24 Frames di Abbas Kiarostami e la condizione inter-mediale

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24 Frames è l’ultimo film di Abbas Kiarostami, realizzato nell’ultimo periodo della sua vita (2015-2016) e distribuito alcuni mesi dopo la sua morte (2017-2018). Si tratta di ventiquattro episodi di pochi minuti l’uno, nei quali un’immagine statica (un quadro o una fotografia) viene progressivamente animata dalla computer graphica. Prevalentemente dedicati ad ambienti naturali e a piccole scene di vita animale, i frames conservano un portato teorico che il saggio cerca di esplicitare, poiché richiamano direttamente o indirettamente alcuni contributi ‘classici’ dei film studies, da quelli di Gunning e Gaudreault sul cinema dei primi tempi a quelli di Bazin e Pasolini sui rapporti tra cinema e vita, dal Barthes de La camera chiara fino agli studi più recenti su rimediazione, convergenza e intermedialità. È proprio quest’ultimo concetto di inter-medialità a subire i contraccolpi più interessanti perché il film problematizza l’idea che esista una ‘naturale’ porosità tra i sistemi espressivi o una reale integrazione tra i media. Nella superficie non così limitata di una immagine (in movimento) è possibile infatti che fotografia e cinema, così come analogico e digitale, o ancora narrativo e mostrativo, convivano, sì, ma come una coppia in crisi, senza grande dialogo o erodendo talvolta l’uno lo spazio di significazione dell’altro.

24 Frames is Abbas Kiarostami’s last film, made during the last period of his life (2015-2016) and distributed a few months after his death (2017-2018). It consists of twenty-four episodes of only few minutes each, where a static image (a painting or a photo) is progressively animated through computer graphics. The frames, mainly dedicated to natural environments and small scenes of animal life, retain a theoretic content that this essay aims at making explicit because they refer directly or indirectly to  certain ‘classical’ theories of film studies, from Gunning and Gaudreault on the Early Cinema to Bazin and Pasolini on cinema and life, from Barthes’ Camera lucida to the most recent studies on remediation, convergence and intermediality. It is precisely this last concept of inter-mediality that undergoes the most interesting impacts as the film problematizes the idea that there exists a ‘natural’ permeability between different expression systems and a real integration between different media. Upon the not too limited surface of an image (in motion), it is actually possible that photography and cinema, or the analogical and the digital or also the monstrative and the narrative dimensions coexist. They coexist however as a struggling couple, without too much dialogue, where one of the two sometimes tends to erode the space of signification of the other.

 

Presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes nel 2017, circa un anno dopo la sua morte, 24 Frames può essere considerato il ‘film-testamento’ di Abbas Kiarostami,[1] sia perché giunge alla fine di un lungo percorso artistico ricco di riconoscimenti internazionali, sia perché include – direttamente o indirettamente – la maggior parte delle forme espressive che egli ha sperimentato nel corso della sua carriera: dal film di finzione al documentario, dalla fotografia all’animazione, dalla video-arte all’installazione museale, dalla pittura all’allestimento scenico-teatrale.[2] È composto da ventiquattro piani sequenza di circa quattro minuti e mezzo l’uno, nei quali un’immagine fissa (un celebre dipinto in un caso, fotografie di varia provenienza nei restanti) viene animata dalla computer graphica. L’idea – secondo quanto affermato dallo stesso artista nei paratesti diffusi in quella circostanza – è di mostrare quel che succede poco prima e/o poco dopo un’istantanea fotografica o pittorica. Le ambientazioni dei corti sono prevalentemente di stampo naturalistico: montagne e alberi innevati, spiagge deserte, verdi praterie, placidi stagni, ma anche interni di abitazioni, strade cittadine, una veduta della Tour Eiffel. Ogni scenario, indipendente dagli altri ventitré, è poi abitato da animali ricreati al PC: mucche, cavalli, corvi, alci, cerbiatti, pecore, anatre, gabbiani, cani e così via, mentre gli esseri umani sono presenti in sole tre occasioni di cui parleremo fra poco. Le azioni che vediamo svolgersi in quei pochi minuti sono del tutto prive di dinamismo, sebbene esistano flebili tracciati evenemenziali a sorreggerli: un cane pastore che cerca di difendere un gregge impaurito dall’arrivo dei lupi; due cavalli che si corteggiano in un paesaggio innevato; un gatto che punta a mangiarsi un uccellino; alcune mucche che attraversano una spiaggia; un cerbiatto che viene ucciso da un cacciatore e così via.

 

L’effetto complessivo è a dir poco straniante. Nelle più di due ore complessive di proiezione si rischia infatti di perdere il piacere dei sistemi espressivi convocati, rilevando soprattutto le loro mancanze o latenze. Certo, l’opera è innanzitutto fotografica, ma viene meno l’attimo fuggente della fotografia; siamo innanzi a un’opera presentata nel tempio sacro del cinema (il Festival di Cannes), ma non si può dire che sia un film di finzione o sia un documentario, pur contenendo dell’uno alcune elementi di una trama e dell’altro il valore documentale delle immagini; alcuni cortometraggi ospitano anche danze e balletti (ad esempio di cavalli o di uccellini) o inscenano piccole performance, ma del teatro e della danza non hanno né carica drammaturgica né la fisicità dei corpi attoriali; nel primo cortometraggio, dedicato a I cacciatori nella neve di Pieter Bruegel il Vecchio (1565), siamo dentro un celebre dipinto, ma viene meno sia la plasticità delle pennellate del pittore, sia l’‘aura benjaminiana’ del capolavoro fiammingo, specie quando vediamo un cane urinare su uno degli alberi in primo piano (Fig. 1); presi singolarmente, i ventiquattro frames potrebbero infine essere pensati come singoli allestimenti espositivi o video-saggi, senza che però esista un’istituzione museale o fondazione culturale che li abbia, per il momento, accolti nella propria collezione come capitato invece per altre opere kiarostamiane.[3]

 

24 Frames, Abbas Kiarostami (Francia/Iran 2017)

 

Nel suo perdere o dimenticare alcuni caratteri specifici delle forme artistiche coinvolte, 24 Frames si offre in una condizione indefinita, prima ancora che incompiuta, che tende a mettere in discussione alcune esperienze che si è soliti giudicare ‘naturali’ e ‘ovvie’, stressandole fino alla loro possibile implosione. Capitava, ad esempio, con il Ta’zieh (2003) o Shirin (2008), opere che riflettevano sul concetto e le pratiche della spettatorialità in situazioni fruitive nelle quali era difficile, se non impossibile, partecipare come pubblico pagante.[4] Capita anche nel caso che stiamo analizzando dove a subire il lavorio dell’erosione dell’artista iraniano è il concetto di intermedialità, almeno nella sua datità più scontata, quella che lo vuole veicolo di fusione, interconnessione e interdipendenza tra più sistemi espressivi o comunicativi. Più precisamente quello su cui si vuole discutere in questo saggio, sulla falsariga di quanto già compiuto in altri contributi di approccio ermeneutico dedicati alla produzione kiarostamiana,[5] è il modo attraverso il quale tale modalità di ‘messa in crisi’ agisca in profondità, nelle pieghe dei discorsi, andando alla radice dei quadri concettuali tratteggiati, liberandone le latenze, ma anche le contraddizioni in essere. Nel caso del concetto di ‘intermediale’, scopriremo che a ricevere i fendenti teorici più duri non è il lemma ‘media’, già sufficientemente sbriciolato da affondi argomentativi che ne hanno decretato il superamento in una condizione ‘post-mediale’ che li ha resi – come ricorda Ruggero Eugeni – inavvertiti, dissolti, naturalizzati e multimodali;[6] ci si concentrerà invece sulla porosità del prefisso ‘inter-’, così diffuso nel lessico critico-accademico, tanto da apparire indubitabile nella sua efficacia.

