2.1. Yvonne Sanson. Misura e dismisura

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Stella lucentissima nell’orbita breve del larmoyant popolare, Yvonne Sanson è probabilmente l’unica diva costruita a misura di melodramma (Morreale 2011, p. 140; Bayman 2015, p. 11), destinata a risplendere e a tramontare assieme alle dolenti pellicole che furoreggiavano sugli schermi italiani del secondo dopoguerra. Chi guardi alla sua misconosciuta carriera, si accorge, invero, che l’attrice ha attraversato tutti i generi del cinema popolare, dal comico allo spaghetti western, dal film in costume al thriller erotico, comparendo in circa cinquanta titoli disseminati nell’arco di un trentennio. Così, bionda e sciantosa, impersona la bulgara Sonia al fianco di Totò in L’imperatore di Capri (L. Comencini, 1949), perfetta spalla comica in quello spumeggiante e quasi astratto gioco di fraintendimenti, burle e travestimenti; poi, castana e posata, interpreta con grazia la paziente moglie di Vittorio De Sica, un lubrico governatore borbonico, in La bella mugnaia (M. Camerini, 1955), dove il ruolo di seconda attrice – la vedette in questo caso è Sophia Loren, seducente e campagnola, con calze a righe e corsetti attillati – le consente di impersonare autorevolmente la figura della governatrice. E ancora poi, a partire dagli anni Sessanta, capelli bruni e disciplinati da eleganti messe in piega, interpreta numerosi e defilati ruoli materni in pellicole molto diverse fra loro: in Il re di Poggioreale (D. Coletti, 1961) sopravvive, a fianco del marito (Ernest Borgnine), alla morte dell’unico figlio; in Il profeta (D. Risi, 1967) è la moglie inquieta di un ricco industriale, madre di un lascivo rampollo, e balla il twist con Vittorio Gassman; nel rocambolesco Don Franco e Don Ciccio nell'anno della contestazione (M. Girolami, 1970) e nell’orrorifico e scollacciato AAA Massaggiatrice bella presenza offresi (D. Fidani, 1972) è alle prese con figlie ribelli e scapestrate, che rischiano di mettersi nei guai; infine in Il conformista (B. Bertolucci, 1970) è la madre di Giulia (Stefania Sandrelli), veste abiti sobri, dal taglio impeccabile, ed ha a cuore soltanto la forma esteriore della famiglia ‘perbene’, preoccupandosi sopra ogni cosa di evitare lo scandalo.

Sono tutti ruoli minori, che si consumano ai bordi del quadro, pallida eco delle fortune cinematografiche conosciute dall’attrice negli anni Cinquanta [fig. 1], quando la sua possente silhouette, saldamente al centro della scena, incarnava le passioni più strazianti e profonde del melodramma popolare. E proprio su queste vorrei soffermarmi, guardando alla sua figura di diva leggiadrissima e lacrimosa, così esposta agli sguardi del pubblico ma ancora, paradossalmente, avvolta nell’ombra.

 

1. L’ingombro del corpo

Al di là delle incertezze biografiche e della cortina di riservatezza intessuta dall’attrice attorno alla sua vita privata, quel che più colpisce è l’invisibilità del suo fare, che sembra trascorrere in trasparenza sul nastro di celluloide, senza essere davvero osservato. Eppure il corpo di Yvonne Sanson, grande e voluttuoso, pervaso da tratti materni ed erotici insieme, satura l’inquadratura, imponendo i suoi gesti, pur minuti, con la forza della dismisura. Tuttavia, ad oggi, nessuno (me compresa: cfr. Cardone 2012), si è dato la pena di indagare come quel corpo si muova, agisca, interpreti. Da un lato, lo stereotipo della diva più bella che brava ha scoraggiato ulteriori riflessioni; dall’altro, la pervasività del genere, per dirla con Peter Brooks, ha portato a leggere il lavoro dell’attrice come mero strumento di un disegno più ampio, sontuoso e accecante: «il suo corpo étonnant è posseduto dal significato, […] in un senso che l’avvicina alla purezza originaria del melodramma e all’invadenza caratteristica della sua estetica ridondante» (Busni 2018, p. 222). Vorrei dunque cominciare a guardare questo corpo, così ingombrante da confondere, quando entra in azione.

