Visibilità e superficie del tragico. Il pathos dell’immagine in d’Annunzio (dai Taccuini al Libro segreto)

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Partendo dalle riflessioni fondamentali di J. Hollander, R. Rudner e altri si è cercato di individuare alcune delle principali caratteristiche estetiche e stilistiche dei Taccuini dannunziani (e relative riscritture) in relazione ai problemi del tragico e del pathos dell’immagine. 

Taking the fundamental reflection of J. Hollander, R. Rudner and others as a point of departure, this essay identifies some of the main aesthetic and stylistic characteristics of d'Annunzio's Taccuini (tragic and pathos forms). The notebooks are truly a 'geography of memory' in which, beside themes of myth and art, one finds a strong somatic component. 

 

Nel formulario estetico dannunziano, ossessionato dal nucleo semantico che destabilizza ogni orizzontalità del senso simbolico e ogni traslazione implicita del linguaggio, tesaurizzando la sproporzione percettiva tra interno ed esterno (florilegio di mantico, mnestico e numinoso, secondo i movimenti stratigrafici di un’ontologia apodittica del sublime ‘romantico’, quella, per intendersi, studiata da Thomas Weiskel),[1] un ruolo assolutamente primario è assegnato, come è noto, alle dinamiche ecfrastiche e alle risultanti poetiche del visuale e del figurato, nelle più caleidoscopiche profondità della sontuosa galleria d’immagini di cui parlava Frank Kermode, nei pressi degli incroci della forma fluens di «Mnemosine» che tanto affascinavano Mario Praz.

Gli indici contestuali figurativi, come ci ha insegnato John Hollander,[2] sono dunque la traccia di uno stile della «visione» che, di volta in volta, aiuta a sentire prossimi gli orizzonti di una configurazione percettiva di micro e macrocosmi. Salto emozionale e dimensione creativa s’inficiano del più mirabolante veleno sinestetico, originando frenetiche vibrazioni tra una linea artistica e l’altra, specie nei diagrammi dello stile e della retorica:[3] fra il «sentire visivo», il «sentire sonoro» e l’auscultazione totale dell’immaginario.

È, più da vicino, il compito che Ezio Raimondi assegnava alla «ricerca di una “figura” dentro le parole del passato, a cui non corrisponde mai uno sfondo univoco e conchiuso», che implica «l’esattezza franca dell’osservazione» e con essa «il riconoscimento del paradosso del senso, del suo divenire nell’universo dialogico della cultura».[4]

Nel caso di d’Annunzio, Pietro Gibellini è partito dall’idea che «l’imaginifico rimase un creatore d’immagini verbali» per indagare i quattro «movimenti» entro i quali leggere l’intera fenomenologia della «pittura mentale» del poeta.[5] Ma l’effettivo atlante di tali «immagini», con il frammento ècfrastico nel vivo della sperimentazione, non è mai andato oltre, unitariamente, al regesto realizzato nel lontano 1949 da Bianca Tamassia Mazzarotto. Non è il caso di ricordare le motivazioni che dissuadono dall’impresa (certo complessa e onerosa) di perlustrare ogni campione testuale del corpus dannunziano originato da un’immagine artistica; ma voglio indicare due accorgimenti estetici che di volta in volta suggeriscono superfetazioni interpretative illimitate (ciò che di per sé è connaturato al carattere del simbolico): il processo di «riscrittura visionaria» e la «simbolizzazione di ogni strato endemico del reale». Bergson ci aiuta a tratteggiare i sintomi di tale cifra percettivo-visionario quando descrive la «fraction de seconde que dure la plus courtre perception possible de la lumière, des trillions de vibrations ont pris place, dont la première ast séparée de la dernière par un intervalle énormément divisé» per poi arrivare alla concretezza che noi «ne percevons, pratiquement, que le passé».[6]

Tanto per far valere la complessità dell’operazione, fra gli esempi possibili, vorrei soffermarmi su un campione ecfrastico che si trova nel Taccuino XLVII, datato settembre 1906, e oggetto di due riscritture (di qui un’ulteriore conferma, se non bastasse una lettura unitaria del macrostesto, della bigamia di valore – testuale e avantestuale –, più volte ribadita, dei Taccuini): prima in una favilla del ’24 (col titolo Peccantem me quotidie – ripreso dal Palestrina) incapsulata nel Secondo amante di Lucrezia Buti, e poi nella Via Crucis del Libro segreto. Ma partiamo dalla descrizione del Taccuino che, di per sé, presenta già notevoli potenzialità visionarie:[7]

Bologna – Santa Maria della Vita – La chiesa ha due cupole successive Tutta addobbata di damasco rosso
[…]
Il gruppo del Cristo morto Un’agitazione di dolore nell’ombra –
Il Cristo è supino, disteso, rigido, con i piedi eretti su cui erano le incrostazioni del tempo e del mastice che restaura la rottura – nerastri – col buco del chiodo profondo – Ha le due braccia distese e le mani conserte su gli inguini – Il capo sul cuscino – la faccia nerastra la barba coperta d’una gomma bianchiccia – La Marie intorno sembrano infuriate dal dolore – Dolore furiale. (Taccuini, p. 473)
 Niccolò dell’Arca, Compianto sul Cristo morto, 1463-1490

 

E dopo altre numerose indicazioni descrittive:

Opera d’una potenza dramatica singolarissima – agitata veramente dal vento del dolore – Il colore della terra cotta è divenuto grigiastro, per la polvere che si accumula e vi s’incrostra.
[…]
La Maria a sinistra della Madonna guarda la sopravveniente Magdalena e si eccita al dolore di lei. […] È come se il suo corpo fosse intento a partorire il dolore, a espellerlo come si espelli l’infante dalla matrice.
[…]
Il dolore dionisiaco (Ivi, p. 475)
 Niccolò dell’Arca, Compianto sul Cristo morto, 1463-1490 (particolare)

