Nel formulario estetico dannunziano, ossessionato dal nucleo semantico che destabilizza ogni orizzontalità del senso simbolico e ogni traslazione implicita del linguaggio, tesaurizzando la sproporzione percettiva tra interno ed esterno (florilegio di mantico, mnestico e numinoso, secondo i movimenti stratigrafici di un’ontologia apodittica del sublime ‘romantico’, quella, per intendersi, studiata da Thomas Weiskel),[1] un ruolo assolutamente primario è assegnato, come è noto, alle dinamiche ecfrastiche e alle risultanti poetiche del visuale e del figurato, nelle più caleidoscopiche profondità della sontuosa galleria d’immagini di cui parlava Frank Kermode, nei pressi degli incroci della forma fluens di «Mnemosine» che tanto affascinavano Mario Praz.
Gli indici contestuali figurativi, come ci ha insegnato John Hollander,[2] sono dunque la traccia di uno stile della «visione» che, di volta in volta, aiuta a sentire prossimi gli orizzonti di una configurazione percettiva di micro e macrocosmi. Salto emozionale e dimensione creativa s’inficiano del più mirabolante veleno sinestetico, originando frenetiche vibrazioni tra una linea artistica e l’altra, specie nei diagrammi dello stile e della retorica:[3] fra il «sentire visivo», il «sentire sonoro» e l’auscultazione totale dell’immaginario.
È, più da vicino, il compito che Ezio Raimondi assegnava alla «ricerca di una “figura” dentro le parole del passato, a cui non corrisponde mai uno sfondo univoco e conchiuso», che implica «l’esattezza franca dell’osservazione» e con essa «il riconoscimento del paradosso del senso, del suo divenire nell’universo dialogico della cultura».[4]