3.2. Riflettersi in molte

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Produttivamente disorientante è talora l’incontro con un’affermazione che si rivela nell’incisività cristallina della constatazione. Così accade ogniqualvolta una compagna di cammino ci ricorda come per le donne essere almeno due sia stata – e sia – una condizione fondativa. Come immagine vivida emergono costellazioni di vissuti ora scaturiti da spazi costretti ora da spazi occupati; e affluiscono quelle congiunture in cui le donne hanno saputo trasformare cornici costrittive in strategia, rimodellarle e indossarle come un abito che si panneggia sul corpo per farlo proprio. Con il femminismo, l’‘essere in molte’ è forza d’impatto, testa d’ariete per minare la fortezza patriarcale; ma soprattutto ha significato essere ‘con’ molte, ‘fra’ molte, ‘insieme a’ molte; ha risposto all’esigenza di un ritrovarsi: ritrovare se stessa nella relazione con altre, differenti, soggettività femminili, per andare oltre una se stessa costretta in moduli socialmente e culturalmente determinati. Patto politico, dunque, e insieme esigenza di una relazione trasformativa dello stare nel mondo che impone di ripensarlo. La rivendicazione della differenza sessuale ha nutrito in questa direttrice un dispositivo aggregante e reclamato un altro ordine simbolico.

Negli ultimi anni alcune produzioni di cineaste sono tornate a volgere lo sguardo verso questo orizzonte aggregante, su una linea che intercetta tanto l’essere due quanto l’essere molte e che dialoga con alcuni momenti di una riflessione che le ha precedute, o accompagnate. Non si tratta evidentemente di cercare o forzare corrispondenze, quanto piuttosto di interrogarsi sul rifluire, in una dinamica carsica, di istanze in una fase di ‘urgenza’ che trova nella violenza sulle donne e sui soggetti non a caso definiti come femminilizzati solo uno dei tratti più esposti.

Penso al riguardo a L’ordine simbolico della madre (1991) di Luisa Muraro. Nella proposta di Muraro si guarda all’essere due della relazione primaria madre-figlia e della genealogia femminile quali luoghi di una rifondazione; altre formulazioni hanno invece tratteggiato configurazioni di sorellanze. Possiamo considerarli poli tensivi, scaturiti da una stagione della pratica della relazione fra donne in cui l’istituzione di un ordine simbolico dell’autorità femminile ha valso anche, come rileva Ida Dominijanni in una conversazione con la stessa Muraro, a emancipare le donne da una «politica della rivendicazione e del risentimento». Istituire un ordine simbolico di autorità non significa infatti disconoscere quel «limite di negatività», esistente anche nelle relazioni fra donne – e con la madre reale –, «che non si elimina, non va in pareggio», e che richiede invece di essere «trattato» (2005). E così accade nella ri-trattazione di Muraro che rivivifica e riconsidera, senza per questo disconoscerla, la proposta originaria, e ancora, nel seminario di Diotima L’ombra della madre e nella pubblicazione La magica forza del negativo, sempre del 2005.

Il rinnovato e persistente interesse per le genealogie femminili da parte di cineaste, l’inseguimento e la rifondazione dell’immagine, offuscata e rimossa, della madre accomunano narrazioni audiovisive; attestate da una significativa letteratura e dibattute in sedi convegnistiche, mi sembrano parlare con il linguaggio del sintomo.

Alina Marazzi è forse la figura che con maggiore sistematicità ha esplorato quel filo rosso che trapassa dal due al molte. Dopo Un’ora sola ti vorrei (2002), Vogliamo anche le rose (2007) dà voce a un ‘tu’ plurale, ma soggettivamente individuato, attraverso cui dialogare con un ‘noi’; in Tutto parla di te (2012) lo sfondo è mosso da pratiche associative – il centro di maternità – che fanno appello all’esigenza di essere ‘certamente più di due’ per affrontare situazioni che, nella materialità del loro prospettarsi, ci parlano di spazi edificati dall’interno di altri spazi, dello spazio-mondo. A configurarsi è allora lo spazio abitato e rimodulato dalla convivenza, temporanea o stabilizzata, di donne nelle dinamiche istituite con altri luoghi. In Per sempre (2005) lo sguardo si volge a un’alterità radicale di scelta che, nuovamente, trova espressione in uno spazio incarnato, scandito. L’attenzione verso esperienze comunitarie femminili, quando non semplice sfondo-ambiente decorativo o ammiccante, diventa inesorabilmente attenzione verso la collocazione del corpo e dei corpi nello spazio contenente, la ristrutturazione dei ritmi e delle relazioni, la condivisione o meno di mansioni, di pratiche riscoperte.

