2.1. Leopardi ed Enotrio: La ginestra
di Alessandro Giammei
In un’ideale biblioteca in cui custodire tutto ciò che è passato per il torchio di Franco Riva, Leopardi avrebbe di certo un posto d’onore. Il gentiluomo di Verona, al culmine del tirocinio da dilettante, si arrischia a stamparlo per la prima volta solo dopo aver superato l’apprendistato della calcografia, dopo aver sudato sul primo mastodontico torchio e dopo aver imparato a governare quello più piccolo e versatile – ma al contempo meno affidabile – comprato a Monza nel 1956. La sua più antica collana di poesia, germe più tradizionale dei venturi “Poeti Illustrati”, era partita pochi anni prima con il primissimo libro commissionato e interamente confezionato a mano (God and all you people, del misterioso poeta americano E. Blair), quasi una prova generale in sessantacinque esemplari, ed aveva proseguito con l’elegantissima edizione in ottantasei copie delle Rime di Scipione Maffei pensata per il secondo centenario dalla morte nel 1955. Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia è dunque il primo libro davvero ‘domenicale’ della serie “Gli Amici della Poesia” (evidentemente ispirata al riuscitissimo esperimento dei “Cento Amici” di Ojetti e De Marinis) e viene riprodotto in cento copie, con un frontespizio in nero e rosso la cui assoluta classicità è chiaramente influenzata dal modello di Mardersteig. Nel 1959, appena avviata la nuova collana dei “Poeti Illustrati”, Riva torna a stampare Leopardi (stavolta tre dei Canti) ma sceglie di nuovo la serie meno sperimentale, includendo l’incisione di un ritratto sul frontespizio e armonizzando con maestria il Garamond e il Janson, fino ad allora usato solo per i contemporanei (fatta eccezione per il primo volume della “Bibliotheca Veronensis”, una vita di San Zeno). Esiste poi un tardo foglio sciolto in cui i versi del più celebre idillio leopardiano sono adoperati per la prova di un set Garamond corpo 16 che sarà destinato a pochi, selezionati autori: solo Sereni, Giudici e gli europei (Rilke, Valéry, Mallarmé, Goethe) che richiedono l’uso di caratteri speciali.
Questo La ginestra, stampato davvero con cura maniacale – tanto che lo specchio delle acqueforti è, sulla pagina, leggermente più in alto rispetto a quello del testo, per far sì che la firma autografa dell’artista non squilibri la composizione a pagine affiancate – sembra a sua volta un punto d’arrivo e un omaggio alle realizzazioni più linde e tradizionali dell’arte della stampa. Naturalmente resta, come tutti i fascicoli della particolare collana, un tentativo di innovare mantenendo salda la grammatica classica dell’artigianato librario – e il frontespizio così minimale, con solo il titolo, lo dimostra – ma a confronto coi precedenti cinque numeri risulta ben meno ardito. D’altronde lo stesso editore, ragionando sulla scelta dei caratteri, ammette la necessità tipografica di non indulgere in sperimentalismi quando si ha a che fare con autori che, ai suoi occhi, non ammettono deroghe da una certa classicità: «fra tutti i caratteri modernamente disegnati, fra tutte le serie più o meno decorative, non oserei certo sceglierne uno per stampare Leopardi o Montale». Per quanto riguarda la scelta dell’illustratore poi, Enotrio è davvero il più immediatamente leggibile tra i figurativi che hanno lavorato con Riva: le sue acqueforti sono nitide, tutte espresse nel tratto, e subito aprono il libro sulla «arida schiena» del Vesuvio. La tipica attenzione del pittore calabrese per il paesaggio e per l’assoluto naturale si sposa con facilità al testo, che suggerisce però all’artista una secchezza e una gravità diverse dalla sua solita quieta tensione. La prima immagine (fig. 1) mostra Pompei – o comunque costruzioni che precedevano lo sconquasso – di tra le erbe e le ginestre, come dalla prospettiva terrena di un osservatore tanto fuori dalla storia quanto dentro al paesaggio. La seconda e ultima (fig. 2) non cade alla fine del testo ma prima dell’invocazione finale, forse per chiarire che la figura umana che si fa improvvisamente visibile nello stesso paesaggio dopo il disastro, è il «peregrino» che contempla la cresta, ignorato dalla natura con cui pure visivamente dialoga nel suo desolato erigersi, in piedi, tra le infittite spighe della vegetazione. Enotrio si mette totalmente al servizio del testo, di quell’«orrore lucreziano della Ginestra» su cui ha recentemente insistito Luigi Blasucci, riproducendone letteralmente i simbolici dettagli materiali (la «impietrata lava», la «serpe» che «si contorce al sole») e offrendo al libro un apparato visuale armonico e fieramente tragico, posatamente semplice nella sua discreta modernità.