Senza scomodare l’ermeneutica di Francesco Arcangeli, è già evidente, dalla pagina privata, il pathos del complesso scultoreo di Niccolò dell’Arca che d’Annunzio stilizza e fa rivivere nel tessuto retorico. L’eccitazione per il dolore e per il dramma declinato nelle simulazioni del tragico cooptano per una plasticità panteistica della struttura allucinatoria, quasi a rilevare un’immagine vibrante fra la visibilità metafisica del dolore di Schopenhauer, l’occultamento di sensi ‘altri’ di Paul Jakob Deussen e il percepire universale studiato da Angelo De Gubernatis. Tre nomi, con quello di André Lefèvre e del suo concetto di «anthropomorphisme», tutt’altro che casuali nella dinamica costruttiva del senso panico che sta a fondamento di tanta scrittura, solare e notturna, di d’Annunzio. Ricordo, per esempio, che il De Gubernatis, oltre a produrre quegli splendidi cataloghi delle geografie metamorfiche e mitiche, come la Mitologia delle piante, contribuì a far conoscere in Italia il Max Müller della Mitologia comparata, tanto caro a d’Annunzio quanto a Pascoli.[8]

Nel Libro segreto[9] tutto ciò che nel Taccuino era appuntato come vera e propria teofonia epifanica diventa incontro segnato da un’«agitazione impetuosa di dolore». Il sistema lessicale si dilata alle tensioni della riscrittura visionaria. E nel cortocircuito di presenze emozionali, in una sorta di assoluto ribaltamento interiore, all’insegna della metamorfosi dei sensi vibrati dalla vertigine, d’Annunzio parla della compenetrazione con l’«immobilità della tragedia cristiana» sino a raccontare il sinestetico addentrarsi «nello strazio».

La tensione dei sensi è condotta al limite dall’esperienza della visione, diretta e improvvisa, con l’opera d’arte. Le sculture, plasticamente, propongono incisivamente la sostanza dell’«angoscia mortale» e, fuse in un’immagine musicale, vicina all’Aufhebung trascendentale e pseudo-idealistico descritto da Pater, favoriscono l’iniziazione alla «Musica». È in atto il metabolismo frenetico dell’entità «spirituale» dell’oggetto d’arte e del materiale iper-semantizzato che lo caratterizza.

Al di là di ogni pragmatica del singolo, quello che si vuole individuare è il problema reale che Richard Rudner indagava nello Statuto ontologico dell’oggetto estetico, verso una trascendenza del medesimo principio artistico; da cui è possibile approfondire un primo esito sul senso dannunziano della materia, nello specifico, una materia ri-semantizzata attraverso l’arte. E quindi del problema diretto della «visibilità» delle forme. Niva Lorenzini,[10] a tal proposito, ha messo in campo il nome di Wölfflin (per il concetto di «intensificazione»), accostandolo a quello di Carlo Placci (che, come è noto, ebbe importanti relazioni, anche personali, con d’Annunzio). Tutto sembrerebbe partire dunque dalla tribuna estetica del «Marzocco»: difatti Placci, che della rivista era attivo collaboratore, fu uno dei primi (se non il primo) a portare il nome di Wölfflin in Italia. Ma allo stesso tempo non va trascurato il profondo afflato estetico della «Georgica dello spirito» di Angelo Conti che a Placci (e quindi a Berenson) si contrapponeva. In effetti la complessità semantica che di volta in volta d’Annunzio orchestra sulla pagina, specie in ordine alla sostanza artistica, produce effetti disorientanti. È essa stessa vittima di feroci oscillazioni (lo si vede, per esempio, da vicino, col rapporto wagneriano).

Addirittura si è col tempo arrivati a parlare di un d’Annunzio ‘barocco’, esteta del transitorio e del fugace; artefice del conturbante processo di rigenerazione di ogni superficialità del reale. E in parte questo è vero. Facendo un breve balzo verso il Fuoco, ma senza allontanarci troppo dalle pagine del Taccuino e del Libro segreto, si registra – e Lorenzini guida con precisione – l’«amplificazione» totale nel particolare: il movimento che si produce è «fittizio». Ed è qui il senso estetico più profondo del d’Annunzio dinanzi alla realtà e all’arte. Un senso eminentemente intriso di bizantinismo, proprio nella costruzione delle forme che inficiano la coscienza primordiale di ogni ‘puro gesto’ dei sensi (e così la ‘teoria dello sguardo’ e la semantica dell’‘acustica’).[11]

Il «movimento» si trova nella «fissità» (in fondo c’è qualcosa di queste astrazioni della materia, e ce lo insegna Jankélévitch, anche nella dimensione «notturna»: in musica come in pittura e in poesia); la verticalità del senso (di ogni senso) si radica nelle variazioni della superficie, prima ancora che in qualsiasi distensione, e nelle virtualità semantiche della stessa, nella dialettica, per dirla con Raimondi, di «essenza e simulacro».[12] Sembra quasi di sentire l’eco delle teorie della temporalità della forma organica di cui ragionava Viktor von Weizsäcker, che è più un discorso sulla configurazione che sull’essenza (ne discuteva anche Aby Warburg); e così, per riportare il discorso a d’Annunzio, sui problemi dello stile.