A ben vedere, infatti, nel suo significato di ‘essere-tra-le-cose’ o se si preferisce nel suo collocarsi naturalmente in una ‘posizione intermedia’, il prefisso ‘inter-’ viene sempre considerato come un facilitatore di comunanza o di reciprocità, un canalizzatore che accentua le continuità e le contiguità tra i fattori implicati. Si pensi ad esempio alla fortuna della categoria di in between negli studi di area culturalista e post-coloniale, così come nella psicologia, negli studi di genere, ma anche in quelli antropologici, filosofici, geopolitici e così via.[7] L’etichetta rimanda infatti a identità fluide, ibride, frontaliere, migranti ed è considerata rappresentativa di un paesaggio cangiante, mutevole, come appare essere quello della contemporaneità. Anche 24 Frames, in effetti, si offre come un’opera che ‘inter-media’ tra varie polarità: stasi e movimento, fotografia e cinema, arte figurativa e videoinstallazione, narrativo e non narrativo, corto e lungo, analogico e digitale, umano e non umano, campo e fuoricampo, bianco/nero e colore, ecc. E tuttavia, nei restanti quattro adagi che comporranno il saggio, vedremo come all’interno di questi pendolarismi persistano fratture che squarciano il velo dei processi in atto, rendendoli meno efficaci o, se non altro, più problematici di quanto sia lecito supporre. Accanto a uno spazio in between, anticipiamo, perlustreremo l’efficacia di uno spazio out between, che include ma non famigliarizza, che accoglie ma non integra. Vediamo meglio come.

 

 

1. Tra la vita e la morte. Il cerbiatto e John Fitzgerald Kennedy

 

Il primo e più evidente scarto da cui occorre partire riguarda il passaggio tra la vita e la morte perché sta alla base del procedimento di creazione e circolazione di 24 Frames. Pur presentato a Cannes come un film ‘di’ Kiarostami, il suo ‘testamento’ resta, come detto, un’opera incompiuta, completata dai suoi più stretti collaboratori, con il figlio Ahmad in prima linea, che figura anche in veste di produttore e presidente della nascente Abbas Kiarostami Foundation, con scopi e missioni facili da prevedere. Non è dato sapere, allo stato delle ricerche attuali, quali parti sono state realizzate dal regista de E la vita continua e quali invece sono state concluse, nei mesi successivi alla sua scomparsa, da mani altre che non fossero le sue.[8] Anche escludendo interventi terzi in fase di post-produzione, sarebbe sufficiente una selezione o una scansione diversa dei cortometraggi rispetto a quella inizialmente pensata da Abbas per ritrovarsi innanzi a un ‘testamento’ apocrifo o se si preferisce a un atto giuridico non così unilaterale e non così privo di increspature nel ‘passaggio’ (o nel ‘trapasso’) dalle volontà kiarostamiane alla salvaguardia della sua eredità artistica.

 

Alcuni anni fa Laura Mulvey, in un suo libro che si intitolava (guarda caso) Death 24x a Second. Stillness and the Moving Image, riconosceva, d’altra parte, nei film più noti del regista, un’estetica dell’incertezza e del ritardo («a cinema of uncertainty, a cinema of delay»),[9] individuando tuttavia nella presenza invisibile di un trauma improvviso e travolgente, drammatico e dirompente (in senso anche freudiano), l’origine di tale meccanismo di differimento. Nell’analisi di Dov’è la casa del mio amico?, E la vita continua e Sotto gli ulivi, Mulvey riteneva, ad esempio, che fosse stato il terremoto che aveva colpito la regione del Gilan nel 1990 e che aveva offerto il pretesto a Kiarostami per girare altri due film negli stessi luoghi, ad imporsi come elemento perturbante che produceva una ferita profonda e una dilazione nell’orizzonte estetico della trilogia.

 

The earthquake is the central, traumatic and real event that Kiarostami could not show because he was not there when it happened. When he returns to the site after the event, however, the film reacts to the devastation by recording the ruin of lives and homes with a disjunctive style that bears witness to the trauma, while acknowledging the limitations of representation. This separation, or distance, from an original point of reference is duplicated in the way that the film’s events are loosely linked together, with extended shots rather than associative editing, which produces an aesthetic of reflection rather than action. There is an element of ‘deferred action’ in this cinematic strategy, as though a traumatic event had enabled a return to the past, which is then subject to reinterpretation and consideration.[10]

Nel novero di un’identità che non è più, ma che lo è stata fino a poco tempo prima, o se si preferisce di una scrittura del ‘noi’ che si cela dentro quella di un ‘io’ (che però non ha più voce in capitolo), nei territori, insomma, di una no man’s land (ci ritorneremo) dove scolora definitivamente l’unità dell’autore, l’evento perturbante di 24 Frames è proprio l’assenza in vita del suo autore, la sua dipartita prematura e tragica, che fa da implicito collettore ai ventiquattro episodi del film, anche se non viene mai mostrata. Aleggia, d’altra parte, in molti episodi, un senso di morte annunciata (ad esempio quando i lupi minacciano l’incolumità delle pecore o i corvi rischiano di farsi investire dalle automobili) e comunque realizzata soltanto in due occasioni: nel frame del cerbiatto ucciso dal cacciatore (Fig. 2) e in quello dell’usignolo azzannato dal gatto (dove però non è chiaro l’esito finale dell’attacco).

 

24 Frames, Abbas Kiarostami (Francia/Iran 2017)

 

Più in generale, potremmo dire che il ‘ritardo’ con cui il film giunge nelle sale (a un anno e più dalla morte di Kiarostami) e l’‘incertezza’ sulla sua paternità, nascono da quel passaggio altrettanto traumatico che si realizza tra piano sequenza e montaggio, almeno secondo i convincimenti di Pier Paolo Pasolini che individuava in esso il punto di trasformazione del cinema da lingua brutale della realtà a linguaggio della rappresentazione. Un passaggio che Pasolini aveva illustrato in un suo saggio intitolato Osservazioni sul piano sequenza, a partire dal commento delle immagini amatoriali con cui si documentava un’altra morte celebre e traumatica, quella di John Fitzgerald Kennedy, ucciso come il cerbiatto a sangue freddo da un cecchino invisibile. In quel testo, ora confluito nella raccolta Empirismo Eretico, egli così argomentava:

 

Il cinema (o meglio la tecnica audiovisiva) è sostanzialmente un infinito piano-sequenza, come è appunto la realtà ai nostri occhi e alle nostre orecchie […] e questo piano-sequenza, poi, non è altro che la riproduzione […] del presente. Ma dal momento in cui interviene il montaggio, cioè quando si passa dal cinema al film […] succede che il presente diventa passato […]. Allor qui devo dire che cosa penso io della morte [ovvero che] è necessario assolutamente morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso e il linguaggio della nostra vita […] è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi […] e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile […]. Il montaggio opera dunque sul materiale del film (che è costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite) quello che la morte opera sulla vita.[11]