Bibliografia
G. Leopardi, La ginestra, con due acqueforti di Enotrio Pugliese, Verona, Editiones Dominicae, inverno 1963.
L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito [1978], Bologna, Il Mulino, 2001.
Enotrio 1920-1989: opere scelte, Catalogo della mostra di Vibo Valentia 1996, Roma, Nike, 1996.
La xilografia di Enotrio, Macerata, Istituto Editoriale Europeo, 1983.
G. Leopardi, Canti, a cura di L. Felici [1974], Roma, Newton Compton, 2010.
2.2. Foscolo e Funi: Dei sepolcri
di Nicola Lucchi
Il carme Dei sepolcri è una composizione del 1806, idealmente indirizzata da Foscolo al letterato Ippolito Pindemonte, e ispirata da fatti di cronaca relativi alla coeva legislazione sulle sepolture. Il testo sviluppa una complessa argomentazione a favore dell’importanza memoriale e affettiva dei monumenti tombali, in aperta polemica con quell’editto di Saint Cloud che dal 1806 imponeva anche nel Regno d’Italia napoleonico nuove norme per la sepoltura dei defunti, ispirate a principi egalitari e giustificate da ragioni igienico-sanitarie. Il rifiuto di Foscolo alle imposizioni del decreto imperiale si basa sull’assunto che i riti funebri e una degna sepoltura rappresentino elementi indispensabili per stabilire un legame affettivo tra i vivi e i defunti, e per mantenere salda nei primi la memoria dei secondi. L’importanza di questa osservazione assume un valore particolare nel contesto dei sepolcri dedicati agli uomini illustri, che ispirano «a egregie cose» gli animi di chi vi si reca in laico pellegrinaggio. Tramite un accatastarsi di immagini poetiche, quasi una galleria emblematica di grandi italiani, Foscolo conduce il lettore attraverso una visita letteraria al pantheon intellettuale di Santa Croce, ove «le urne dei forti» impartiscono la propria eterna lezione. Ad esse Foscolo assimila il ruolo del poeta e della sua poesia, capace di eternare la memoria dei defunti ed evocare l’esempio degli eroi.
Nell’accostare l’arte di Achille Funi al carme di Foscolo, Riva offre un equivalente visuale alle tematiche di ispirazione epica e classica che abbondano nel testo. Lo stampatore si appoggia al disegno sicuro della figura umana tipico di Funi, e tramite esso focalizza l’attenzione del lettore sul valore monumentale dell’arte in generale. Le litografie offrono interessanti interpretazioni dei versi foscoliani, integrandosi ad un livello ora letterale, ora tematico. Funi, artista ferrarese, già tra i sette membri fondatori del movimento artistico sarfattiano Novecento, affronta il carme attraverso un vocabolario stilistico improntato ad un classicismo solenne, di respiro murale nonostante l’aspetto di un bozzetto, privo di ironie surrealiste o metafisiche.
Nella prima litografia (fig. 3) Funi ritrae una Musa seduta, col capo coronato di alloro e il braccio sinistro teso verso il basso a indicare una cetra. Postura e attributi ricordano i cartoni preparatori per gli innumerevoli affreschi realizzati dall’artista tra gli anni ’30 e ’50 del Novecento. L’iconografia della Musa, in aggiunta, si ricollega a un omonimo olio su compensato degli anni Trenta, in cui Funi imposta il ritratto della divinità greca secondo soluzioni formali parzialmente riproposte nella litografia. L’immagine può essere letta come diretta illustrazione dei versi 226-234, in cui le Muse «siedon custodi de’ sepolcri» e chiamano il poeta «ad evocar gli eroi». Se Foscolo si dichiara «fuggitivo» a causa dei «tempi e il disio d’onore» (vv. 226-227), con un chiaro rimando ai temi del sonetto In morte del fratello Giovanni, Funi assicura che la personificazione della poesia foscoliana sia percepita come una presenza di caratura monumentale, il cui valore consiste appunto nel rendere immortali le gesta dei grandi e la memoria dei defunti. Questa solidità di propositi è tradotta visivamente in un’illustrazione altrettanto concreta: le sperimentazioni tra piani e volumi a scapito del corpo umano, tipiche del giovane Funi futurista, sono abbandonate in favore di una plasticità classicheggiante, pienamente corporea, in cui il trattamento della tunica che avvolge la figura ricorda le solide pieghe nel manto di una Maestà giottesca.