Ecco dunque un altro riflesso del pathos della materia indicato da Lorenzini; e così un esempio, dal Fuoco, in cui si ascolta tale mobilità dell’immobile (e in tal caso concordiamo con la parentesi di un d’Annunzio barocco che fa sentire tutti gli effetti dell’espressione di una Stilleben):

L’inerzia delle cose li invadeva, l’umido fumo cinerino li fasciava addensandosi; la confusa monotonia li stordiva. […] Gli ululi a poco a poco […] parevano indugiarsi come quelle foglie trascolorate che abbandonavano il ramo a una a una senza gemere. Quanto era lungo il tempo che passava tra il distaccarsi della foglia e il suo giungere a terra! […] tanta era la quiete dell’aria che i pampini secchi non si distaccavano dai tralci. Nessuna foglia cadeva, se bene tutto morisse. (Fuoco, p.150; corsivi miei)

Torniamo alla descrizione dell’opera di Niccolò dell’Arca. Il «dolore dionisiaco» appuntato nel Taccuino distilla la totalità dell’evento che tramuta il soggetto in «uno strumento nelle mani del musico invisibile» (il Palestrina), metaforizzando l’unicità dell’esperienza, tale per cui «in quell’ora, in quella chiesa parata di porpora, in quel senso mistico che fluttua tra l’estremo della carne e il limitare dell’anima, veramente» si sente «dedurre e condurre il […] filo di porpora dalle dita della Musica, e non per diletto e non per blandizia e non per oblio, sì per elezione di dolore e per vocazione di martirio».

La materialità dell’espressione si concretizza in un arabesco di forme «multanimi» (direbbe d’Annunzio stesso): il potenziale della pietrificazione del sentimento; la musicalità delle pietre (per cui si sarebbe entusiasmato Marius Schneider); l’allucinazione del contatto e il prodursi della ‘visione’; il totalizzante sentimento musicale e l’esperienza del dolore. È così eseguito quello che Lorenzini indica come l’«irrazionale» del linguaggio somatico: «in primo piano sta il corpo, la percezione dei sensi acuiti che tracciano, con la loro ‘topologia fluida’, le linee di un linguaggio inesplorato, pulsionale e segreto, anteriore al processo logico e immediatamente coincidente, al tempo stesso, con l’immagine dell’oggetto».[13] La capacità vibratile della materia fa tutt’uno con la materialità dell’espressione, quindi del simbolico.

È ben noto che negli sbalzi sismografici storici dell’ontologico in arte si registrano, per lo meno a partire dal Seicento, notevoli inflazioni verso l’«asimmetrico», il «fragile» e l’«incompiuto» e che l’intero organigramma del simbolico soggiace a queste spinte cangianti (lo ha mostrato con chiarezza Anceschi). Ne risentono così anche tutti i riflessi dell’individualità. Si tratta, da qui, di capire meglio, nell’orizzonte dannunziano (aspetto non ancora sufficientemente sondato), gli enigmi del valore della materia (sia essa l’ombra degli oggetti; la superficie degli specchi; il riflesso di ciò che è visibile; ecc.) e il concetto, tutt’altro che secondario, della «pura visibilità» di cui discutevano prima Riegl, Hildebrand e poi il già ricordato Wölfflin, secondo il quale, ha scritto Antonio Banfi, importa soprattutto «la legge trascendentale del processo: il regno delle forme è regno dello spirito, solo in quanto è uno sviluppo infinito».[14] Il concetto, come si diceva, fu di grande interesse per molta della critica d’arte gravitante attorno al «Marzocco» e venne rielaborata dalla linea Placci-Berenson. In termini schopenhaueriani Conti definiva l’arte come «la forza che ci rende possibile di lacerare, in certi istanti, la trama del velo di Maja e di guardare l’eterno a traverso il mutevole; l’arte sola può renderci possibile di contemplare, oltre la serie e la successione dei fenomeni, la luce delle idee».[15]

Altro dato significativo, nel caso prelevato dai Taccuini e dal Libro segreto, riguarda l’oggetto-statua: si tratta, in sintesi, della già menzionata pietrificazione del sentimento interiore interconnessa alla semantica simbolica del materiale statuario (le intuizioni di Pater sull’arte scultorea antica vengono amplificate), in un perpetuo flusso (metamorfico) delle forme.[16] È qualcosa di simile (naturalmente su un piano più estetico che gnoseologico) all’idea di Cassirer della «lingua [come] significato espresso in suoni che sono oggetti materiali». L’attenzione cade sulle epifanie del concreto e lascia solo a un secondo momento il possibile visionario adottato e applicato di volta in volta, al fine di capire che non si tratta di due distinti momenti d’un medesimo processo interpretativo, ma sguardi distanziati, declinati sotto un unico coefficiente immaginativo.

D’altro canto, nelle vicinanze di Angelo Conti e della scuola estetica a cui si rifà l’intero Parnaso dei Nobili spiriti, nel difficile, ma non inutile, rapporto con l’idealismo, è determinante il binomio «immaginazione» e «sensibilità concreta» che fonda un intero processo d’identificazione del «reale simbolico»: «Immaginazione» e «sensibilità concreta» come trasfigurazioni del genio e abilità psichiche, tra «attenzione», la stessa di Ribot, «potenziamento dei sensi», delle «abilità» della vista e dell’udito. Leggiamo, in un articolo del Conti, pubblicato sul «Marzocco» il 29 ottobre 1899, dal titolo Nota per le «Laudi»:

Dalle ricerche microscopiche degli scienziati ai quadri dei pittori di paese, vediamo la natura ricercata, investigata, scrutata, con ardente, paziente ed instancabile curiosità, vediamo tutti i fenomeni del cielo e della terra sottoposti allo studio e all’osservazione degli uomini.
[…] Una nuova religione è dunque sorta su quella di ieri, un nuovo culto e una nuova divinità: la natura. Il mistero e la sua religione rinasceranno quando i filosofi ne avranno trovata la radice nel nucleo stesso della natura e della vita.