 

Alla luce di queste ipotesi teoriche, potremmo dunque sostenere che 24 Frames – ovvero ventiquattro piani sequenza caratterizzati, però, da una costante e invisibile rielaborazione con l’editing digitale – rappresentino questo ‘fulmineo montaggio’ pasoliniano che da un presente incerto e instabile dell’artista, lo conduce a un passato stabile, certo, canonizzato? O, viceversa, il film è ciò che precede tale operazione, avvicinandosi a quell’idea di archivio di piani-sequenza ancora in potenza che si offre al lavoro selettivo della memoria? E se nello scarto che si determina nel passaggio tra l’incerto e il certo, la vita e la morte, l’‘io’ e il ‘noi’, il discorso non riguardasse anche alcuni frames della teoria delle immagini con cui siamo solitamente abituati a leggere la nostra iconosfera? E se fosse proprio il capovolgimento della pratica dell’in between in una analoga e opposta di out between, il punto di confluenza di questo insieme di trasformazioni in quanto evento traumatico o ferita, anche se impercettibile, che caratterizza l’implicita relazione ‘tra’ i processi intermediali portati sullo schermo?

 

 

2. Tra stasi e movimento. La famiglia mussulmana e la Tour Eiffel

 

Forse la condizione ‘inter-’ che più ci aiuta ad avvicinarci alle tante conflittualità di 24 Frames è quella tra stasi e movimento, o se si preferisce, tra fotografia e cinema. Il titolo del film è un indizio evidente in tal senso, richiamando i ventiquattro fotogrammi al secondo che consentivano l’illusione del movimento quando ancora scorrevano le pellicole nei proiettori. Un riferimento che qui leggiamo non tanto come un nostalgico ritorno al cinema o alla fotografia che non c’è più, quanto – forse – alla teoria del cinema e della fotografia che non c’è più, quella che rifletteva appunto sul rapporto implicito e ontologico tra realtà e sua rappresentazione. D’altra parte, non esiste alcuna civiltà delle immagini che non si sia interrogata su ciò che si perde o si guadagna nel passaggio dal reale al figurato, così come dal fisso al mosso o viceversa. Una celebre battuta che Jean-Luc Godard fa dire al reporter de Le Petit Soldat – «La fotografia è la verità. Il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo» – sintetizza bene la linea di continuità tra i due medium, ma anche la competizione che sussiste tra di essi, e tra coloro che si sono fatti carico, in passato, di evidenziare specifici teorici dell’una o dell’altra tra le due forme espressive.

 

Facendo un passo ulteriore, possiamo affermare che nel film di Kiarostami si delinea una stringente co-presenza della stasi e del movimento nei medesimi frames. Prendiamo per esempio l’episodio n. 15, ambientato a Parigi (Fig. 3). Una famiglia di sei persone, probabilmente di fede islamica (ma è una nostra inferenza che nasce dal velo indossato dalle tre donne), osserva la Tour Eiffel dandoci le spalle. Con il passare dei secondi, ecco che alcuni passanti – una cantante di strada, una coppia di fidanzati, una mamma con il passeggino, ecc. – attraversano il quadro da destra a sinistra o viceversa, mentre comincia a nevicare, salgono le ombre della sera e si accendono le luci sul monumento parigino, in un tripudio di voci festanti. Pur nell’articolazione di una serie di molteplici micro-eventi, ci sembra che la ‘fotografia’ resti ‘fotografia’ e il ‘cinema’ resti ‘cinema’: da una parte infatti alcuni elementi propri dello scatto originario indugiano fatalmente nella loro immobilità (la famiglia, il parapetto, la Tour Eiffel), mentre altri elementi aggiunti con la correzione digitale abitano la superficie dell’immagine in un vagolare di supporto e di contorno (i passanti, la neve, le luci, le voci…). Si determina, in altre parole, una convivenza di un doppio modello espressivo che, come avviene per una coppia di fatto, si installa nella stessa abitazione rettangolare che è quella dell’inquadratura.

 

24 Frames, Abbas Kiarostami (Francia/Iran 2017)

 

Trattasi, ahinoi, di convivenza non pacifica: accade che il movimento ‘aggredisca’ le parti della fotografia dinamizzate dall’intervento del chroma key e dell’editing digitale, nel senso che le copre e le smuove, come la Tour Eiffel o lo sfondo del cielo, rendendo nel contempo meno credibili, o solide, le parti comunque fisse dell’immagine. Si pensi alla strana cristallizzazione della famiglia sul parapetto, a lungo andare fastidiosa o innaturale, specie se paragonata a ciò che accade a loro intorno. Più in generale, se consideriamo anche gli altri ventitré episodi, capita spesso che lo spettatore non sappia se un gabbiano appollaiato su una palina o un cane che dorme accanto a un gregge siano il contributo immobile della fotografia o attendano il momento cinematografico propizio per muoversi. Lo statuto dell’immagine diventa incerto. Si potrebbe pensare che, in definitiva, dentro la relazione di coppia, la fotografia soccomba, perda voce, a maggior ragione se consideriamo il ruolo assunto dalla colonna sonora, colma di musiche, suoni, rumori che abbisognano di movimento (onde acustiche) per essere percepiti. E tuttavia il soundscape creato ad arte da Kiarostami si statuisce come mediatore famigliare della coppia in crisi consentendo al movimento di esserci anche senza mostrarsi (ad esempio quando sentiamo il suono dei passi dei pedoni che stanno per sbucare in campo) e alla fissità di motivarsi anche nello scorrere del tempo (ad esempio ricreando i rumori di un evento che accade e che, come gli applausi della folla, rende plausibile la rigida attesa). Ciò vale per numerosi episodi del film: ci riferiamo ad esempio al corteggiamento dei cavalli che avviene grazie a un tango presumibilmente trasmesso dalla radio installata nell’automobile che segue da lontano le loro circonvoluzioni (frame 2); al rumore di una moto d’acqua che squarcia la regolarità dello sciabordio delle onde in un paesaggio balneare (frame 8) o, ancora, al colpo del fucile che motiva la rovina di un capriolo in primo piano, mentre sullo sfondo una musica inquietante prepara lo spettatore al ferale avvenimento (frame 5).

 

Quando si parla di co-presenza dentro un’immagine fotografica viene in mente – ça va sans dire – quella tra punctum e studium teorizzata da Roland Barthes in un testo capitale come La camera chiara. In quella sede, il filosofo e semiologo francese individuava due processi di significazione attivi all’interno di una istantanea e nello spazio relazionale tra il fotografo (l’Operator), il contenuto dello scatto e lo spettatore (lo Spectator). Due ambiti semantici, uno più emozionale, specifico, soggettivo, riconducibile all’impressione dell’amatore (il punctum), l’altro più razionale, contestuale, oggettivo, riconducibile alla perizia dello storico (lo studium); uno che «mi punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce)»,[12] l’altro invece che rinvia a «una sorta di interesse generale [verso] le figure, le espressioni, lo scenario, le azioni».[13] Ecco, secondo Barthes, punctum (se attivo) e studium (sempre attivo) sono elementi co-presenti, ma in competizione, nella medesima immagine.

