Corpi esiliati. Il tema della migrazione nella danza di Roberto Zappalà

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La danza di Roberto Zappalà non è mai ingenua: sceglie sempre di raccontare l’umanità, la terra, la Sicilia, le passioni più becere e quelle più elevate. In Odisseo. Il naufragio dell’accoglienzae in Pre-testo1: naufragio con spettatore, entrambi spettacoli posti all’interno del più ampio progetto Re-mapping Sicily, il coreografo catanese mette in scena il dramma di corpi esiliati, rifiutati, abbandonati a un destino di viaggio che, però, non nega una possibilità di speranza. 

The dance of Roberto Zappalà is never naive: he always speaks about humanity, the ground, Sicily, instincts and poetry. In Odisseo. Il naufragio dell’accoglienzaand in Pre-testo1: naufragio con spettatore, both of them connected to the major project Re-mapping Sicily, the Catania’s choreographer talks about the drama of exiled, rejected, abandoned human bodies and about their destiny of travel which, however, does not deny a possibility of hope.

 

La ricerca coreografica di Roberto Zappalà propone dinamiche connesse alla terra, votate alla disarticolazione di gesti e figure, in grado di aderire a un disegno che vede i corpi al centro di un feroce rovesciamento di linee e posizioni. È un’istintività di matrice animalesca a guidare i movimenti e a comporre quadri che tentano di mimare la fluidità incandescente della lava senza rinunciare all’intreccio di frame narrativi. Il fecondo dialogo con il dramaturg Nello Calabrò assegna ai progetti della Compagnia Zappalà Danza una profondità di sguardo e di racconto che rappresenta un unicum nel contesto italiano e rilancia un modello di ensemble creativo. Il metodo compositivo[1] di Zappalà si agglutina intorno allo scarto fra improvvisazione e tecnica ballettistica: la partitura si affida alle individualità di ogni interprete e allo stesso tempo aderisce a un codice linguistico – modem – geometricamente connotato.[2] La sintesi di tale linguaggio coreografico si declina in tre diverse accezioni del corpo (devoto, etico, istintivo), che implicano la centralità del movimento, la ricerca della qualità estetica della composizione e con essa la «supremazia dell’immagine sul significato».[3] La potente «geografia delle sensazioni»[4] messa in atto da Zappalà prevede innanzitutto una pre-disposizione «alla purezza ma anche alla perversione, alla fatica ma anche alla leggiadria…»; tale inclinazione fa sì che i corpi dei danzatori siano devoti al pubblico da cui attendono una «consacrazione»[5] capace di trasformarsi in poesia. Tra i vettori che contribuiscono ad accelerare il coinvolgimento degli spettatori c’è senza dubbio la dimensione ‘etica’ della danza di Zappalà, cioè l’attenzione al portato di sofferenza dei corpi, soprattutto di quelli esposti alla violenza del mondo. Partendo da un’acuta osservazione degli scenari isolani, lo sguardo del coreografo si proietta lungo le direttrici dei naufragi contemporanei, (dis)seminando gesti e pratiche di re-enactment che esplorano – e tentano di superare – i pregiudizi verso alcune etnie. Grazie a una serie di mediazioni letterarie e filosofiche,[6] si giunge alla codificazione di «una sorta di saggio sul corpo poetico, “cor-po-etico”»[7] che conduce all’eliminazione dal registro espressivo del pudore[8], considerato un freno all’istinto, nonché di ogni gabbia culturale attraverso un processo di «esegesi», ovvero di scoperta minuziosa delle molteplici possibilità di escursione, interne ed esterne, delle giunture muscolo-scheletriche a cui si accompagna un intenso scavo psicologico. È proprio tale ‘escursione’ a determinare la direzione coreografica di Zappalà, nel senso rilevato da Tomassini, come «esplorazione e allenamento», come «riconoscimento della differenza, per ciò che nel corpo appare anche imperfetto o anomalo».[9] Il linguaggio modem articola l’imperfezione e l’istinto e attraversa tutti gli strati del derma, ‘scortecando’ la superficie e giungendo a toccare l’invisibile.