Dall’alfabeto originario della critica d’arte, vicino all’estetica del fisiologico di Charles Blanc (senza scordare le ricerche chimiche di Michel Eugène Chevreul) e alle fenomenologie del colore e relative energie del ‘disteso’ contro il ‘pragmatico lineare’ (pensiamo ai dipinti di Georges-Pierre Seurat), come conseguenza pratica, si passa a una grammatica della materia simbolica, senza che venga trascurato ogni singolo tassello della costellazione culturale che guida i dettagli della forma. Si sovrappongono «elementi estensivi» ed «elementi intensivi», coloriture del dissonante e geometrie corrotte del simmetrico, da cui si rintracciano le forze vivide di una visione tutta bizantinistica, tra immagini immacolate e abissale profondità della coscienza cromatica,[17] nei trainanti ingranaggi interiori dell’illusione, ottica e mnestica, verso le stazioni dell’onirico. Scrive ancora Angelo Conti nella Beata riva che «il disegno è tutto; e il colore è la sua ricchezza, la sua fioritura, la sua musicalità, la sua potenza suprema» (si individuano in tal modo forti divergenze con il neoclassicismo di Winckelmann e con la teoresi dell’arte di Lessing). Un sodalizio di processualità psichiche che seduceva copiosamente l’intuito mitografico di Karl Abraham.

Ancora dai prodromi della superficie, Blanc aveva chiaramente distinto l’energia «femminile», creatrice, genetica, del colore contro la staticità «maschile» della linea; e così la visione simbolica è possibile più nella concavità pluritonale del cromatico che nel perimetro del concreto. L’immagine bizantina (il significato dell’iconologia che sprigiona luci e riflessi dall’interno) raffigura l’arabesco per antonomasia di ogni misterica morfologia del paradosso figurativo simbolico. Un passo successivo, dell’ermeneutica del colore e del movimento semantico dell’articolazione cromatica messo in campo, fu quello di trovare nuovi risvolti fondativi, su base scientifica, negli interessi psicologici coevi per la dimensione percettiva e, nello specifico, per i nessi fra immagini visive, energie creatrici e allucinazioni interiori, ben distribuite fra le «alterazioni» di Binet, le «suggestioni» di Bernheim e l’«immaginazione» di Ribot.

Il rapporto fra ‘sostanza’ e ‘senso’, sullo sfondo della fenomenologia della materia di Bachelard (che sappiamo essere stato attento e acuto lettore di d’Annunzio, concentrandosi sulla struttura empedoclea del cosmo, tra fluidità e solidità), porta verso un altro suggestivo passo del Fuoco, in cui pare leggersi ancora una sorta di Stilleben traslitterata, come quella che Jeanne Hersch definiva «miniatura d’eternità»:[18]

Conosci la colonna verde che è in San Giacomo dall’Orio? – soggiunse Daniele, con l’animo di trattenere l’amico ancóra qualche istante, poiché temeva il commiato. – Che materia sublime! Sembra la condensazione fossile d’una immensa foresta verdeggiante. Seguendo le sue innumerevoli venature l’occhio viaggia in collegamento pel mistero silvano. Guardandola, io ho visitato la Sila, l’Ercinia.
Stelio la conosceva. Un giorno Perdita era rimasta lungamente appoggiata al grande stelo prezioso per contemplare il magico fregio d’oro che s’incurva su la tela del Bassano oscurandola.
– Sognare, sempre sognare! – sospirò egli, per un ritorno di quell’amara impazienza che gli aveva suggerito parole di scherno sul battello partente dal Lido. – Vivere di reliquie! Ma pensa a quel Dandolo che abbattè nel tempo medesimo quella colonna e un impero, e volle rimaner doge potendo diventare imperatore. Egli visse più di te, forse, che erri per le foreste se indaghi il suo marmo predato. Addio, Daniele. (Fuoco, pp. 193-194)

Nel romanzo il discorso è pronunciato dal Doctor Misticus e si giustifica con l’idea della comunicazione diretta con «l’anima delle cose»; con l’energia dell’artista studiata da Conti e che, nell’articolo La visione imminente («Marzocco», 19 aprile 1896), è definita la «legge che regola l’apparizione dei capolavori d’arte»:

dall’aria, dall’acqua, dai muri, dagli edifizi, si sprigiona una virtù che prepara l’apparizione; ogni movimento, ogni forma, ogni splendore, ogni suono già appartengono, benché in un grado inferiore, alla visione imminente. Tutte le cose della terra e dell’acqua fanno già parte dell’opera artistica, nella quale le loro confuse aspirazioni e il loro intimo sogno è continuato ed è fissato in forma di bellezza immortale.

Insomma di una materia comune si esalta l’imperscrutabile legame del ‘sonoro’ col ‘visivo’; lo stesso rapporto di cui d’Annunzio si ricorderà nel Notturno a proposito del prisma cromatico sorto dall’ascolto del «Preludio di Scriabin».