 

In questo spazio quasi sempre unario, io sono talvolta attratto (ma, ahimè, raramente) da un ‘particolare’. Io sento che la sua sola presenza modifica la mia lettura, che quella che sto guardando è una nuova foto, contrassegnata ai miei occhi da un valore superiore. Questo ‘particolare’ è il punctum (ciò che mi punge). Non è possibile fissare una regola di connessione tra lo studium e il punctum (quando questo è presente). Tutto ciò che si può dire è che si tratta di una co-presenza. [...] Dal mio punto di vista di Spectator, il particolare viene fornito per caso e senza scopo; il quadro non è affatto ‘composto’ secondo una logica creativa; la foto è senza dubbio duale, ma questa dualità non è il motore di uno ‘sviluppo’ come invece avviene nel discorso classico. Dunque per cogliere il punctum, nessuna analisi mi sarebbe utile.[14]

 

Traslando questa relazione evanescente al nostro film, potremmo dire che la ‘fotografia’, ovvero la parte statica del quadro, cerca di pungere lo spettatore, mentre il ‘cinema’, ovvero la parte dinamizzata dell’immagine, cerca di ‘schermare’ (altra definizione di Barthes riferita alla settima arte) o almeno di assorbire la puntura fotografica dentro un quadro contestuale e congiunturale di carattere narrativo. In una relazione di forza che ci appare tuttavia capovolta rispetto a quanto poc’anzi affermato. A ben vedere, succede che la ‘fotografia’ si vendichi del ‘cinema’, pizzicando lo spettatore, senza che questi sia in grado di contestualizzare e rendere oggettiva la puntura. Si pensi all’episodio parigino: gli occhi di chi guarda non possono staccarsi dalla famiglia nella sua immobilità, nonostante il contorno cangiante e mutevole cerchi di distrarre loro. Detto altrimenti: la stasi, in questo come in altri episodi, prende il sopravvento sul movimento – ovvero si fa punctum – perché ci accorgiamo che la fotografia riesce a essere fedele a se stessa, mentre il cinema no. Alla prima non serve assegnare un significato: essa è, colpisce e non indietreggia. Al secondo, per diventare ‘evento’ serve un contesto – uno studium – che sia motivato e sensato: dunque un innesco, un processo di causa ed effetto, una evenemenzialità, non sempre visibile o percepibile sia nel frame parigino, sia in altri piani sequenza del film. Ne consegue una competizione subdola e non-mediata, una co-presenza forzata e coatta, una convivenza sfibrata e consumata.[15]

 

 

3. Tra mostrazione e narrazione. Le anatre e i fratelli Lumière

 

Kiarostami ha una certa predilezione per le anatre. Si ricorderà che il più esilarante dei cinque cortometraggi di Five. Dedicated to Ozu (2003) era tutto costruito attorno alla passeggiata di un gruppo di pennuti sulla battigia di una spiaggia, ripresa con camera fissa e senza tagli. Attraversando il quadro prima da destra verso sinistra e poi da sinistra verso destra, prima in poche unità, poi addirittura in centinaia, le papere starnazzanti producevano un effetto comico e sorprendente al tempo stesso.[16] Citiamo quell’episodio di Five (a cui se ne aggiungevano altri quattro di simile composizione) non soltanto perché c’è un episodio analogo di 24 Frames che lo ricorda da vicino, ma perché entrambi i lavori sono articolati attorno a singole gag, riprese tramite piani sequenza a inquadratura fissa, dedicate a un mondo nel quale le tracce antropiche sono rare, marginali, e soverchiate da quelle del mondo animale e naturale.

 

L’approccio solo apparentemente contemplativo dei due lavori cela un’intensa attività di costruzione, sia spaziale, sia temporale, tanto della parte visiva/formale, quanto di quella narrativa/evenemenziale. Si osservino i fotogrammi 3 e 4 del frame 16, tratti appunto dall’episodio in cui alcune anatre attraversano un desolante paesaggio balneare nel quale è facile constatare una costruzione dello spazio rigida e stratificata: la distesa di sabbia in primo piano, le colonne e la rete a tagliare diagonalmente la superficie del quadro e impostare una profondità di campo, la stradina che attraversa il centro dell’immagine, le fatiscenti architetture che ci restituiscono l’idea quasi post-apocalittica dell’abbandono dell’umano, ma che servono anche a creare effetti di quadro nel quadro; la spiaggia sullo sfondo con le onde placide, la barca ormeggiata, e poi le nubi che minacciano pioggia. Anche la costruzione della temporalità di quest’episodio è altrettanto rigorosa, segnata dal germano che entra ed esce di campo nella parte bassa del quadro e dalle altre anatre che attraversano l’inquadratura prima percorrendo il sentiero centrale, poi correndo sul bagnasciuga proprio come capitava alle loro ‘cugine’ di Five. Dedicated to Ozu. La rete che separa i due ‘mondi’ appare porosa, facilmente scavalcabile, un altro spazio in between, quando invece, almeno per gli animali protagonisti della tragica gag, rappresenta un muro insormontabile, uno steccato tanto invalicabile, quanto crudele, dato che offre la possibilità di guardarsi senza potersi avvicinare e congiungersi al gruppo (Fig. 4).

 

24 Frames, Abbas Kiarostami (Francia/Iran 2017)

 

Da qui emerge il terzo in/out between su cui vorremmo riflettere, quello tra narrativo e non narrativo o, meglio ancora, tra ‘attrazione mostrativa’ e ‘integrazione narrativa’, per usare due celebri concetti che Tom Gunning e André Gaudreault applicavano, alcuni anni fa, allo studio dei film dei primi tempi, anch’essi unipuntuali (ovvero realizzati con una sola inquadratura), inizialmente ideati per sorprendere e attrarre lo spettatore con sketch, rêverie e vedute e poi – a partire dai primi anni del Novecento – condotti dal montaggio (e non solo) a raccontare/narrare/rievocare storie con personaggi ed eventi.[17] A ben vedere la prossimità tra i ventiquattro episodi kiarostamiani e i primi corti della storia del cinema è patente, non solo per l’articolazione complessiva della ripresa, l’uso di tecnologie di ripresa (apparentemente) povere, l’immediatezza della messa in scena e, ai nostri occhi, una certa naïveté dello sguardo. Recuperando una suggestione contenuta in un breve commento critico di David Bordwell sul suo blog,[18] questo, come gli altri 23 frames, sembrano basarsi sulla formula dei primi film dei fratelli Lumière, dove un personaggio entra nell’inquadratura, compie un determinato gesto, saluta e se ne va, evidenziando insomma la parentela tra il cinema da una parte e il teatro di varietà o il vaudeville dall’altra, o ancora tra gli sketch kiarostamiani su un versante e le attrazioni circensi (con animali) sull’altro.