 

1. Pre-testi: lavorare in progress

Se l’inclinazione performativa ed estetica della Compagnia poggia sull’ineffabile intersezione fra queste tre diverse accezioni del corpo, sul piano della progettualità occorre sottolineare la costruzione ‘aperta’ degli spettacoli, secondo tappe, nuclei di studio ed esercizio destinati ad incarnarsi in un’opera totale, in grado di riassumere in sé tutte le fasi intermedie di lavorazione. Si tratta di un modus operandi che appartiene alle dinamiche della scena post-drammatica[10] e che rilancia una certa idea di «cluster»[11] in cui però i singoli «pre-testi» mantengono il più delle volte una salda unità tematica e stilistica e si configurano come opere autonome. L’articolazione granulare consente al coreografo di esplorare livelli intermedi, di sedimentare tracce e segni dinamici, accumulando e scartando, fino a raggiungere un punto di equilibrio (in)stabile.

Al di là delle specifiche linee di tensione dei balletti, a legare la ricerca di Zappalà c’è il filo sottile dell’impegno, un’idea alta di radicamento nel territorio e nel contemporaneo, che implica l’osservazione e lo studio delle passioni e delle sciagure della storia. I contest nascono spesso dalla volontà di capire meglio ciò che accade nel mondo, nel tentativo di distillare la bellezza, di accoglierla attraverso la compiutezza dei corpi.

Fra i progetti di maggiore interesse e attualità c’è sicuramente Re-mapping Sicily, incentrato su una rilettura dell’isola attraverso i suoi fenomeni culturali, sociali e performativi. Prima tappa è il balletto Instrument1 - scoprire l’invisibile (2007) dedicato al marranzano (scacciapensieri) in quanto strumento musicale normalmente associato alla tradizione siciliana e assai spesso alla mafia; poi, dai suoni della terra si giunge al fenomeno migratorio, argomento più che mai attuale che vede al centro il Mediterraneo in quanto spazio di incontro e scontro tra civiltà differenti che navigano lungo i secoli di una storia millenaria. Ma viaggiare, per mare o per fango, non sempre è una scelta dettata dal piacere e dalla voglia di scoperta, non sempre si tinge di colori solari, felici, positivi; talvolta si tramuta in fuga da qualcosa di terribile e da violenze inenarrabili, diviene un salto nel vuoto cieco dell’incertezza. E il viaggio può essere fisico, intellettuale, artistico, può essere sogno o incubo, carezza o testa mozzata. Può essere un naufragio, ma anche un’odissea.

 

2. Naufragio con spettatore: ri-vedere la tragedia

Pre-testo 1: naufragio con spettatore (2010) è la prima tappa di Odisseo, percorso creativo dedicato al tema dell’emigrazione/immigrazione nel Mediterraneo e inserito all’interno del più vasto progetto Re-mapping Sicily, di cui rappresenta il secondo punto d’arrivo. Lo spettacolo prende ispirazione dall’omonimo saggio scritto da Hans Blumenberg e incentrato sull’introduzione al secondo capitolo del De rerum naturae di Lucrezio, testo tra l’altro presente nel balletto conclusivo (Odisseo) mediante la voce recitante di Franco Battiato. I danzatori in scena sono solamente due, Adriano Coletta e Antoine Roux-Briffaud (nella prima versione), e la musica dal vivo viene interpretata dal pianista Luca Ballerini. L’incipit dell’opera è caratterizzato da un buio totale, quasi ancestrale, che sembra richiamare alla mente di chi è in sala un’immagine di vuoto, di assenza, di attesa. Il pubblico osserva il silenzio che precede ogni inizio e ogni fine e, piano, il racconto comincia con un focus assoluto sulle note del musicista adesso lievemente abbracciato da una flebile luce.

Poi, con una lentezza antica, ecco la danza: due corpi, due uomini, essenze perdute alla ricerca di un’identità integra, fusione di anime spezzate. I loro gesti, in un climax disperato, disegnano indicibili parole, urlano aiuto, si disarticolano in grida mute. Tecnicamente tutto ciò è reso mediante un lavoro sulla vibrazione costante della muscolatura tesa, con il peso spostato maggiormente sull’avampiede fino ad alzarsi sulle cosiddette mezze punte; le mani sono nervose, proiettate in avanti, e sembrano invocare un soccorso che però non arriva, non arriverà mai. Sono naufraghi, loro, dispersi in un mare sconosciuto che vomita illusioni dove non c’è equilibrio, e nemmeno la stabilità della terra. Si fermano, si incontrano; due solitudini, stessa paura, stessa inquietudine. Perché poi, in fondo, dinnanzi al terrore di non aver riferimenti, siano essi fisici o psicologici, siamo tutti uguali, identici, ciò che cambia sono solo le sfumature della pelle o i colori dello spirito.