La seconda litografia (fig. 4) mantiene le prerogative formali della precedente, ma si discosta dalla citazione di un nucleo testuale specifico. La figura intera lascia il passo a due soli busti, due ritratti di chiara matrice classica probabilmente ispirati ai cartoni preparatori per gli affreschi del Palazzo dei Congressi all’EUR. In primissimo piano Funi disegna un profilo maschile, degno di monetazione romana, il cui sguardo verso l’altro tradisce però un sentimento d’ispirazione e forse supplica, piuttosto che una volontà d’imperio. Dallo sfondo della litografia emerge, in un secondo momento, il ritratto a tre quarti di un volto femminile, contraddistinto da un ricorso al chiaroscuro che ne esalta la qualità scultorea. Questa seconda figura è coperta da un leggero velo che cade lungo il profilo del volto, incorniciandone l’espressione al tempo stesso forte e malinconica. Tramite le forme chiare e scolpite di un’arte ispirata a una romanità senza tempo, Funi traduce nella pratica della propria disciplina l’argomentazione che Foscolo articola fin dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis, secondo cui l’arte deve tentare di «erigere un monumento». La memoria dei grandi, custodita sì dai sepolcri, ma anche dalla poesia e dall’arte, è qui tramandata da immagini che sanciscono con la propria esistenza il valore degli esempi passati, e la virtù a cui spingono «il forte animo».
Bibliografia
U. Foscolo, Dei sepolcri & due litografie di Achille Funi, Verona, Editiones Dominicae, autunno 1966.
U. Foscolo, Sepolcri - Odi - Sonetti, a cura di D. Martinelli, Milano, Mondadori, 1995.
A. Funi, Catalogo ragionato dei dipinti; Catalogo ragionato dei cartoni, a cura di N. Colombo, Milano, Leonardo Arte, 1996.
2.3. Foscolo e Piacesi: Sonetti
di Nicola Lucchi
L’edizione riviana dei sonetti di Foscolo, in centoventi esemplari, ha origini celebrative: come lo stampatore segnala nel colophon dell’albo, l’opera è stata composta in occasione del «bicentenario della nascita del Poeta». Ad ornamento dei sonetti, oltre alle acqueforti di Piacesi, Riva allega una lirica di Carducci, dedicata alla traslazione delle ceneri di Foscolo dall’Inghilterra a Firenze e scritta, secondo lo stesso Riva, nei «tempi di peggiori angustie» del 1871.
I dodici sonetti non richiedono lunghe presentazioni: composti tra il 1798 e il 1803, vennero pubblicati in diverse edizioni tra il 1802 e il 1803. Le quattro liriche più conosciute, generalmente citate con i titoli Alla sera, In morte del fratello Giovanni, Alla musa e A Zacinto, rappresentano un vertice espressivo della poesia italiana a cavallo tra Settecento e Ottocento. Nei sonetti Foscolo affronta riflessioni sulla bellezza, sulla morte, sul rapporto tra esilio e patria, sul valore monumentale dell’arte e della poesia, e offre una rappresentazione di sé nelle vesti di eroe protoromantico, talora non dissimile nella propria retorica dal personaggio foscoliano di Jacopo Ortis.
Franco Riva tratta i dodici componimenti con egual riguardo e cura filologica: non isola i cosiddetti sonetti maggiori in una sezione distinta, ed evita ogni menzione dei titoli apocrifi assegnati ai poemi dalla critica ottocentesca. L’integrazione dell’albo con la lirica carducciana si configura come un doppio omaggio a Foscolo da parte dello stampatore, che nello stesso 1978 aveva già pubblicato un’edizione in cento esemplari di tale poesia, definendo i suoi versi «duri e affascinanti per l’aceto e il miele le maledizioni e la speranza del paese appena allora unito».
