4.3. Il teatro dentro il romanzo. Uomini e no di Carmelo Rifici

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  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

«Sai», egli le disse, «che cosa sembra?»

«Che cosa?» disse Berta.

«Che io abbia un incantesimo in te».

«E io in te. Non l’ho anch’io in te?»

«Questa è la nostra cosa».

Elio Vittorini, Uomini e no

 

Autore centrale per la cultura italiana del secondo dopoguerra, ma poco frequentato rispetto alla sua notorietà intellettuale, Elio Vittorini è oggi al centro di un ritorno di attenzione anche da parte del mondo teatrale. Le ragioni del recente interesse drammaturgico nei confronti dell’opera dello scrittore siciliano vanno ricondotte sostanzialmente a due fattori: da un lato la spiccata inclinazione della letteratura teatrale contemporanea alla riscrittura di romanzi, tendenza a cui si aggiunge la prassi novecentesca volta alla costruzione di spettacoli tratti da testi non drammatici; dall’altro la naturale disposizione al teatro della narrativa vittoriniana, frutto di un uso particolare dei dialoghi, fitti e dallo stile recitativo, e di un registro linguistico visuale, plastico e teso all’evocazione.

Riguardo a questo secondo fattore, principale leva dell’interesse dei teatranti verso la pagina di Vittorini, va detto che un’impronta di ‘teatro nascosto nel romanzo’ è stata rilevata da tempo nella sua opera, specialmente nei testi considerati sperimentali come Conversazione in Sicilia (1941) e Uomini e no (1945). Quest’ultimo romanzo, in particolare, condensa magistralmente la doppia tensione della penna di Vittorini: l’apertura mitico-universale e la concentrazione storico-realistica; le quali, unite a un linguaggio intriso di pulsione visuale, ne fanno un ‘oggetto’ narratologico che ben si presta a una migrazione verso il palcoscenico.

Risale già al 1965 la prima riduzione per la radio e il teatro di Uomini e no, alla quale lavorano gli autori Raffaele Crovi e Enrico Vaime, con l’avallo e la collaborazione dello stesso Vittorini. Andata in onda come trasmissione radiofonica nell’aprile del ʼ65, e pubblicata sulla rivista Sipario nello stesso mese, sarà poi messa in scena nel 1977 per la regia di Roberto Marcucci [fig. 1].

Già questo episodio è indicativo della rappresentabilità della materia narrativa di Uomini e no, confermata dalla lettura del critico Giuseppe Bartolucci della riduzione di Crovi e Vaime:

 

La scrittura vittoriniana si adegua alla rappresentazione scenica agevolmente, più volte raggiungendo una densa plasticità, altre volte invece dilatandosi in evocazione; e nell’insieme essa si costruisce come uno spaccato drammatico in movimento, su continui recuperi di moralità, in equilibrio tra vita individuale e necessità sociali, e su continui scarti di ribellione che si trasferiscono dal privato al pubblico in benefica corrispondenza (Bartolucci 1965, p. 4).
 

Lo «spaccato drammatico in movimento» di cui parla Bartolucci è animato da un’autenticità e da una spontaneità che derivano all’opera dalla sua assoluta contemporaneità con gli eventi di cui parla. Uomini e no, infatti, è considerato il primo romanzo sulla Resistenza e rappresenta a tutti gli effetti un instant book: scritto nel ʼ44 nel pieno della guerra partigiana, cui Vittorini partecipò militando nelle file dei GAP (i Gruppi di Azione Patriottica), è pubblicato direttamente in volume da Bompiani già nel giugno del ʼ45. Oggetto di critiche controverse ma subito apprezzato dal pubblico, racconta dell’attività dei GAP milanesi, formati per lo più da giovani operai, che lottano contro l’occupazione nazifascista, in una Milano ferita dai bombardamenti del ’43 e dalle quotidiane rappresaglie armate tra le due parti coinvolte nel conflitto. Oltre ad ottenere un primato di tempestività sulle narrazioni ‘resistenziali’, Uomini e no si afferma come un romanzo bifronte, che fa convergere sul protagonista Enne 2, capo partigiano alter ego dello stesso Vittorini, due linee narrative distinte ma non collidenti: la storia collettiva della Resistenza, dell’utopia condivisa di una liberazione dalla barbarie fascista, e la storia individuale, carica di rovelli cerebrali, dell’amore di Enne 2 per Berta, donna sposata che egli ‘aspetta’ da oltre dieci anni.

L’intreccio tra aspirazioni pubbliche e ‘questione privata’ anima l’ordito della trama, ed è sostenuto a livello strutturale dalla compresenza di narratività e poeticità. Ovvero da un vitalismo di linguaggio che amalgama con equilibrio espressione realistica e tensione lirica, e che viene restituito persino dall’impostazione tipografica: mentre i capitoli che raccontano le azioni civili e belliche sono scritti in carattere tondo, quelli che analizzano le istanze psicologiche di Enne 2, aprendo un dialogo metanarrativo tra personaggio e autore, sono scritti in corsivo. Questa forte duplicità di toni giova alla traduzione del romanzo nella grammatica scenica del teatro, anche in virtù della peculiare postura visiva della scrittura di Vittorini, efficacemente compromessa con le discipline dello sguardo e i media figurativi (fotografia, pittura, cinema).