La luce che preme sui corpi gioca con le tonalità del blu e la scelta non è casuale: essa è il mare, è acqua, è onda, è serenità che fa a pugni con i fantasmi dello spirito che emergono con violenza quando ci si perde nell’oscurità dettata dall’assenza di speranza. I danzatori sono arenati in un quadrato illuminato che disegna uno spazio ancor più ristretto dove potersi aggrappare: divengono personaggi di un quadro caravaggesco,[12] protagonisti assoluti di un teatro che si muove lungo il filo sottile che divide la vita dalla morte. Sdraiati sul pavimento gonfiano i ventri seguendo un respiro quasi musicale; sono annegati, c’è del liquido nel loro addome, eppure trasudano una sensualità potente, una carnalità che li trasforma quasi in coppia di amanti esausti dopo un amplesso. Questo erotismo sotteso è un elemento costante nelle coreografie di Roberto Zappalà; i suoi danzatori, pur esprimendo spesso narrazioni di corpi spezzati, conservano sempre una passionalità intensa trasmessa al pubblico attraverso gesti potenti, respiri udibili che scandiscono il tempo, sequenze di contatto tra due o più interpreti.

In Pre-testo 1: naufragio con spettatore il disegno coreografico è incentrato sull’immagine precipua del ritmo incessante delle onde, il quale varia, si interrompe, diviene violento, rallenta. Le mani sono spesso tese e vibranti, invocano aiuto, supplicano alcuni ‘spettatori’ che restano impassibili, quasi da copione collettivo, seduti sulle proprie poltrone. Un’altra cifra ricorrente è la ricerca di un movimento violentemente disarticolato: esso è la chiara espressione coreutica di ciò che accade quando l’ossigeno sta per mancare e i polmoni si riempiono drammaticamente d’acqua. C’è una ribellione della vita contro l’annegamento che avanza, c’è una strenua lotta per restare a galla e sopravvivere ad un mare che trascina inesorabilmente verso la fine. Le bocche si spalancano in urla mute (eco evidente di Munch) e tutto esprime un dolore asfissiante che implica la perdita del sé più intimo.

 

  Un lift, momento di Naufragio con spettatore © Antonio Caia

 

Un elemento scenico fortemente emblematico ed evocativo è la presenza ambigua della cantante Marianna Cappellani: l’artista resta per la totalità dello spettacolo in silenzio e di spalle rispetto al pubblico in sala. Lei osserva, impassibile e ferma, la tragedia che si consuma violentemente dinnanzi ai suoi occhi. Nessuna reazione, nessun gesto, nessuna pietà. Questa donna sembra rappresentare l’assenza di empatia che ha invaso il contemporaneo, quell’indifferenza cieca che vede l’altro solo come potenziale nemico e quindi non meritevole di compassione o aiuto. C’è aridità di cuore in questa figura che non si muove e aspetta, c’è la fotografia della distanza che caratterizza un’intera epoca, la nostra; l’unico gesto di umana pietà avviene alla fine dell’opera, quando la Cappellani canta un’Ave Maria che sembra ridisegnare i confini di fratellanza. È forse lei lo ‘spettatore’ del titolo? Siamo noi tutti questo muto osservatore rappresentato da un corpo di donna? L’intonazione finale della preghiera sembra dare una speranza conclusiva, elemento anche questo piuttosto ricorrente nelle produzioni di Roberto Zappalà. C’è luce, sempre, anche in un buio che soffoca.

Il momento più drammatico della coreografia è quello, straziante, che precede il canto conclusivo: i due interpreti, seduti l’uno di fronte all’altro, si toccano, si scoprono reciprocamente i ventri, si accarezzano i volti, si spogliano delle maglie, si guardano. Sembrano due amanti che, piano e con cura, si preparano a consumare un rapporto sessuale. Poi però Adriano inizia a divorare la pelle bianca di un esanime Antoine, e il quadro diviene quello di un inquietante ultimo atto di cannibalismo.