Sull’ormai celebre aforisma del Pater delle «arti che aspirano costantemente alla condizione della musica» s’è detto molto; sia in relazione a d’Annunzio che a Conti e a tutto il côtè dell’estetismo europeo. Ciò che preme sottolineare ulteriormente sono le implicazioni ontologiche dell’ente artistico, e del materiale che lo corrobora. Nella sintesi musicale, proseguiva Pater, si scioglie la «perfetta identificazione di materia e di forma»; quindi in ogni forma d’arte e, di conseguenza, in ogni giacenza ontologica dell’oggetto artistico, mediante la «ragione fantastica», deve essere colto il «grado in cui ciascuno» dei prodotti indicati (per l’appunto gli oggetti d’arte) «s’avvicina […] alla legge musicale». E non è affatto un caso che la riflessione, inserita nel saggio dedicato a La scuola di Giorgione (in Il rinascimento), precede l’immagine critica che unifica, in un ponte cronologico millenario, la pittura veneziana agli «splendori semibarbarici della decorazione bizantina», nella consistenza di una «introduzione in una maggiore dose d’espressione umana nell’incrostazione di marmo e d’oro delle pareti del Duomo di Milano o della Chiesa di San Marco».[19] Fra i sortilegi dell’estetico è ancora la superficie artistica (come non ricordare la patina del bronzo!) a essere il nucleo del discorso: il principio del «contatto» con la materia; una specifica materia iper-semantizzata da memoria, valori artistici, valori umani e potenzialità mitiche. Ed è questa (la riduzione del contatto mistico con oggetti d’arte che produce visioni e allucinazioni), nei margini di una cultura che non vuole separare l’estetico dallo psicologico, un’esperienza dei nervi che attrae d’Annunzio: dalle statue di Niccolò dell’Arca a luoghi e resti archeologici degli antichi Atridi della Città morta.

L’effetto di tali allucinazioni si districa tra un materiale metamorfico assai vario e introverso, sovente relegato nelle pieghe della volontà dionisiaca, e della «volontà violenta» di cui parlava Nietzsche. Ecco un esempio, dal Compagno dagli occhi senza cigli, in toni che già prefigurano i deliri notturni, di ‘metamorfismo allucinatorio’ che pare trascritto dalle cartelle cliniche dei primi pazienti affetti da turbamenti dell’onirico di uno Charcot o di un Sante de Sanctis:

Quando all’ora della ricreazione io me ne stavo in disparte a guardare con quella pupilla nel tempo medesimo lucida e allucinata che tale ancor serbo sotto la palpebra, vedevo spesso crearsi nel tumulto fanciullesco improvvise figure di malvagità quasi in aspetto di mostri a più gambe a più braccia a più teste. Una volontà violenta e perfida pareva saldare insieme i corpi di tre o quattro compagni. (Faville del maglio, in Prose di ricerca, pp. 1457-1458)

Riprendiamo a questo punto il passo del Fuoco sopra citato. L’immagine tipica della prosa figurativa del romanzo dionisiaco, vero e proprio Künstlerroman (secondo la catalogazione di Herbert Marcuse), va comparata a una pagina di poco successiva in cui protagonista è Foscarina:[20]

Le innumerevoli vene dei marmi diversi ond’era incrostato il fianco del tempio, quelle indistinte trame di vario coloro, quei labirinti e quei meandri commisti, parvero quasi renderle visibile la sua stessa diversità interiore, la confusione stessa dei suoi pensieri. Ella sentiva le cose a volta a volta estranee, remote, inesistenti, e familiari, prossime, partecipanti della sua intima vita. (Fuoco, p. 221)

Si tratta di un intreccio tra visibile, percepito e concreto/figurato, in cui l’oggetto travalica la forma sub-stanziale che le è propria per redimersi dalla pràxis dell’effimero e inondare panteisticamente il senso della capacità interiore dell’artificio. Il visibile, in movimento tra potenze della materia e potenze dei sensi, è alterazione del simmetrico (ancora l’influenza dell’estetica del colore e delle forme bizantine), i cui elementi estensivi e intensivi (così ben coadiuvati nell’immagine del ‘fuoco’ e dell’ondulazione dell’acqua sotto le pietre) rievocano le suggestioni della «linea serpentina» di cui parlava nel Settecento, per i dettami della Bellezza, William Hogart. Ed è, aggiungiamo, il silenzio dell’immagine, quasi precondizione ontologica (appunto musicale) di ogni orizzonte di senso (Novalis), il luogo del possibile, del decifrabile e dell’ascolto. Leggiamo nel Fuoco, estraendo da metafora: «anche una volta voi avete scolpito divinamente nel silenzio la vostra propria statua, che vive nel nostro ricordo con la parola e col canto».

George Dickie ha definito concettualmente il separarsi dello status materiale dell’opera d’arte dai suoi effetti conturbanti (ampliamo noi a una serie più vasta di oggetti, non sempre veicolati in prima istanza da una volontà artistica), soffermandosi dettagliatamente sulle implicazioni del processo di «artefattualità»,[21] ben adattabili al sistema dannunziano che fa, ogni qualvolta, tutt’uno con la pratica semantica e sensoriale della sintassi delle percezioni e dell’attenzione (teorizzate da Ribot). Si tratta, sempre con Dickie, della ‘trasparenza del senso’, rifluita nella superficie marmorea che, dall’astratto della forma cromatica, produce esiti psicodinamici, grazie a una vera e propria iridescenza dell’oggetto (il medesimo effetto provocato dall’oro della tomba nella Città morta. Ma si trovano effetti di pathos anche nella statua di marmo penetrata dalla demente del Sogno d’un mattino di primavera). La statua è oggetto che, dall’epoca antica, ostenta un’aura luminosa e, quindi, metaforizza il divino, oltre la duttilità del tempo (d’Annunzio è influenzato anche dall’immagine di un tempo «spazializzato» del Guyau di La genèse de l’idee de temps, Paris, Alcan, 1890). Ne parlava anche lo Chateaubriand dell’Itinéraire de Paris à Jarusalem.