Una sfida ingaggiata sulla scorta di modi di porsi pazientemente modellati, di pratiche condivise e di un fare insieme in cui re-innestare un pensiero trasformativo delle differenze percorre le opere più recenti di Luce Irigaray che si confrontano, nuovamente, con la violenza, la violenza del desiderio. In Essere due è sempre dal pensiero della differenza sessuale, «tappa necessaria per strutturare il soggetto femminile» appropriato dalle donne e condiviso tra le donne, ma ora estroflesso, che Irigaray fa germinare «una cultura tra due soggetti differenti: se stessi, il mondo, l’altro». La coppia, che prende forma nell’appartenenza sessuata individuante i primi confini dell’alterità, si fa infatti figura di «relazioni orizzontali e di dialoghi nella differenza […] della società tessuta da una molteplicità di coppie a diversi livelli». La dimensione intersezionale e la visuale transnazionale che hanno interrogato, contestato, ri-articolato i cammini delle donne e dei pensieri femministi intersecano questi percorsi, colloquiando con un’ottica di prossimità differenziate.

Da Il viaggio di Giuseppe (2001), con cui approda al documentario, fino al più recente Left by the Ship (2010), i film di Emma Rossi Landi [fig. 1] dispiegano tessuti relazionali, sistemi materiali e simbolici, pratiche di vita ed esistenze originate dall’incontro di differenze che impongono un rimodellamento. Alla comunità carceraria femminile della Giudecca di Venezia si volge La stoffa di Veronica, girato nel 2005 con Flavia Pasquini [fig. 2]. La ‘Veronica’ del titolo è Veronica Prajisteanu, una donna rumena di 39 anni condannata a 8 anni per traffico di clandestini, che «dell’Italia non conosce che il carcere veneziano», essendo stata arrestata alla frontiera tra Romania e Ungheria. Alla Giudecca, grazie alla sua abilità e alla sua passione per la sartoria, concretizza un’attività che le permette di guadagnare e di occupare una posizione all’interno della comunità. Con i proventi riesce a sostenere la sua famiglia e i suoi quattro figli in Romania.

Veronica si definisce e si narra come donna immigrata per lavoro, e così la narra la figlia diciasettenne, Claudia. L’iniziativa di una sfilata in costumi d’epoca [fig. 3], che avverrà fuori le mura del carcere, è l’occasione per ulteriori guadagni, ma anche per un permesso premio che le permetterà di incontrare la figlia e di guardare al mondo fuori le mura, a Venezia. «Sotto le finestre, dieci donne sfilano in abiti antichi. Spacciatrici, assassine, ladre, italiane e straniere, giovani o meno, trasformate in gran dame, attraversano il cortile avvolte in abiti sontuosi, confezionati a mano su modelli che vanno dal Quattrocento al Novecento veneziano. Il cortile del carcere femminile della Giudecca di Venezia è pieno di sole. Le detenute, affacciate alle finestre, aggrappate alle sbarre, applaudono. Sono le prove generali» (Sinossi in http://www.cinemaitaliano.info/lastoffadiveronica ).

Le stoffe di Veronica, i merletti e i pizzi, nell’intreccio dei vissuti, delle relazioni e degli sguardi – quelli della comunità carceraria, di Veronica, della figlia Claudia e di Emma Rossi Landi – confezionano il disegno di una laboriosa tessitura. L’essere molte si declina qui in prossimità costrette, dove il ricorso alle pratiche e alle forme acquisite della relazione tra donne, il dispiegamento di tattiche e strategie di reciprocità fa fronte in primo luogo a un’esigenza di vivere e resistere; e ciò nonostante ne attesta la vitalità e la forza trasformativa.

 

 

Bibliografia

M. Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Venezia, Marsilio, 2008.

A. Cati, Immagini della memoria. Teoria e pratiche del ricordo tra testimonianza, genealogia, documentari, Udine, Mimesis, 2013.

Diotima, La magica forza del negativo, Napoli, Liguori, 2005.

I. Dominijanni, ‘La madre dopo il patriarcato. Intervista a Luisa Muraro’, Il Manifesto, 28 ottobre 2005.

L. Irigaray, Io tu noi. Per una cultura della differenza [1990], a cura di M. A. Schepisi, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

L. Irigaray, Essere due, Torino, Bollati Boringhieri, 1994.

L. Irigaray, In tutto il mondo siamo sempre in due. Chiavi per una convivenza universale, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2006.

L. Irigaray, Oltre i propri confini, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007.

L. Irigaray, Condividere il mondo [2008], Torino, Bollati Boringhieri, 2009.

L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Roma, Editori Riuniti, 1991.

L. Muraro, Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia, introduzione di Ida Dominijanni, Roma, Manifestolibri, 2004.