 

  Naufragio con spettatore © Antonio Caia

 

L’immagine, decisamente potente, ci pone dinnanzi a dei quesiti non facili: quanto resta di umano nelle situazioni più estreme? Ci si divora per non sentirsi soli? Le domande restano, come la danza. Le risposte sono affidate però a noi, spettatori (si spera) non più passivi.

 

3. Odisseo. Il naufragio dell’accoglienza: restare umani

Dopo una seconda tappa intermedia, cioè Pre-testo 2: accoglienza (2010), spettacolo di soli quindici minuti incentrato su un’idea di umanità che accetta e abbraccia l’Altro, Roberto Zappalà è approdato al progetto conclusivo, cioè Odisseo. Il naufragio dell’accoglienza (2011), il quale pone già nel suo titolo l’incontro dei due lavori antecedenti. In scena ben otto danzatori che si muovono all’interno di uno spazio surreale delimitato da teli in palettes che riflettono violentemente la luce come in una caleidoscopica discoteca o in un siparietto da cabaret; questo anomalo sistema di screens fa emergere, fin da subito, il contrasto che caratterizzerà tutto il balletto, ovvero quello che intercorre tra la superficialità di un mondo che vive solo d’apparenza e la tragedia di un’umanità in transito.

Il balletto si apre con due veri e propri quadri, i quali anticipano una narrazione ben più complessa. Ecco un danzatore che interpreta un giocatore di hockey intento ad intonare una canzone dedicata a Jesus; subito dopo una citazione diretta di Pre-testo 1: naufragio con spettatore. Stessi gesti, stesse dinamiche, stesso riferimento al moto incessante del mare; la nudità maggiormente esposta dei due corpi amplifica però il simbolismo fortemente carnale che sottende l’atto del cannibalismo.

Due fotogrammi, il coreografo che canta, comincia Odisseo.

Novelli Ulisse, i ballerini indossano tutti degli abiti che giocano tra il bianco e l’argento, e anche qui il cromatismo rimanda ad un contrasto tra il dramma del naufrago che non conosce pace e l’essere umano che si trastulla nel vuoto intellettuale di chi pensa che la vita sia solo una festa. Gli interpreti hanno sguardi fissi, inquieti, trasmettono un senso di forte disagio e avanzano in linea, a schiera, verso il pubblico; poi vomitano, come chi sta male dopo un lungo viaggio attraverso infiniti spazi d’acqua. Il dolore è palpabile e l’atmosfera si tinge ulteriormente di drammaticità quando la luce mostra, in alto, un piccolo soppalco pieno di anonime croci lignee. I danzatori le osservano immobili. Di chi sono? Sono i ‘loro’ morti? I ‘nostri’ morti? Sono forse tutte le vittime del mare o di una società razzista e chiusa? Sono coloro che si sono spenti nel vano tentativo di sfuggire ad un destino di guerra e fame? Sono le donne e gli uomini che hanno perduto la via, quella interiore, e si sono smarriti fino a divenire essi stessi dei cadaveri? Una musica jazz spezza la stasi ed ecco ancora una danza dal sapore misto di gioia e disperazione; le note fungono da forte contrasto tra la realtà e l’immaginazione, o sono un profondo sogno che anela a cancellare ciò che dilania lo spirito.

Drammaturgicamente complesso e pieno di rimandi interdisciplinari, Odisseo si collega ulteriormente alla prima tappa del progetto mediante la presenza della voce di Franco Battiato che recita l’introduzione al secondo capitolo del De rerum naturae di Lucrezio, testo dal quale lo stesso Hans Blumenberg aveva tratto ispirazione per scrivere il saggio Naufragio con spettatore. Roberto Zappalà sceglie di sottolineare come l’esilio e l’esistenza di profughi siano un qualcosa che da sempre ha accompagnato l’umanità tutta, e per farlo decide di utilizzare la potenza visiva e fisica dell’arte classica: tre dei suoi danzatori si tramutano in statue, assumendo pose plastiche che con accurata lentezza mutano forma ma mai significato. Ciascuno di loro indossa una maschera neutra, priva di occhi, naso e bocca.

 

  Odisseo. Il naufragio dell’accoglienza © Antonio Caia

 

Ancora una volta si racconta di come il dramma del singolo uomo appartenga all’intera razza umana; le storie sono sempre le stesse, anche se cambiano i luoghi, i volti, i secoli. Noi siamo loro, portiamo cucite addosso le medesime cicatrici. E ancora una volta Battiato, con la sua voce, elenca i nomi di alcuni illustri esiliati della classicità, citando Plutarco: «Se non fossero partiti forse non avrebbero fatto quello che hanno fatto». Un destino migrante lega allora i fili della Storia.