Tramite primo di tali cognizioni è il «corpo» che, attraverso l’intensificazione delle proprie capacità, agli incroci di un’iperbolica sequenza di antico e moderno (e che nell’antico si manifestava, secondo il verbo nietzschiano, nella nientificazione del principium individuationis), diventa protagonista della tanto agognata perdita del «sentimento del tempo». L’«ècriture corporelle», mescolando la voce di Mallarmé alla profondità onirica del contatto plastico con l’antico, tratteggia l’«incorporation visuelle de l’idée» dando spazio al senso profondo della «vertige». Il poeta francese faceva riferimento al moto della danza (tema caro, emerso con chiarezza dai primi studi di Raimondi sino ai più recenti di Zanetti, anche a d’Annunzio; specie al d’Annunzio lettore di Nietzsche), anch’essa, la danza, simulacro di corporeo e spirituale, anticipo dell’overture dell’antico.

A questo punto, nonostante l’ormai oceanica bibliografia, merita alcuni accenni proprio il problema del rapporto con l’antico (con la «materia» antica), così come distribuito secondo le tre Moire dell’Archéologie de la modernitè (per dirla con Jean Borie). La critica ha esaurito quasi ogni passaggio del rapporto col mito (e con l’antico in generale – specie ellenico e proto-ellenico) tra d’Annunzio, Carducci e Pascoli. Uno scorcio ancora da decifrare è quello che tende a un confronto fra i singoli modi di rilevare il materico e la virtù plastica come effigie di un andamento virtuale spazio-temporale, destinato al problema della cosa tra ontologia antica e percezione moderna (o pre-moderna che dir si voglia).

Si tratta di una sorta di museo della memoria ontica ove si succedono, per fare solo tre esempi, il bianco del marmo pario carducciano; la patina del bronzo tanto desiderata dal d’Annunzio favillare (e da Conti) e le lacrime degli eroi del Pascoli conviviale.[22] Tre origini, tre metafisiche, tre ontologie e, soprattutto, tre modi differenti di presentificare le figure dell’antico. Le «meteore spirituali» del Pascoli, ad esempio, convergono verso una simbolica dell’ethos, fra spiritualizzazioni dell’interiore e dell’onirico (il Sonno di Odisseo), fra «visibile» e «invisibile» (Il Cieco di Chio), ma anche verso la «vera realtà», costituita da ombre prima ancora che da cose e quindi, come indicato da Giuseppe Nava, «dalle immagini ai ricordi». A loro volta le Primavere Elleniche carducciane sono un baedeker dell’immaginazione archeologica (ben nutrita alle scuole di Gherardo Ghirardini e Edoardo Brizio), di un mito non vissuto (o ri-vissuto), attraverso il quale la metamorfosi si appiana sulla superficie piatta di una filologia storica del retorico e dell’accademico in cui, come indicato a suo tempo dalla Marabini Moevs, si ha «l’importanza della stratificazione culturale, e il riconoscimento del valore intrinseco di ogni forma di civiltà umana»[23] (è chiara – come specifica sempre la Marabini Moevs – la debolezza di un vero e proprio fondamento estetico – così come mancava a tutta la tradizione archeologica primo e medio ottocentesca). E, infine, i tentativi di d’Annunzio di sentirsi elleno (proto-elleno), grazie a una sensibilità somatica rivissuta e riscritta.

Restando a d’Annunzio, la materia fa sentire, per prima, agli occhi del poeta di Maia, la vita che «fluisce in tutte le membra» attraverso una «purificazione» che concede al «corpo» e allo «spirito» l’assorbimento della «gioja» di «tutte le apparenze»; rivivendo così una giovinezza che si trova nelle «membra immortali dell’Ermete prassitelèo» (Taccuino III).[24]

 Copertina della fondamentale edizione di Gabriele d’Annunzio, Altri taccuini, a cura di Enrica Bianchetti, Milano, Mondadori, 1976

È questa, nell’intera parabola tra Logos e mithos, una funzione prettamente «esclusiva» del mito. E torno a ripetere che sono essenzialmente due gli atteggiamenti di d’Annunzio nei confronti della riscrittura del mito: uno ‘inclusivo’, determinante nella codificazione di sensi e percezioni, entro cui si dipanano i precetti nietzschiani del dionisiaco e della perdita del principium individuationis; e l’altro, ‘esclusivo’, che cerca nel visibile (oggetti e immagini) il veicolo (tema su cui insisteva molto il Conti, soprattutto in virtù dell’abolizione dell’«errore del tempo») per la relazione con l’antico. Naturalmente, in molti casi (da Alcyone, alle Faville alla stessa Città morta), queste due prospettive, specie nelle declinazioni ekphrastiche, collimano.[25]


1 Un sublime che, spesso, in d’Annunzio si offre negli ambienti circoscritti del ‘dettaglio’ e del ‘particolare’ – i Taccuini lo testimoniano in modo prolifico. Sul concetto di sublime, in ambito estetico, cfr. almeno T. Weiskel, The romantic sublime. Studies in the Structure and Psychology of Transcendence, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1976. Sulla visibilità del dolore cfr. il capitolo Vedere il dolore in M. Cometa, Parole che dipingono. Letteratura e cultura visuale tra Settecento e Novecento, Roma, Meltemi, 2004, pp. 21-45.

2 Cfr. J. Hollander, The figure of Echo. A mode of allusion in Milton and after, Berkley, University of California Press, 1981.

3 Cfr. il sintetico ma efficace capitolo ‘D’Annunzio o la liturgia della retorica’ in A. Battistini, E. Raimondi (a cura di), Le figure della retorica, Torino, Einaudi, 1990, pp. 400-411.