Con la pratica del doppiaggio e l’aggiunta della voce in post produzione, Yvonne Sanson conserva alcuni tratti della recitazione muta, da posatrice, direbbe Cristina Jandelli, perpetrando l’enigma del silenzio, del toccare, dell’aria che non si traduce in parole. Così nel ciclo matarazziano la vediamo muoversi sullo schermo senza voce, e tuttavia abitata da un potente respiro, un soffio vitale e disperato che le solleva il petto, le rende turgida la gola, le fa brillare gli occhi sofferenti, trasformandola in un geroglifico di carne. Ciò emerge soprattutto nelle scene madri, dove Sanson non pronuncia alcuna parola e si affida a piccoli gesti, al tocco delle mani, alla micromimica del volto, ripreso sovente in piani ravvicinati, quasi epidermici [fig. 2]. In Tormento (R. Matarazzo 1950), per citare uno fra i numerosi esempi possibili, la sua personaggia, Anna, battuta dai colpi di un destino crudele, tenta di far fronte alle avversità del fato e giunge persino a contrapporsi, in un passaggio quasi titanico e altamente simbolico, alla furia degli elementi naturali. Nella notte, Anna fugge dall’istituto correttivo in cui l’ha rinchiusa la sua feroce matrigna per cercare di raggiungere la figlioletta, ammalata di nostalgia per la madre, dalla quale è stata separata. La sequenza, di circa un minuto, è composta da cinque inquadrature, due delle quali alternano nel montaggio l’immagine della bambina febbricitante che domanda «Perché mammina non viene?», e tre assai più lunghe, prive di dialoghi, che danno agio, grazie anche al sapiente dinamismo della cinepresa, alla performance di Sanson di compiersi distesamente. La pioggia è intensa e il vento urla implacabile; la donna si stringe nello scialle, tiene le braccia all’altezza dello sterno, forse a proteggere la scaturigine del respiro, il plesso vitale, ultimo spazio di resistenza [fig. 3]. I tuoni, fortissimi, attirano il suo sguardo all’indietro: volge il capo verso il rombo del cielo, quasi si trattasse di uno sparo, si appoggia a un alberello [fig. 4], come trafitta da una gragnuola di colpi, ma continua ad avanzare seppure con crescente affanno [fig. 5], sorreggendosi al muro [fig. 6], opponendosi al vortice di acqua e aria che la percuote. Poi serra gli occhi, dischiude le labbra nell’estremo tentativo di riprendere fiato, energia, ma cade a terra, strisciando sul marciapiede. La macchina da presa, con un movimento verso il basso, ci consegna il suo corpo vinto, esausto, privo di sensi, nella postura della punizione massima [fig. 7].

È una sequenza fatta d’aria, per il turbinio del vento e il respiro franto di Anna, certo, ma anche in senso operistico giacché la scena madre corrisponde all’assolo della cantante, segnando il punto più alto del suo protagonismo e insieme della sua disfatta (cfr. Clément 1979). Come osserva Marcia Landy (2008, p. 133), qui, come negli altri film matarazziani, il corpo di Yvonne Sanson è un campo di battaglia, giacché sulla sua pelle si scontrano, talora in maniera esiziale, le rigide opposizioni di una morale che la incatena. La sua peculiare fisicità le consente, nella cornice sacrificale del melodramma, di incarnare (e di risolvere) i conflitti profondi che attraversano le esperienze di domesticità e coniugalità delle italiane degli anni Cinquanta: le sue fiorenti membra raccontano visivamente «i piaceri della trasgressione e al contempo la promessa della redenzione» (Landy 2008, p.136).