Uno dei momenti forse più emblematici dell’intero spettacolo è quando Salvatore Romania, tra i ballerini di punta della compagnia, entra in scena con una maschera, se la toglie mostrando il suo volto, e nel contempo Antoine Roux-Briffaud (interprete, tra l’altro, della prima tappa del progetto) gli porge un microfono, amplificatore metallico di senso e segni. In un violento climax vocale, dal sussurrato al gridato, Romania ripete incessantemente le stesse frasi di dolore, di rabbia, di razzismo subito e mai accettato, di ribellione dinnanzi a condanne mai comprese. L’ultima domanda, «Sono forse un Ebreo?», sottolinea quanto l’antisemitismo sia solo una delle forme di rifiuto dell’Altro, le cui conseguenze sono purtroppo ben note.

Le citazioni provenienti dal mondo dell’arte non si fermano alla statuaria classica, ma coinvolgono anche la pittura e segnatamente il quadro La zattera della Medusa (Le Radeau de la Méduse) di Théodore Géricault, già esplorato nel precedente .

 

  Odisseo. Il naufragio dell’accoglienza © Antonio Caia

 

I danzatori sono ammassati in uno spazio ristretto, schiena contro schiena. Ondeggiano, si muovono piano, sembrano essere in balia della legge delle acque; a turno, si allontano dal gruppo e raccontano, con gesti drammatici, il loro vissuto di terrore. Nel contempo gli altri restano inchiodati a una zattera invisibile, senza alcuna possibilità di fuga. I corpi sussultano, tremano, cercano ossigeno ma non riescono a trovarlo; le bocche si dilatano in urla mute, hanno freddo, fame, sete. Non c’è conforto per loro, e nemmeno speranza. La cantante Marianna Cappellani, adesso realmente gravida, compare in scena scostando le tende: canta, il suo ventre è esposto, simboleggia la forza potente e inarrestabile di Madre-natura, colei che domina ogni cosa. La presenza del femminile all’interno dello spettacolo è ulteriormente amplificata dal racconto mimato di uno stupro. Una delle danzatrici (Lorenza Di Calogero), dalla capacità espressiva davvero straordinaria, si stacca dai suoi compagni e inizia piano a lavare via dai genitali i resti della violenza subita, dello sperma non richiesto; cerca disperatamente di cancellare i segni, esteriori e interiori, del suo corpo violato. Gli altri la guardano, immobili. Forse la condannano, o forse lasciano che venga risucchiata dall’indifferenza del subumano.

 

  Odisseo. Il naufragio dell’accoglienza © Antonio Caia

 

Gli stupri, però, non hanno nazionalità, né latitudini geografiche; ecco allora il mappamondo tra le mani di un’altra donna, la cantante. Ancora una volta Zappalà, tramite la sua danza e il suo linguaggio coreografico, veicola un forte messaggio di uguaglianza, poiché siamo tutti, senza eccezione alcuna, naufraghi su di una medesima zattera. Interessante il contrasto, sul finire dello spettacolo, tra due scene immediatamente successive l’una all’altra. La prima vede i ballerini divenire corpi crocifissi, echi carnali di quelle lignee croci presenti fin dal principio. Sono vittime sacrificali, nuove bestie da macello, immagine eterna di quel Cristo che va oltre i confini religiosi. Ma, come già detto in precedenza, nelle opere del coreografo catanese si affacciano sempre un barlume di speranza e una visione positiva del mondo. Ecco allora una lunga sequenza caratterizzata da camminate e abbracci: c’è una fratellanza immensa nel dolore, un sentirsi parte dello stesso viaggio, della stessa tempesta. I danzatori si stringono le mani, si afferrano, si abbracciano, si scontrano; amore e odio divengono i due colori che dipingono a tinte opposte la scena. Poi il gran finale: una danza potentissima che riprende nel suo tessuto gesti e movimenti già effettuati in precedenza, ma che stavolta vogliono davvero mostrare la natura più selvaggia e animalesca dell’essere umano. Stremati, gli interpreti si rivolgono infine direttamente al pubblico, lanciandogli addosso invettive razziste in diverse lingue. Ma le voci si attenuano fino a sparire del tutto coperte da una musica che racconta di una malinconica nostalgia. I ballerini scostano le tende e vanno via. Lo spettacolo è terminato. La vita e la speranza però continuano, da qualche parte, insieme alla poesia indiscussa della danza di Roberto Zappalà.