Le acqueforti di Piacesi, artista marchigiano e insegnante presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze, suggeriscono accostamenti con alcuni topoi delle liriche foscoliane, senza tuttavia costituirne una traduzione per immagini. L’acquaforte con tumuli e croci in primo piano (fig. 5) persegue una strategia visiva legata all’iconografia della morte che ben si addice al tono di disperazione ortisiana che a tratti affiora nei sonetti. Piacesi affianca ai semplici crocifissi delle tombe l’accenno al muro perimetrale di un cimitero, interrotto da una porta spalancata su un groviglio di arbusti rinsecchiti. Una teoria di scuri cipressi, in dialogo prospettico con le croci, inquadra la mesta scena sui due lati e accompagna lo sguardo del lettore verso un cielo plumbeo che occupa quasi due terzi della composizione. La vista dell’orizzonte è frustrata, e tramite questa privazione l’immagine provoca nell’osservatore un ulteriore senso di sconforto. La seconda acquaforte (fig. 6) conferma il tentativo di Piacesi di affrontare i testi foscoliani tramite elementi di valore simbolico. Il filare di cipressi che segue l’asse prospettico e si perde nel punto di fuga segnala un paesaggio italiano, caratterizzato però da un pervasivo senso di rovina e desolazione: il terreno è segnato da pietre tombali abbandonate e colonne spezzate, simboli di una nazione che sconfessa e tradisce il proprio passato, un’Italia in cui «han morto il senno ed il valor di Roma». La terza acquaforte (fig. 7) lascia intravedere una più esplicita sintonia paesaggistica con i testi di due sonetti maggiori, A Zacinto e In morte del fratello Giovanni. Piacesi architetta un paesaggio mediterraneo: in primo piano disegna un rigoglioso albero, probabilmente un ulivo, le cui radici affondano sicure in un pendio che scende verso il mare. Dietro l’ulivo, un fico d’India conferma il carattere marittimo della scena, mentre il Mediterraneo calmo dello sfondo alza la linea dell’orizzonte fino a rendere il cielo meno minaccioso, permettendo una riconciliazione tra paesaggio e passioni dell’animo.
Lo stile fondamentalmente espressionista delle acqueforti è privo del sarcasmo che caratterizza certa parte della produzione pittorica di Piacesi, ma amplifica e forse esaspera gli aspetti più tragici dei sonetti di Foscolo. Se il letterato addita la morte come momento di pace e consolazione, e il sepolcro come luogo di affetti familiari, l’artista persegue un’interpretazione più pessimistica di questi motivi. Nelle prime due acqueforti, Piacesi si allontana dal linguaggio misurato delle liriche maggiori, ed esprime un malessere esistenziale in linea con uno stile più retorico e drammatico rintracciabile nel Foscolo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, e parzialmente nel sonetto Te nudrice alle Muse. La terza acquaforte, composta da soli elementi naturali e più vincolata alle immagini poetiche dei sonetti maggiori, recupera un’assonanza con la chiave di lettura offerta dall’epigrafe oraziana scelta da Foscolo per i sonetti: sollicitae oblivia vitae, la cui importanza è evidenziata dallo stesso Riva tramite la sua riproduzione al centro di una pagina altrimenti bianca, in caratteri rossi.
Bibliografia
U. Foscolo, Sonetti; G. Carducci, Alle reliquie di Ugo Foscolo in Santa Croce, con tre acqueforti di Walter Piacesi, Verona, Editiones Dominicae, 1978.
U. Foscolo, Sepolcri - Odi - Sonetti, a cura di D. Martinelli, Milano, Mondadori, 1995.
M. Gatta, Dalle parti di Aldo. Vicende e protagonisti della cultura tipografica italiana del Novecento, a cura di D. Colnaghi, prefazione di E. Barbieri, con uno scritto di M. Chiabrando, Macerata, Biblohaus, 2012.
W. Piacesi, Catalogo dell’opera completa: acqueforti, litografie e tecniche varie, Torino, Edizioni Gian Alvise Salamon, 1975.