4 E. Raimondi, Il volto nelle parole, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 14.

5 Cfr. P. Gibellini, Introduzione a Gabriele d’Annunzio. Pagine sull’arte, a cura di S. Fugazza, Milano, Electa, 1986, ora in P. Gibellini, D’Annunzio. Dal gesto al testo, Milano, Mursia, 1995, pp. 142-158. Sul d’Annunzio critico d’arte cfr. anche F. Ulivi, ‘D’Annunzio e le arti’, in E. Mariano (a cura di), D’Annunzio e il simbolismo europeo, Milano, Il Saggiatore, 1976, pp. 103-144. Per il panorama della critica d’arte entro cui collocare e pensare anche l’attività dannunziana cfr. A.M. Damigella, La pittura simbolista in Italia (1885-1900), Torino, Einaudi, 1981.

6 H. Bergson, ‘Matière et mémoire’, in Id., Oeuvres, Paris, PUF, 1959, p. 291. L’edizione dell’opera Paris, Alcan, 1912 è presente nella Biblioteca del Vittoriale e reca segni di lettura. Sulle opere del filosofo francese presenti nella biblioteca dannunziana mi permetto di rimandare al mio ‘Le virtù del «bibliomante». Perizie dalla biblioteca di d’Annunzio’, Rivista di Studi italiani, XXXIV, agosto, 2016 (in corso di stampa).

7 Per i testi di riferimento cfr.: G. d’Annunzio, Taccuini, a cura di E. Bianchetti e R. Forcella, Milano, Mondadori, 1965; Id., Altri Taccuini, a cura di E. Bianchetti, Milano, Mondadori, 1976; Id., Prose di ricerca, 2 Voll., a cura di A. Andreoli e G. Zanetti, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 2005; Id., Prose di romanzi, 2 Voll., a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, Milano, Mondadori, «I meridiani», 1988-89; Id., Il Fuoco, a cura di F. Caburlotto, Milano, BUR, 2009.

8 La mythologie des plantes di Gubernatis è stata richiamata da Zanetti fra le fonti, o comunque fra i modelli culturali, del d’Annunzio drammaturgo autore del Sogno d’un mattino di primavera. Aggiungerei, sul tema della simbolica vegetale, per altrettante suggestioni e approfondimenti, tra i punti di riferimento l’opera di Reivas dell’Ibis (pseudonimo di Abramo Bartolomeo Massalongo), I miti e i simboli delle piante presso i greci, del 1857 (Verona-Milano, Civelli Giuseppe e C.).

9 Per il Libro segreto, oltre al testo edito nelle Prose di ricerca, cfr. l’edizione commentata a cura di P. Gibellini, Milano, BUR, 2013 e la densa introduzione del curatore.

10 Cfr. N. Lorenzini, ‘“Visione” e “visibilità” in d’Annunzio: alcune ipotesi di ricerca’, in D’Annunzio e la cultura germanica, Pescara, Centro Nazionale di Studi dannunziani, 1985, pp. 199-209; Ead., Il frammento infinito. Percorsi letterari dall’estetismo al futurismo, Milano, Franco Angeli, 1988 e Ead., Il segno del corpo (Saggio su d’Annunzio), Roma, Bulzoni, 1984.

11 Mi permetto di rimandare rispettivamente ai miei: ‘D’Annunzio e le semantiche dell’«acustica notturna». Letture del ‘suono’ dalla «Contemplazione della morte» al «Libro Segreto»’, Rivista di Letteratura italiana, 1, 2016, pp. 39-58 e ‘Visione, scienza ottica e psicologia sperimentale. D’Annunzio e le ‘estetiche dello sguardo’, Otto/Novecento (in corso di stampa).

12 Il riferimento a Raimondi va, naturalmente, a Il silenzio della Gorgone, Bologna, Zanichelli, 1980.

13 N. Lorenzini, ‘D’Annunzio, l’irrazionale, il linguaggio del corpo’, Il Verri, marzo-giugno 1985, 5-6, p. 141. Ma si veda anche Ead., ‘“Visione” e “visibilità” in d’Annunzio: alcune ipotesi di ricerca’, pp. 199-209.

14 A. Banfi, Introduzione a K. Fiedler, Aforismi sull’arte, Milano, Minuziano, 1945, p. 26. Cfr. H. Wölfflin, Concetti fondamentali della storia dell’arte, Milano, Longanesi, 1984. Un’ottima ricognizione tematica si legge in E. Franzini, M. Mazzocut-Mis, I nomi dell’estetica, Milano, Mondadori, 2003.

15 Cfr. A. Conti, La beata riva. Trattato dell’oblio, a cura di P. Gibellini, Venezia, Marsilio, 2000. La bibliografia su Angelo Conti dagli anni Settanta, in cui molti studi critici e documentari hanno iniziato a riproporre agli studiosi la figura dell’esteta, si è molto arricchita in più direzioni (e anche autonome rispetto al rapporto Conti-d’Annunzio); restano però tutt’ora insuperati i due lavori di R. Riccorda, Dalla parte di Ariele. Angelo Conti nella cultura di fine secolo, Roma, Bulzoni, 1993 e G. Zanetti, Estetismo e modernità. Saggio su Angelo Conti, Bologna, Il Mulino, 1995.

16 Un’interessante fenomenologia del metamorfico in d’Annunzio è offerta da M.A. Balducci, Il sorriso di Ermes. Studio sul metamorfismo dannunziano, Firenze, Vallecchi, 1989.