 

Il film però non si accontenta di avvalorare anche la co-presenza tra ‘attrazione mostrativa’ e ‘integrazione narrativa’, ma vuole spingerci a interrogarci su quando inizia l’una e finisce l’altra, o meglio se è vero che esiste una linea di continuità o uno spazio di prossimità tra l’una e l’altra. Torniamo un secondo all’episodio delle anatre e al loro ingresso e alla loro uscita dal quadro. I gesti degli animali coinvolti non avvengono in modi plateali ed enfatizzati, come capiterebbe se ci fossero scafate attrici di vaudeville o di film muti, ma appaiono viceversa, ‘concreti’ e ‘reali’, se così si può dire per delle creature digitali. Le sofferenze della separazione, il vagabondare assorto, la forza del gruppo e la paura della solitudine appaiono nella loro crudezza e creano un ambiente discorsivo nel quale chi osserva non può che interrogarsi su queste condizioni di passaggio. Quand’è che una serie di immagini diventa narrazione e un ‘pericolo’ o un ‘distacco’ si trasforma da motivo da esibire spettacolarmente a ragione di vita e di esistenza? Serve una struttura (un inizio, uno svolgimento, una fine), la presenza di più personaggi (le anatre), un conflitto (le due anatre separate dalla rete), una lettura metaforica (un messaggio ad esempio legato agli steccati che separano esseri umani e animali)? E quand’è che un’immagine (una foto o un film) è realmente mostrativa, ovvero cattura il nostro interesse in quanto superficie spettacolare, senza ricondurci a un’esperienza concreta? Anche in questo caso: serve una struttura (una gerarchia prospettica), dei personaggi (prevalentemente animali), un conflitto (tra volumi e linee), un’interpretazione (un messaggio)?

 

Non si tratta di tornare alle domande della narratologia (o forse un po’ sì), ma di rendersi conto che la convocazione di diversi regimi discorsivi o visivi o mediali nello stesso campo d’azione produce un conflitto particolarmente violento, seppur all’interno di un contesto pacificato o dietro dinamiche apparentemente innocue o naturali. Nell’ampliare il carotaggio agli altri episodi, potremmo cercare di definire tale ‘dissidio’, per usare un termine caro a Lyotard,[19] come quel processo che vede un’immagine-in-quanto-tale cercare di trasformarsi in un’immagine-in-quanto-altra, nel ‘trapasso’, impercettibile, ad esempio dal piacere dello sguardo per una gag o per un bel paesaggio all’angoscia dello sguardo per il sentimento di esclusione o per una rete invalicabile. Ma si vedano anche i frames del cerbiatto che bruca l’erba e che viene improvvisamente colpito da un cacciatore (frame 5), del leone che interrompe un amplesso con una leonessa (frame 8), o ancora dei corvi che rischiano di farsi investire da un’auto (frame 14) o del passerotto azzannato da un gatto (frame 18) e così via. Sono tutte situazioni nel quale l’evento si offre in potenza, nella sua possibilità di darsi o di non darsi, in un ordito di tensione e di possibile, improvvisa, violenta sfibratura.

 

Forse riusciamo a illustrare meglio il nostro pensiero soffermandoci sui modi di apparizione degli eventi atmosferici: nel corso dei ventiquattro episodi, animali e paesaggi sono spesso sferzati da nevicate, nevischi, piogge, pioggerelline, temporali, mareggiate, venti più o meno forti, nuvole che increspano il cielo e minacciano rovesci, improvvisi raggi di sole, nebbie e foschie. Studiato dal punto di vista meteorologico, 24 Frames ci restituisce quell’esatta sensazione di indecisione di fronte a un fenomeno che potrebbe o non potrebbe causare danni in base alla sua intensità, a sua volta determinata da eventi pronosticabili, ma fino a un certo punto, affidati, nel concreto, alla combinazione spesso imprevedibile di molteplici fattori. Cadrà o non cadrà l’albero squassato dal vento? Scoppierà o no il temporale dal nero delle nuvole? Si fermerà a terra e ghiaccerà la neve che si adagia sulla strada? Ecco, se è vero che l’‘attrazione’ diventa ‘integrazione narrativa’ quando un agente atmosferico raggiunge una forza tale da abbattere, ad esempio, un albero (leggi: a produrre un meccanismo di causa/effetto), potremmo dire che il film di Kiarostami ci mette innanzi ad alberi (leggi: animali, umani o paesaggi che abitano le fotografie) che vivono una condizione potenziale di passaggio da immagini-in-quanto-tali (carattere mostrativo), ad immagini-in-quanto-altre (carattere narrativo). I due alberi dell’episodio 23 potrebbero cadere oppure no; il gatto dell’episodio 18 potrebbe mangiare l’uccellino oppure no; i latrati di un cane, il vento e una intensa nevicata potrebbero smuovere o meno una bandiera piantata sulla sabbia nell’episodio 22. Ma finché non si scioglie il dubbio, ciò che resta in campo è una condizione irrisolta di tensione e di incertezza, in attesa di uno scarto, di una soglia, di un trauma che potrebbe verificarsi da un momento all’altro, pur senza averne per forza contezza.

 

 

4. Tra la veglia e il sonno. Teresa Wright e la donna che dorme

 

I see in particular three dialectical issues at play throughout this film: stasis versus motion (in other words still photography versus cinema); being alone versus being part of a group (or couple or community) [...] and documentary versus fiction (which also might be reformulated ad unmediated and uncontrolled reality versus a ‘framed’ and ordered composition, including all the digital effects [...]). In many respects, these three concerns all inform one another. It's a fascinating paradox that the more experimental and subtle and even ‘hermetic’ Kiarostami became, the more people he had to employ, especially in postproduction.[20]

 

Se ci fosse spazio e tempo a disposizione, potremmo perlustrare altri territori in/out between, alcuni dei quali già brillantemente individuati da Jonathan Rosenbaud in una delle sue ultime pubblicazioni sul regista: individuale e collettivo, analogico e digitale, fiction e documentario, ermetico e intelligibile a cui aggiungeremmo ancora serio e ironico, interno ed esterno, campo e fuoricampo, buio e luce, suoni e rumori diegetici ed extradiegetici, b&n e colore e così via. Riteniamo tuttavia che non serva attardarsi oltre nell’analisi perché la conflittualità tra fenomeni di prossimità è stata sufficientemente definita sia in termini generali, sia in relazione ad alcune questioni proprie della teoria delle immagini. Nell’avviarci alle conclusioni vorremmo soffermarci su un ultimo pendolarismo – quello tra veglia e sonno – poiché a nostro avviso riguarda più nello specifico la questione intermediale che abbiamo annunciato in esordio di saggio e che finora abbiamo affrontato soltanto indirettamente. Anche in questo caso la letteratura critica a disposizione è ampia ed impegnativa: basti pensare, nel considerare gli studi su veglia, sonno e sogno, al contributo offerto dalla psicanalisi, specie quando è stata utilizzata come chiave interpretativa per studiare il cinema nella sua funzione di dispositivo di visione o di industria dell’immaginario;[21] sull’altro versante, quello dell’intermedialità, gli studi a disposizione sono altrettanto numerosi, in modo particolare a partire dagli studi di Jenkins in avanti.[22]

 

Come avviene per altri addensamenti discorsivi, Kiarostami sembra invece avvicinarsi al tema in modo decisamente più disimpegnato, ironico e frugale come emerge specialmente nell’ultimo cortometraggio del film. Si ricorderà – se si è arrivati ancora svegli alla seconda ora di proiezione – che 24 Frames finisce con un piano sequenza ambientato all’interno di una stanza. Tutto è in penombra tranne lo schermo di un PC dove scorrono, al ralenti, gli ultimi fotogrammi de I migliori anni della nostra vita di William Wyler, quando Peggy – interpretata da una solare Teresa Wright ripresa in primissimo piano – abbraccia e poi bacia Fred prima che sopraggiunga il cartello del The End. Con il passare dei minuti le prime luci dell’alba arrivano a rischiarare progressivamente l’interno dell’abitazione – dove appare appisolata una donna che probabilmente ha lavorato fino a tardi davanti al PC – e a mostrarci, all’esterno, dietro una ampia vetrata, alcune fronde di alberi scosse dal forte vento (Fig. 5). All’apparire del cartello del The End cominciano a scorrere i titoli di coda del film.