 

2. Forme in eccesso

Dal set alle pagine della stampa popolare, il corpo di Yvonne Sanson, con la sua procacità e con «qualche chiletto di troppo» (Masi-Lancia 1989, p. 168), corrisponde pienamente ai desideri e alle contraddizioni del tempo, situandosi in uno spazio del tutto peculiare rispetto alle altre pin up nostrane. Nello scenario del dopoguerra, in quel paesaggio dissestato e promettente, restituito con un tratto di macchina da presa al pubblico italiano, i corpi delle donne sono segni viventi di rinascita (cfr. Grignaffini 1996), soprattuto quelli, visibilissimi, delle maggiorate, splendenti personificazioni di una «certa nozione di femminile materno e benigno» (Capussotti 2004, p. 159) capace di far dimenticare i patimenti degli anni del conflitto. In questo quadro, l’aspetto fisico di Sanson offre un modello di avvenenza alternativo rispetto, ad esempio, a Sophia Loren e Gina Lollobrigida che appaiono più apertamente spregiudicate, e in una certa misura più moderne: lei rappresenta, con la sua seducente “ordinarietà” (cfr. Landy 2008), la donna italiana la cui bellezza deriva da una «innate goodness […] and not from super-modern perverse glamour of the cover girl» (Gundle 1999, p. 366). Pur muovendosi sullo scivoloso confine di una sensualità prorompente, riconducibile solo in extremis all’alveo sicuro della coppia regolare, in lei c’è aria di famiglia, tanto che «migliaia di ammiratori in lacrime l’hanno chiamata figlia, madre, sorella» (S. M. 1956, p. 42). Diva statuaria, matronale, ma in fondo domestica, quasi una casalinga di lusso, i rotocalchi la ritraggono nella sua accogliente villa sull’Appia, in giardino, nella schiuma profumata della sua vasca da bagno, in cucina, ai fornelli, alle prese con un proverbiale uovo al tegamino [fig. 8]. Il suo successo è anche questione di misura: forse il pubblico avverte nella morbidezza ampia dei suoi fianchi, nelle sue guance piene e in quel «pizzico di doppiomento» (Masi-Lancia p. 168) che la caratterizza il fascino genuino dell’abbondanza, del cibo consumato in famiglia, del desco finalmente apparecchiato senza tristi economie. A ben vedere quello di Sanson è un corpo eucaristico, che sembra offrirsi alla appassionata comunità dei suoi ammiratori, nell’andamento penitenziale ma consolatorio del melodramma, come agognato e salvifico nutrimento; di lei si scrive, non senza malevolenza, che ha «un seno che fa pensare alla cornucopia, […] alla fine del tesseramento, al benessere per tutti. […] È il simbolo delle fettuccine e del pane bianco, del burro e dell’olio genuino che ritornano sulle tavole italiane» (Quarantotto 1965, p. 616). A chiudere il pantagruelico banchetto è Malinconico autunno (R. Matarazzo, 1958), che sancisce mestamente l’obsolescenza di una formula e di una diva che parevano imbattibili, confinando la protagonista, come già il precedente L’ultima violenza (1957), nel riquadro angusto di una maternità asettica e priva di passioni.

Se Pierre Sorlin (2001, p. 108) imputa il repentino tramonto della stella di Sanson a un che di grossolano e volgare nel suo aspetto, altri ne ravvisano la causa nel mutamento dei modelli femminili in voga al principio degli anni Sessanta. Si è esaurito il tempo del mélo e delle maggiorate e va cominciando l’era delle moderne, donne differenti, scarne se non emaciate, che camminano con passo leggero e pensoso di fronte alle cineprese dei giovani autori (cfr. Tognolotti 2015). La fame e la guerra sono ormai lontane, la floridezza dei fianchi e la generosità del seno perdono le loro attrattive: nel torno di pochi anni, il corpo di Sanson eccede la misura dei nuovi standard di desiderabilità cinematografica, per così dire, e per l’attrice le occasioni di lavorare sul set si riducono sensibilmente. Così leggiamo su «Il Resto del Carlino» che «fu dimenticata perché non seppe dimagrire in tempo» (Franchi 1971, p. 9); ed è lei stessa a raccontare all’intervistatore il trauma dell’esser messa da parte come un abito irrimediabilmente fuori moda:

 
Fu una sensazione così violenta, così schiacciante che ne fui annichilita […]. Le altre corsero ai ripari. Io non riuscii ad evadere dal mio modulo. Mi guardavo allo specchio e mi sembrava di sfogliare un vecchio album di ricordi. […] Non credo ci sia mai stato, nella storia della donna, un salto così repentino. Ne fui travolta. Il telefono, che prima non dava tregua, rimase improvvisamente muto, come se una fata cattiva avesse tagliato i fili (ibidem).

