esplorazione e allenamento», come «riconoscimento della differenza, per ciò che nel corpo appare anche imperfetto o anomalo».[9] Il linguaggio modem articola l’imperfezione e l’istinto e attraversa tutti gli strati del derma, ‘scortecando’ la superficie e giungendo a toccare l’invisibile.