 

24 Frames, Abbas Kiarostami (Francia/Iran 2017)

 

Il meccanismo ironico tramite il quale Kiarostami (o chi per lui) gioca con il suo spettatore (e il suo critico) è abbastanza evidente. Chi compare poco per volta al centro dell’inquadratura è, infatti, il doppio intradiegetico di uno spettatore che dorme (in sala?) mentre un grande classico hollywoodiano raggiunge il suo climax emozionale. Nell’osservare una ragazza inerme alla vita (e al cinema) che si perde sul grande schermo la felicità di un’altra ragazza a cui la vita e l’amore invece sorridono, viene naturale interrogarsi non solo sullo statuto delle immagini, ma anche su quello della spettatorialità e sulle dinamiche della visione. Ad esempio, dove possiamo tracciare la nostra ‘soglia di attenzione’ prima di cedere alle lusinghe del sonno? Quanta empatia prova il pubblico per ciò che osserva se manca una figura antropomorfa a cui delegare l’assegnazione del senso o se questa, quando c’è, dorme al suo posto? Quanto sono necessari un primo piano o il sorriso di una diva per costruire meccanismi di immedesimazione e non di straniamento? È legittimo, in un mondo de-antropomorfizzato, abitato da animali che non parlano e paesaggi che vengono attraversati da eventi atmosferici, lasciarsi scivolare in between dall’apatia al sonno o in questo modo non si precipita piuttosto in una condizione, ancor più pericolosa, di out between, ovvero di indeterminatezza tra giudizio e sua sospensione?

 

Senza poter rispondere al fuoco di domande suggerite dal frame, potremmo replicare affermando che vige, in generale, in tutta la produzione kiarostamiana, una sorta ‘teorizzazione dormiente’, ovvero un portato di disponibilità, o un invito alla speculazione che attende di essere ‘ridestata’ da un’attività interpretativa, anche se spesso mancano le condizioni ideali per farlo: informazioni, indizi, segni distintivi.[23] Va da sé che quanto si è cercato di compiere in questa sede, attraverso argomentazioni fondate su ipotesi e deduzioni, affondi e generalizzazioni, risponde esattamente a tale sfida: avventurarsi, senza guida, in territori indeterminati, differiti e di passaggio, attraverso costanti attività di ‘approssimazione’ (nel doppio significato del termine), nella consapevolezza di trovarsi in una no man’s land sempre fertile di potenziali speculazioni. Il termine in uso in ambienti diplomatici e geopolitici – dove le cosiddette terre cuscinetto, contese tra più soggetti, sono lasciate deserte per evitare incidenti e conflitti – è efficace anche nel nostro caso in quanto siamo all’interno di luoghi discorsivi deprivati di segni antropici (e infatti 24 Frames è abitato da molti animali e pochissimi uomini), strutturati nondimeno per essere intermediali – di inter-posizione – tra pratiche interpretative e disponibilità all’accoglienza e alla co-presenza.

 

Torniamo all’ultimo cortometraggio del film, caratterizzato proprio dal proliferare di dispositivi di inter-mediazione. In prima battuta c’è il desktop del PC che media tra cinema hollywoodiano e cinema d’artista, ma anche tra piano sequenza ed editing digitale (si suppone che la ragazza abbia lavorato tutta la notte a un video-essay o a un rimontaggio vista la lentezza di scorrimento dei fotogrammi). Nondimeno, anche le finestre che intercedono tra interno ed esterno, vento e calma, natura e cultura possono considerarsi dei mediatori, così come lo è l’abat-jour che sottolinea il passaggio tra buio e luce, notte e giorno (e in un certo qual senso tra negativo fotografico e positivo della proiezione). Agli schermi interni allo schermo si aggiunge la cornice più ampia dell’inquadratura. Essa può essere proiettata su un grande schermo cinematografico – e dunque mediare tra la sala e il mondo diegetico rappresentato – ma anche occupare una piccola parte del desktop di un (altro) PC, quello ad esempio che abbiamo utilizzato per redigere questo saggio, accentuando così il destino di cornice dentro altre cornici o di finestra tra le finestre, come capita a un media player quando deve condividere lo spazio di visualizzazione con altri software come browser per la navigazione online o programmi di scrittura. Insomma, ci avviciniamo a un desktop cinema ante litteram o addirittura a un’archeologia del desktop cinema, dove anche scrivanie, porte, finestre e davanzali sono dispositivi di mediazione simili ai personal computer.[24]

 

Profondamente intermediale è, soprattutto, l’implicito rimando al cosiddetto slow cinema, categoria nella quale spesso viene collocata la produzione dell’artista iraniano. Con quest’etichetta si è soliti indicare, specie nella trattatistica di ambito anglosassone, un certo tipo di film che fa della lentezza della narrazione, dell’austerità delle forme e dello straniamento spettatoriale i propri principali orizzonti estetici. Il termine slow deve inoltre la sua fortuna non soltanto a una più spiccata sensibilità nei confronti di una temporalità lasca e distesa, ma anche al suo contrapporsi a forme di consumo più rapide e frenetiche. Come lo slow food si proclama alternativo al fast food, anche lo slow cinema manifesta una certa resistenza alla compulsività fast del consumo contemporaneo di immagini. C’è da aggiungere che i titoli inseriti in questa categoria critico-estetica – nella quale, accanto ai lavori di Kiarostami vengono generalmente inclusi anche quelli di artisti come Tsai Ming-liang, Lav Diaz, Béla Tarr, Lisandro Alonso, Apichatpong Weerasethakul e molti altri[25] – raramente godono di una distribuzione tradizionale e capillare, trovando circolazione (generalmente limitata) all’interno di contesti museali, esposizioni internazionali d’arte, festival di cinema e di video-arte, programmi di cineteche, di archivi o di sale d’essai, diffusione tramite DVD o piattaforme streaming come MUBI. Lo slow indica insomma non solo la ‘lentezza’ del film in sé, ma anche della sua diffusione sul mercato dell’arte.

 

Con il piano sequenza conclusivo di 24 Frames, Kiarostami pare divertirsi anche con questa categoria, confermando la propria nomea di cineasta così-slow-da-far-dormire secondo un procedimento che Justin Remes aveva già ricostruito in un brillante saggio intitolato The Sleeping Spectator, dedicato proprio a Five, il film a episodi più simile, come detto, a quello qui analizzato. In quel contributo, Remes dimostrava la liceità dell’assopirsi del pubblico davanti a un suo lavoro sia perché l’abbandonarsi all’incoscienza è in linea con «l’indifferenza del racconto alla percezione umana» e con l’assenza di figure antropomorfe con le quali riconoscersi ed empatizzare,[26] sia perché è lo stesso regista, con alcune sue dichiarazioni, a formulare il diritto ad addormentarsi in sala.

