Vincenzo Pirrotta, Guasta semenza

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Se è vero che, come scrisse Mario Luzi, «noi siamo quello che ricordiamo», Vincenzo Pirrotta è soprattutto un ‘caruso’ siciliano perdutamente innamorato della propria isola, votato a rinnovarne il battito autoctono, a tratti perfino mitologico, in gran parte della sua drammaturgia.

Chi conosce il suo ‘teatro-mondo’ sa bene che la maggior parte dei suoi testi è forgiata in una stessa officina memoriale, cioè in quel vasto repertorio di ricordi agresti a cui l’attore attinge a piene mani, tessendo tra le sue opere una rete di corrispondenze tematiche e stilistiche disegnate sul profilo aspro della plaga siciliana.

La tensione biografica che anima il corpus drammaturgico dell’attore-autore di Partinico si ritrova, altrettanto forte e intensa, nella sua prima opera narrativa: il romanzo Guasta semenza (Mesogea, 2015). La storia narrata nel libro ha per protagonista un carrettiere siciliano, probabilmente uno degli ultimi baluardi di un mondo arcaico e pre-cittadino, rappresentante di una civiltà legata agli antichi mestieri della pesca, dell’agricoltura e della pastorizia e a un proprio ancestrale sistema di cultura.

Pirrotta inserisce il personaggio principale in uno spazio-tempo ben preciso, che il lettore attento può evincere da alcune spie nel racconto: siamo nei primi anni Cinquanta del Novecento e il carrettiere (di cui non conosciamo il nome ma solo l’identità data dal proprio mestiere) si muove, trasportando il suo carico di merci, tra le campagne isolane comprese tra Trapani e Palermo.

Nonostante questi riferimenti puntuali e realistici, la vicenda raccontata sembra immersa in un’atmosfera senza tempo, evaporata nel fumo di un oscuro sortilegio e cristallizzata in uno spazio immobile, quasi onirico. Si deve all’abbacinante intensità descrittiva di Pirrotta questo effetto dreamy, rarefatto e a tratti visionario, frutto di un lessico arcaico e prezioso con cui l’autore intarsia uno scenario narrativo insieme reale e favoloso, fitto di risonanze misteriose e allusive, ma soprattutto intriso di un forte sapore d’antico.

È quindi sullo sfondo di una Sicilia primordiale ed enigmatica che si compie il notturno viaggio del carrettiere, un viaggio in solitaria apparentemente come tanti altri ma subito animato dall’improvviso incontro col mistero, qui rappresentato dall’apparizione di sette personaggi perturbanti, ognuno portatore, seppur in modi diversi, dell’orrenda profezia della ‘guasta semenza’ che germina maligna tra le zolle della campagna isolana.

La narrazione di Pirrotta recupera il sempiterno tòpos del viaggio di memoria dantesca, al fine di costruire le stazioni di una singolare via crucis siciliana, scandita in sette tappe/capitoli, come sette sono i personaggi incontrati dal carrettiere. Tra questi si incontrano: la donna che raccoglie capperi, una sorta di megera che gli predice gli incontri futuri («si dice che in queste notti s’incontrano gli spiriti», p. 21), l’uomo che accarezza le pietre in preda a un delirio mistico, l’uomo appeso a un albero che parla con i morti, la donna del lago di terra, un tempo lago della purificazione colmo di acqua redentrice e ora trasformato in un secco deserto d’argilla, il pazzo del cimitero e il boia dei porci, entrambi detentori di un cupo presagio di morte.

Un sinistro refolo di obito attraversa ognuno di questi incontri, ma particolarmente significativa per la presa di coscienza del protagonista è la dolente apparizione dell’uomo appeso a un albero, il quale, erompendo in un coro di voci fantasmatiche, dà esplicito fiato alla profezia:

I giorni saranno sempre più marci! Verrà un tempo in cui, nella tua terra, gli uomini vivranno come bestie, […] là dove ora sboccia la zagara, risplende la lumìa, profuma il mandarino, là nella conca dorata si propagherà il lordume, […] fanatici edificatori di cosche con prepotenza e delirio, continueranno a finire questa terra a bruciarla a sventrarla a insozzarla (pp. 47-48).

Sigilla questo canone di predizioni tetre una gnome conclusiva altamente paradigmatica: «Gli uomini sono gli artefici del proprio destino!» (p. 50).