 

 


1 «Per un coreografo come me, molto legato al corpo, al movimento, dove la drammaturgia ha un legame strettissimo con questo meraviglioso strumento comunicativo, è necessario che il periodo di lavoro con i danzatori sia il più lungo possibile. Cerco quindi di privilegiare sempre la lunga collaborazione con ognuno di loro, affinché si possa sviluppare un lavoro minuzioso sul dettaglio del gesto. Il mio processo creativo si fonda sull’esigenza che ho di costruire il movimento sul mio sentire, ed è per questo motivo che, pur non avvalendomi frequentemente dell’improvvisazione, esso prende spunto dai valori caratteriali dei miei danzatori, che con facilità trasmettono il gesto al loro corpo, trasformandolo e personalizzandolo» (R. Zappalà, Corpo Devoto, Catania, Metaarte Libri, 2009, p. 8).

2 Tra le fonti dell’azione creativa di Zappalà va annoverata la contact improvisation, disciplina fisica che, prevedendo un contatto globale tra i performer, implica una percezione totale dell’altro, dello spazio e delle energie che vi gravitano intorno; utilizzata nelle fasi di preparazione e di costruzione dello spettacolo, diviene essa stessa coreografia, perfettamente aderente a musiche, silenzi e ritmi scenici che seguono partiture millimetricamente precise.

3 R. Zappalà, Omnia corpora, Catania, Malcor D’, 2016, p. 39.

4 E. Pitozzi, ‘Il corpo: geografia delle sensazioni’, in R. Zappalà, Omnia corpora, p. 27.

5 R. Zappalà ‘Corpo devoto’, in ivi, p. 42.

6 Nel riferire le matrici del discorso etico della sua danza Zappalà chiama in causa la lezione del Blumemberg di Naufragio con spettatore in dialogo costante con un ampio spettro mitografico (che naturalmente trova in Ulisse l’eroe per eccellenza) e con un tenace immaginario visuale, nel quale si stratificano fotogrammi e scatti di un passato-presente in continua ebollizione.

7 R. Zappalà ‘Corpo etico’, in Omnia corpora, p. 63.

8 «Non credo che il corpo possa essere onesto fino in fondo senza che il pudore venga “espulso, proiettato al di fuori del nostro sistema corporeo» (R. Zappalà in N. Calabrò, ‘Corpi naufraghi: un «sistema»’, in R. Zappalà, Omnia corpora, p. 15).

9 S. Tomassini, ‘La pelle per prima’, in ivi, pp. 77-78.

10 Si pensi a Motus e al loro Syrma Antigones, dedicato alla rilocazione del mito di Antigone nel contemporaneo e suddiviso in contest, o al Wunderkammer Soap di ricci/forte in cui alcune delle icone mitiche più note (da Didone a Ero e Leandro) vengono risucchiate da un immaginario pop visionario e oltranzistico, che serializza il plot originario.

11 È Silvia Mei a esplorare il formato della scena degli Anni Zero e a individuare la categoria del progetto-cluster come esempio emblematico di composizione modulare: «nel progetto-cluster il “grappolo” di interventi esiste in quanto super-opera, risultante dalla trasformazione successiva delle sue singole parti che, una volta realizzate, non possiedono un’esistenza autonoma. Il processo creativo procede ora per migrazione dell’oggetto prodotto in quello della tappa successiva, cosa che può comportare la distruzione, la fagocitazione o la semplice citazione di quanto creato precedentemente» (S. Mei, ‘Per una scena “minore”. Le radici contemporanee del teatro breve (2000-2014)’, in Culture teatrali, 24, 2015, p. 156).

12 Come suggeriscono i materiali di lavoro di Nello Calabrò pubblicati in questo numero l’impianto coreografico e il disegno delle luci sono modellati su La zattera della medusa di Géricault, a testimoniare la forte apertura intersemiotica della danza di Zappalà, il suo vibrare attraverso sguardi e materie di espressione diverse.