 

These are the films that take you hostage. I absolutely don't like the films in which the filmmakers take their viewers hostage and provoke them. I prefer the films that put their audience to sleep in the theater. I think those films are kind enough to allow you a nice nap and not leave you disturbed when you leave the theater. Some films have made me doze off in the theater, but the same films have made me stay up at night, wake up thinking about them in the morning, and keep on thinking about them for weeks. Those are the kind of films I like.[27]

 

Qui tuttavia il film sembra compiere un passo in avanti nella direzione della speculazione a scoppio ritardato perché, con implicita irriverenza, indugia sul pericolo di canonizzazione che un certo tipo di cinema rischia, implicitamente, di legittimare. Nello scorrere lento dei fotogrammi del film di Wyler, ovvero di un film che ha indirizzato un teorico come Bazin a ragionare sul concetto di stile senza stile, ma anche sul valore polisemico della profondità di campo,[28] l’attenzione di Kiarostami (e forse, se sveglio, anche quella dello spettatore) è rivolta invece al primo piano dei protagonisti, al loro bacio risolutivo, a un happy end che pacificai conflitti sullo schermo, conserva l’esistente, invece di aprire al dubbio, all’interpretazione, alla speculazione (che appunto arriverà semmai in un secondo momento). D’altra parte, l’ultimo dei 24 Frames compatisce chi faticosamente è giunto vigile alla fine di due ore di proiezione, con il suo carico di ‘teorizzazioni dormienti’, vezzeggiando e coccolando al contrario chi ha imitato la postura e l’appisolarsi dell’ultimo personaggio di tutta l’opera kiarostamiana. Nell’affezionarsi a un Hermes stremato, a un Caronte appisolato, a un Virgilio ronfante, dopo aver pendolato faticosamente tra linguaggi artistici orgogliosi delle proprie specifiche limitazioni, ci accorgiamo che il medium perfetto, perché inclusivo ed esclusivo al tempo stesso, privo di ogni ‘inter-’, è proprio il sonno, l’abbandonarsi alle braccia di Morfeo.

 

Da qui, con un detournement inevitabilmente circolare, dobbiamo tornare a interrogarci sul portato testamentario del film,che non riguarda i lasciti autoriali dell’artista, ma i sentimenti di abbandono e di ritrovamento dello spettatore. Sul punto di lasciarci, Kiarostami sembra infatti rassicurarci sul fatto che anche se il torpore e il sonno sopraggiunge, la vita continua oltre gli schermi e oltre i media, il vento – fuori dalla finestra – ci porterà via, mentre sui dispositivi elettronici, grazie anche alla meraviglia di un close up, ci sarà sempre qualcuno da amare. L’importante, semmai, è far sì che al risveglio – in una condizione a questo punto non più in- o out-, ma ‘over-between’– ci siano ad attenderci… i migliori anni della nostra vita.

 

 


1 Una lettura più tradizionalmente ‘autorialista’ del film, che collega 24 Frames ad alcune ‘cifre’ del cinema di Kiarostami si trova in J. R. Douglas, ‘It's still life: Abbas Kiarostami's 24 frames’, Metro Magazine: Media & Education Magazine, 197, agosto 2018, pp. 64-67.

2 Sulla produzione poliedrica di Kiarostami che ha valicato spesso i limiti per così dire ristretti del film di finzione si veda, tra gli altri in italiano: E. Ugenti, Abbas Kiarostami. Le forme dell'immagine, Roma, Bulzoni, 2018. In inglese: M. Saeed-Vafa, J. Rosenbaum, Abbas Kiarostami. Expanded Second Edition, Urbana, University of Illinois Press, 2018. In francese: Y. Ishaghpour, Kiarostami. 2, Dans et hors les murs, Belval, Circé, 2012.

3 Si pensi alle molte mostre fotografiche e alle istallazioni presentate in gallerie e istituzioni museali internazionali, come Forest Without Leaves programmata nel 2006 e 2007 al Centre Pompidou di Parigi e al Victoria & Albert Museum di Londra o Doors Without Keys vista all’Aga Khan Museum di Toronto nel 2016.

4 Per un’analisi comparata di Shirin e del Ta’zieh di Kiarostami si veda: M. Dalla Gassa, ‘Lo schermo che guarda ovvero il senso di Shirin per la sala’, Imago: studi di cinema e media, XVII, 1, 2018, pp. 171-187. In inglese, tra gli altri: B.Peucker, Aesthetic Spaces: The Place of Art in Film, Evanston, Northwestern University Press, 2019, pp. 1-14; W.Brown, Non-Cinema: Global Digital Film-making and the Multitude, New York, Bloomsbury, 2018, pp. 33-54.

5 La maggior parte degli studi dedicati a Kiarostami sono di approccio ermeneutico e interpretativo, con un’attenzione da una parte agli aspetti estetici del suo cinema e dall’altra a quelli filosofici. Senza obiettivi di esaustività ricordiamo almeno: J.-L.Nancy, Abbas Kiarostami: l'evidenza del film [2001], ed. it. a cura di A. Cariolato, Roma, Donzelli, 2005; P. Montani, L’immaginazione narrativa: il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario, Milano, Guerini & Associati, 1999; Y.Ishaghpour, Kiarostami: le réel, face et pile, Belval, Circé, 2007; M. Abbott, Abbas Kiarostami and Film-Philosophy, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2019; E. H. Finnegan, ‘To See or Not to See: A Wittgensteinian Look at Abbas Kiarostami's Close-up’, Film-Philosophy, XXII, 1, 2018, pp. 21-38, M.-J. Mondzain, L’immagine che uccide. La violenza come spettacolo dalle Torri gemelle all’Isis [2015], trad. it. di E. Montagner, Bologna, EDB, 2017.

6 Cfr. R. Eugeni, La condizione postmediale: media, linguaggi e narrazioni, Milano, Editrice La Scuola, 2015.

7 Il concetto dell’in-between è straordinariamente diffuso nelle letterature accademiche di varia estrazione ed ambito in modo particolare a partire dagli anni in cui prosperavano le categorie del postmoderno e della postmodernità (a cui è strettamente interconnesso). Qui ci limitiamo a segnalare alcuni studi tra i tanti: F. G. Asenjo, In-between: An Essay on Categories, Washington, DC, Center for Advanced Research in Phenomenology and University Press of America, 1988; H. Bhabha, I luoghi della cultura [1994], trad. it di A. Perri, Roma, Meltemi, 2001; Mary K. Bloodsworth-Lugo, In-Between Bodies: Sexual Difference, Race, and Sexuality, New York, SUNY Press, 2007; M. Strathern, Women in Between: Female Roles in a Male World, Mount Hagen, New Guinea, London, Seminar Press, 1972; A. Suhrke, M. Berdal (a cura di), The Peace In Between: Post-War Violence and Peacebuilding, London-New York, Routledge, 2013.

8 Secondo alcuni collaboratori e amici di Abbas Kiarostami che abbiamo avuto modo di intervistare per altre pubblicazioni, i frames su cui stava lavorando il cineasta iraniano erano molti più di ventiquattro, alcuni dei quali riguardavano l’animazione di alcuni capolavori della pittura mondiale. La selezione e l’ordine con cui sono stati scanditi i cortometraggi assume, insomma, un valore significante importante eppure non immediatamente evincibile dai documenti in nostro possesso. Alcuni di questi frames dovrebbero essere mostrati in un prossimo evento monografico organizzato dal Centre Pompidou di Parigi, in collaborazione con MK2, attualmente calendarizzato per l’aprile 2021.