Il carrettiere altro non può che ricevere lo schiaffo di questi apocalittici vaticini, rafforzati dagli accadimenti successivi in un’escalation di riferimenti simbolici a vitelli sgozzati e sottoposti a un brutale sparagmos, a «cani rabbiosi divoratori di ogni speranza», a foglie che cadono dagli alberi, attaccate da colonie di afidi che «nella sua testa però avevano facce di uomini, […] uomini che per proprio tornaconto, proteggono gli afidi in una simbiosi malvagia che distrugge interi giardini» (p. 74).

Spinta dalla terrificante magarìa delle visioni rivelatrici, nel carrettiere matura la consapevolezza del morbo maligno che lentamente sta consumando la bellezza della sua terra, che, «come un acido» (p. 133), sta infettando gli uomini siciliani.

Con la comprensione cresce il turbamento, ma nasce anche il bisogno di fare di tutto per impedire la diffusione del seme malato, per sovvertire l’orrido destino della profezia; ed è qui che il carrettiere pirrottiano, trovando conforto e sostegno nella provvidenziale parola di Dio, sceglierà la via estrema dell’olocausto per annientare l’empito della guasta semenza e far ripartire la speranza.

In chiusura la coraggiosa immolazione del carrettiere è metaforica apertura sulla possibilità di un futuro diverso per l’isola ma, nonostante i precedenti richiami religiosi, l’orizzonte del sacrificio umano non si colora di nuances mistico-sacrali, esplodendo invece nelle scintille rosse d’immagini di sangue.

Al lettore arriva con forza tutta la potenza visionaria e simbolica del testo, dove la ripresa di certi tòpoi della letteratura occidentale non scade mai nel cliché narrativo, ma offre invece una riflessione originale sulle cause del fenomeno mafioso, reinventata nel segno di un ardito transfer immaginifico in una Sicilia fantastica ed epifanica.

Pirrotta torna a interrogarsi e interrogarci sull’origine dei mali della propria terra, e lo fa in una veste nuova, non da uomo di teatro ma da scrittore, seppur le tracce della sua esperienza scenica affiorino copiose tanto nell’uso reiterato di forme dialettali in rima, quanto nei molti riferimenti all’arte dei cuntisti e dei pupari, e alla «filantropa meraviglia» (p. 107) delle antiche rappresentazioni nei teatri di pietra.

Gli stessi personaggi incontrati dal carrettiere altro non sono che dramatis personae dalla forte texture drammaturgica, e l’intero impianto narrativo dell’opera potenzialmente si presta a un ‘trasloco’ sulle assi del palcoscenico.

Sulla scia di queste suggestioni, si può individuare un nesso concreto che collega Guasta semenza a molte delle produzioni artistiche pirrottiane, stringendosi attorno al battito civile dei temi affrontati e quindi all’esplicita condanna del potere mafioso.

In tal senso, vengono in mente spettacoli quali Malaluna, La ballata delle balate o Quei ragazzi di Regalpetra, nei quali la ‘messa in figura’ della violenza mafiosa è permeata della stessa tensione etica che attraversa le stringhe testuali del romanzo.

In particolare la pièce Malaluna, autentico inno teatrale alla città di Palermo, è quella che più ci sembra vicina alle ‘visioni di parola’ di Guasta semenza, confermando il modus sentiendi pirrottiano, volto a stabilire un rapporto viscerale con la propria terra, soprattutto con quell’isola a tinte arcaiche e popolari in cui l’attore proietta il cono di ombre e di luci da cui emerge la sua, tanto amata quanto sofferta, sicilitudine.

Sia in Malaluna sia in Guasta semenza, nella grana sottile delle parole di Pirrotta non si avverte soltanto l’urlo della denuncia alla mafia, ma anche il canto d’amore, la melopea dolce e appassionata con cui si celebrano la bellezza e l’inesausta volontà di riscatto della terra siciliana.

In definitiva, il debutto narrativo di Pirrotta può intendersi come un tentativo, certamente riuscito, di fissare i termini del proprio orizzonte drammaturgico, e offre altresì, grazie al ricco sistema di descrizioni sinestetiche dei colori della campagna o degli «effluvi carichi d’eternità» (p. 101) del mare, un prezioso lascito di memoria poetica.