Invero a relegarla ai margini dello schermo, più che il fallimento di una dieta, è la persistenza di una ostinata e ormai inservibile memoria filmica; la sua figura, infatti, è gravata non dai chili in eccesso ma dal carico esatto di un immaginario vischiosamente patriarcale, circonfuso del peculiare familismo ereditato dal melodramma popolare. Lo conferma, mi pare, la sequenza del pre-finale di Il conformista, sorta di omaggio alla diva e al cinema che fu. Siamo nella stanza azzurro cielo della bambina, dove il padre, Marcello (Jean-Louis Trintignant), irrompe, esagitato, prima di gettarsi nelle strade della città e mescolarsi alla folla che festeggia la caduta del fascismo; Sanson è presente soltanto in effige, in una grande fotografia in primo piano, borghesemente incorniciata d’argento, posta a vegliare sui sogni della nipotina. La macchina da presa si sofferma sul suo ritratto, autentico talismano, nume tutelare delle virtù domestiche e soprattutto delle loro apparenze sociali, ovvero di quella impossibile “normalità” tragicamente agognata dal protagonista e per sempre incarnata nel corpo cinematografico di Yvonne Sanson.

 

 

Bibliografia

L. Bayman, The Operatic and the Everyday in Postwar Italian Film Melodrama, Edimburgh, Edinburgh University Press, 2015.

P. Brooks, L’immaginazione melodrammatica [1976], Parma, Pratiche, 1985.

S. Busni, La voce delle donne. Le sconosciute del melodramma da Galatea a Lucia Bosè, Roma, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, 2018.

E. Capussotti, Gioventù perduta. Gli anni Cinquanta del cinema e dei giovani in Italia, Firenze-Milano, Giunti, 2004.

L. Cardone, Il melodramma, Milano, Il Castoro, 2012.

C. Clément, L’opera lirica o la disfatta delle donne, Venezia, Marsilio, 1979.

G. Franchi, ‘Yvonne Sanson: il ritorno dopo tanti guai’, Il Resto del Carlino, 11 dicembre 1971, p. 9.

G. Grignaffini, ‘Il femminile nel cinema italiano. Racconti di rinascita’, in G.P. Brunetta (a cura di), Identità italiana e identità europea nel cinema italiano dal 1945 al miracolo economico, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1996.

S. Gundle, ‘Feminine Beauty, National Identity and Political Conflict in Postwar Italy’, Contemporary European History, 8, 3, 1999, pp. 359-378.

E. Morreale, Così piangevano. Il cinema mélo nell'Italia degli anni Cinquanta, Roma, Donzelli, 2011.

M. Landy, Stardom. Italian Style. Screen Performance and Personality in Italian Cinema, Bloomington-Indianapolis, 2008.

S. Masi-E. Lancia, Stelle d’Italia. Piccole e grandi dive del cinema italiano, Roma, Gremese, 1989.

C. Quarantotto, ‘Storia fotografica del cinema sexy 2. Yvonne, Yvonne’, Il Borghese, a. 16, n. 46, 1965, p. 616.

S. M., ‘Una vecchietta decretò il successo di Yvonne’, Tempo, 18, 43, 25 ottobre 1956, pp. 42-44.

S. Sorlin, Italian National Cinema. 1896-1996, London-New York, Routledge, 2001.

C. Tognolotti, ‘Moderne’, in L. Cardone, C. Jandelli, C. Tognolotti (a cura di), Storie in divenire. Le donne del cinema italiano, Quaderni del CSCI, 11, 2015, pp. 266-270