9 L. Mulvey, Death 24x a Second. Stillness and the Moving Image, London, Reaktion Books, 2006, p. 123.

10 Ivi, p. 143.

11 P. P. Pasolini, ‘Osservazioni sul piano-sequenza’ [1967] in ID., Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1991, pp. 240-241.

12 R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia [1980], trad. it. di R. Guidieri, Torino, Einaudi, 2003, p. 27.

13 Ivi, pp. 27-28.

14 Ivi, p. 43.

15 Sulla convivenza – talvolta felice, altre volte forzata – tra fotografia, cinema, pittura, video e digitale all’interno di una storia integrata (e talvolta evolutiva) dell’immagine e delle culture visuali ci limitiamo a segnalare alcune recenti pubblicazioni (o traduzioni in italiano) H.Belting, Antropologia delle immagini [2011], a cura di S. Incardona,Roma, Carocci, 2013; N. Mirzoeff, Come vedere il mondo: un'introduzione alle immagini. Dall'autoritratto al selfie, dalle mappe ai film (e altro ancora) [2015], trad. it. di R. Rizzo, Monza, Johan & Levi, 2017; J.Fontcuberta, La furia delle immagini. Note sulla post-fotografia [2016], trad. it. di S. Giusti, Torino, Einaudi, 2018; D.Hockney, M.Gayford, Una storia delle immagini. Dalle caverne al computer [2016], trad. it. di A. La Rocca, Torino, Einaudi, 2017. Altri riferimenti più ‘classici’ all’intermedialità in relazione con il cinema si trovano nella parte conclusiva del saggio.

16 Su Five. Dedicated to Ozu si rimanda alla brillante analisi di Mathew Abbott in Abbas Kiarostami and the Film-Philosophy, cit., pp. 79-87.

17 Tra i molti contributi storico-critici che i due studiosi hanno dedicato ai concetti di ‘attrazione mostrativa’ e di ‘integrazione narrativa’ andrebbe letto almeno: A. Gaudreault, T. Gunning, ‘Le cinema des premiers temps: un défi à l’histoire du cinéma?’ in J. Aumont, A. Gaudreault, M. Marie (a cura di), L’Histoire du cinéma. Nouvelles approches, Paris. Sorbonne-Colloque de Cerisy, 1989, pp. 49-63.

18 «Maybe this is Kiarostami’s real Lumière homage. As in the earliest staged films, the single shot is given a simple arc. Figures arrive in the frame, do something, then depart. But sound is tremendously important too. Quiet activity is interrupted by brusque action–too often, a gunshot. More than you might expect, violence provides a spike of action before calm returns». David Bordwell, Barely moving pictures: Kiarostami’s 24 FRAMES. [accessed 29 September 2020]

19 J. -F. Lyotard, Il dissidio [1983], trad. it. di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1985.

20 M. Saeed-Vafa, J. Rosenbaum, cit. (Kindle edition).

21 Senza rimandare ad autori classici della teoria cinematografica come Hugo Münsterberg, Edgar Morin, Christian Metz, Jean Mitry, Jean-Luc Comolli, alle posizioni femministe di Laura Mulvey, Marie Ann Doane, E. Ann Kaplan, o ancora più recentemente ai contributi eterogenei di Slavoj Žižek, ci limitiamo a segnalare un volume storico-critico che, ancorché non recente, traccia i percorsi di vicinanza tra storia del cinema e studi sulla mente: J.Bergstrom (a cura di), Endless Night: Cinema and Psychoanalysis, Parallel Histories, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1999.

22 La questione dell’incontro/scontro/mediazione tra i media della contemporaneità è così complessa da non poter essere trattata in questa sede. Ci limitando a sottolineare almeno la diffusione del paradigma della convergenza e della (non troppo conflittuale) convivenza tra i media in testi dedicati soprattutto al cinema e alle immagini in movimento: J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione fra media vecchi e nuovi [1999], a cura di A. Marinelli, Milano, Guerini e associati 2003; H. Jenkins,Cultura convergente [2006], trad. it. di V. Susca e M. Papacchioli, Milano, Apogeo, 2007; P. Montani, L'immaginazione intermediale: perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Bari-Roma, Laterza, 2010; F. Zecca, Cinema e intermedialità. Modelli di traduzione, Campanotto, Udine, 2013. La proposta kiarostamiana ci sembra invece giungere ‘dal basso’, in forme quasi artigiane e pragmatiche: da qui l’evidenza degli attriti, delle scanalature, delle ferite, delle fenditure che spetterà agli spettatori tradurre in proposte ermeneutiche.

23 Sullo stesso argomento mi permetto di rimandare a un mio precedente saggio relativo alla produzione di cortometraggi di Kiarostami. Cfr. M. Dalla Gassa, ‘La forma breve’, in R. De Gaetano, N. Tucci (a cura di), Annuario Fata Morgana Web. 2017, un anno di visioni, Cosenza, Pellegrini Editore, 2017, pp. 429-432.

24 Sull’incidenza del software (e dei desktop) nella configurazione estetica del mondo si rimanda almeno a L. Manovich, Software culture [2010], a cura di M. Tarantino, Milano, Edizioni Olivares, 2010.

25 Sullo slow cinema è nata, in ambito anglosassone, una letteratura molto coesa sia per categorie critiche abbracciate, sia per autori scelti da analizzare. Forse non è un caso che ci siano saggi o capitoli dedicati ad Abbas Kiarostami in I. Jaffe, Slow Movies: Countering the Cinema of Action, New York, Columbia University Press, 2014; T. De Luca, N. Barradas Jorge (a cura di), Slow Cinema, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2015, L. P. Koepnick, The Long Take: Art Cinema and the Wondrous, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2017; J. Remes, Motion(less) Pictures: The Cinema of Stasis, New York, Columbia University Press, 2015; P. Coutè; D. Vasse (a cura di), ‘Action et contemplation’, Double jeu, 6, 2009. Il cineasta iraniano è egualmente citato in E.Çağlayan, Poetics of Slow Cinema: Nostalgia, Absurdism, Boredom, London, Palgrave Macmillan, 2018 e nella nuova edizione P.Schrader, Transcendental Style in Film: Ozu, Bresson, Dreyer, Los Angeles, University of California Press, 2018.

26 J.Remes, ‘The Sleeping Spectator: Nonhuman Aesthetics in Abbas Kiarostami's Five: Dedicated to Ozu’ in T. De Luca, N.Barradas Jorge (a cura di), cit., pp. 231-242.

27 La dichiarazione di Kiarostami, qui ripresa da Justin Remes (p. 239), è tratta da un’intervista che il regista ha rilasciato a Jamsheed Akrami per un documentario contenuto nei materiali extra dell’edizione in DVD de Il sapore della ciliegia, nella versione inglese edita da Criterion Collection.

28 Si veda in particolare: A Bazin, ‘William Wyler o il giansenista della messa in scena’ [1948] in ID, Che cos’è il cinema, a cura di A. Aprà, Milano, Garzanti, 1996, pp. 92-116.