17 Cfr. A. P. Michelis, L’esthétique de l’art byzantin, Paris, Flammarion, 1959. Per quanto riguarda la storia dei colori e il singolo uso simbolico che d’Annunzio opera di volta in volta, distribuito nelle varie fasi poetiche, narrative e teatrali, cfr. G. Oliva (a cura di), D’Annunzio. Per una grammatica dei sensi, Chieti, Solfanelli, 1992. Per un inquadramento teorico sono ancora indispensabili: M. Brusatin, Storia dei colori, Torino, Einaudi, 1999 (utili, in una prospettiva estetica delle forme, di Brusatin anche Storia delle immagini, Torino, Einaudi, 1989 e Storia delle linee, Torino, Einaudi, 1993) e J. Albers, Interazione del colore. Esercizi per imparare a vedere, Milano, Il Saggiatore, 2013. Per la storia simbolica del colore e per molteplici aspetti culturali sull’immaginario cromatico cfr. J. Gage, Colore e cultura. Usi e significati dall’antichità all’arte astratta, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2001 e F. Portal, Sui colori simbolici nell’antichità, nel medioevo e nell’età moderna, Milano-Trento, Luni, 1997.

18 Sulla centralità del Fuoco, nell’intera parabola dannunziana, specie per tutta una serie di temi legati a «certe virtualità combinatorie del sistema, affidate a stabili isotopie» entro cui si snoda una densa stratificazione di livelli (in primis «sintattici, semantici, simbolici», ma anche notevoli «circolarità di aree metaforiche») ha parole molto acute Niva Lorenzini, che, peraltro, avvicina, senza, naturalmente, sovrapporre, tali stratificazioni e condensazioni del senso ai sistemi dialogici di Bachtin. Cfr. N. Lorenzini, Il frammento infinito. Percorsi letterari dall’estetismo al futurismo, pp. 86-87.

19 Cfr. W. Pater, ‘La scuola di Giorgione’, in Id., Il Rinascimento, a cura di Mario Praz, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1946, pp. 148-149. Tutto da confrontare con A. Conti, Il Giorgione, a cura di R. Ricorda, Novi Ligure, Città del silenzio, 2007.

20 Come è stato notato dalla critica, il Fuoco va letto e interpretato primariamente nella sua natura di «centrifuga episodicità»; cfr. E. Giachery, ‘D’Annunzio e il labirinto’, in Id., Verga e d’Annunzio. Ritorno a Itaca, Roma, Studium, 1991, pp. 136 sgg. e G. Baldi, ‘Il fuoco: il superuomo nel labirinto e la salvezza della «decadenza»’, in Id., Le ambiguità della «decadenza». D’Annunzio romanziere, Napoli, Liguori, 2008, pp. 288-297. Cfr. anche S. Costa, ‘Il Fuoco: sontuose figure della malinconia’, in Da Foscarina a Ermione. Alcyone: prodromi, officina, poesia, fortuna, Pescara, Centro Nazionale di Studi dannunziani, 2000, pp. 7-23.

21 Cfr. G. Dickie, Art and the Aesthetic. An Institutional Analysis, London, Cornell Univesity Press, 1974. Per un’ulteriore disamina relativa all’ontologismo dell’artefatto cfr. T.C. Ryckman, ‘Dickie on Artifactuality’, The Journal of Aesthetics and Art Criticism, 47, 1989, pp. 175-177.

22 Sul rapporto tra Pascoli e l’antico mi limito a segnalare il volume M. Pazzaglia (a cura di), I poemi conviviali di Giovanni Pascoli, Scandicci, La Nuova Italia, 1997; E. Elli, Pascoli e l’«antico». Dalle liriche giovanili ai Poemi conviviali, Novara, Interlinea, 2002 e il commento e l’Introduzione di Giuseppe Nava all’edizione G. Pascoli, Poemi conviviali, Torino, Einaudi, 2008.

23 Cfr. M.T. Marabini Moevs, Fra marmo pario e archeologia: l’antichità nella vita e nell’opera di Giosuè Carducci, Bologna, Cappelli editore, 1971. Cfr. anche M.A. Bazzocchi, S. Santucci (a cura di), Carducci e i miti della bellezza, Bologna, Bononia University Press, 2007 (in particolare i saggi di Bazzocchi e Canfora). In riferimento a Carducci, la malinconia e l’antico cfr. P. Gibellini, ‘I conti con Carducci’, Studi sul Settecento e l’Ottocento, 2, 2007, pp. 55-64. Cfr. anche M. Harari, ‘Carducci etruscologo’, in M. Marinoni, M. Basora (a cura di), «Sorpresi a scrivere di immagini». Critica d’arte di letterati tra Otto e Novecento, Pavia, Edizioni TCP, 2016, pp. 1-8.

24 Sul rapporto corpo-sensi-percezione dell’antico mi sia consentito il rimando al mio ‘Operazioni della memoria. Esemplarità ècfrastica nei Taccuini di d’Annunzio’, Per Leggere, 28, 2015, pp. 109-122. Per questioni vicine ai contesti europei e alle pratiche del simbolo cfr. P. Gibellini, ‘D’Annunzio, Pascoli e Marinetti di fronte al mito’, in L’Officina di d’Annunzio. Giornata di studi in ricordo di Franco Gavazzeni, Bergamo, Biblioteca Civica “Angelo Mai”, 2013, pp. 3-19; Id., D’Annunzio antico o moderno? e R. Bertazzoli, ‘Il paradigma dell’antico tra Pascoli e d’Annunzio: alcune riflessione a margine’, in C. Gibellini (a cura di), Gabriele d’Annunzio 150 “Vivo, scrivo.”, Milano, Silvana Editoriale, 2014.

25 Cfr. M. Marinoni, ‘D’Annunzio e il non-finito: strutture, temi e motivi delle prime «Faville del maglio»’, in A. Dolfi (a cura di), Non finito, opera interrotta e modernità, Firenze, FUP, 2015, pp. 213-230.