Non meraviglia, dunque, che un regista visionario e ‘cinematografico’ come Carmelo Rifici abbia scelto di portare in scena proprio Uomini e no, in una produzione firmata Piccolo Teatro che ha debuttato con successo nell’ottobre del 2017, ottenendo un sold out per tutte le repliche.

Nel novero degli spettacoli teatrali derivati dalle opere dell’intellettuale siciliano la rappresentazione di Rifici possiede due immediati elementi d’interesse: innanzitutto non si tratta di una riscrittura-riduzione, la forma più frequente di traslitterazione dal romanzo al teatro, ma piuttosto di una riscrittura-rifacimento; ossia una ‘ritessitura’ per la scena del testo di partenza, operata dal drammaturgo Michele Santeramo tramite tagli e soprattutto aggiunte, di personaggi e di intere scene. A questa scelta di marcato intervento sull’opera nel passaggio dalla pagina al palco se ne aggiunge una altrettanto decisa di casting: la messinscena corale del racconto è affidata a diciassette giovani attori neodiplomati alla Scuola del Piccolo Teatro diretta da Rifici, i quali hanno la stessa età dei ragazzi protagonisti del romanzo. L’identità anagrafica e geografica (in quanto allievi della Scuola del Piccolo gli attori hanno vissuto a Milano per tre anni) tra interpreti e personaggi conferisce allo spettacolo una nota di freschezza e un effetto di realtà, nonostante l’enorme distanza tra il contesto milanese di oggi e quello descritto nel libro. Spiega Rifici a proposito dei suoi allievi: «Mi interessava stabilire un collegamento tra letteratura e vita, ma anche far loro percepire la differenza tra la Milano di Vittorini e quella odierna, suscitando in loro uno straniamento che ricreasse l’incantesimo, la meraviglia, lo stupore presenti in Vittorini» (Rifici, programma di sala dello spettacolo).

Pur in un generale impianto realistico, infatti, la dimensione dell’incanto e della meraviglia impregna le pieghe segrete di Uomini e no, ed è perfettamente restituita nella drammaturgia di Santeramo e nella regia di Rifici, attraverso una calibrata dialettica tra realtà e astrazione che innerva la messa in figura del racconto.

Già la cornice storica delineata dal testo, la città di Milano sferzata dalla violenza della guerra civile, è riassunta con grande visualità dalla scenografia dello spettacolo, con un segno metaforico d’impatto istantaneo: l’intera pianta circolare del Teatro Studio Melato è attraversata da un tram d’epoca spezzato in due parti; ovvero la vettura emblema del capoluogo meneghino, qui destrutturata in lunghi monconi per simboleggiare la città ferita e divisa dal nazifascismo [figg. 2-3]. Nello squarcio che si apre tra gli spaccati del mezzo e sopra i suoi gialli vagoni mobili, tra botole e carrelli scorrevoli di ronconiana memoria, si articolano i percorsi narrativi ‘ritessuti’ dalla drammaturgia, che lo spazio scenico antinaturalistico, ma indubbiamente ancorato alla civitas milanese, proietta in un orizzonte sdoppiato, sia concreto che immaginifico. L’intensità della messinscena, in fondo, sta tutta nell’andirivieni polisemantico tra determinatezza storica e proiezione metafisica, un’oscillazione che riprende la duplicità stilistica di Vittorini, declinandola in forma di teatro.

Così, le azioni dinamiche e concitate dei partigiani impegnati nella Resistenza, i monologhi feroci del capitano delle SS Clemmo, le gride animalesche dell’ufficiale Cane Nero, sono espressi con crudo realismo, attraverso un dinamismo quasi cinematografico e una recitazione naturale, per lo più asciutta, secca, diretta [figg. 4-5]. A questi fanno da contraltare le atmosfere rarefatte, intessute di evocativi tagli di luce, delle scene tra Enne 2 e Berta, in cui lampi di poesia sopravvissuta alla macerie sembrano poter spezzare il buio di una città livida di dolore.

Gli innamorati infelici, vittime della Storia e dei condizionamenti sociali che impediscono a lei di lasciare il marito, si muovono quasi fluttuando sui vagoni del tram squarciato; librandosi tra gesti lievi e catene di parole ripetute, rilanci ed echi melodico-ritmici che producono un effetto di incantamento visionario [figg. 6-7].

La dimensione ‘magica’ del legame tra Enne 2 e Berta è sottolineata anche dalla stilizzazione poetica delle scelte di messa in scena: pochi segni emblematici, come il vestito di lei icasticamente appeso a una stampella, che Enne 2 conserva nell’attesa del suo ritorno, o la pozza di luce bianca che li rischiara dal basso, nell’estasi sospesa del loro ultimo abbraccio.

Il contesto spaziale resta quello urbano degli scontri tra le fazioni opposte (non vi sono cambi di scena), ma il variare delle luci da cupe a luminose, della recitazione da naturalistica a evocativa, del paesaggio sonoro da fitto di rumori stridenti ad avvolto nel silenzio, rende possibile un’escursione ‘atmosferica’ dal reale al metafisico, che imprime al sentimento dei protagonisti una temporalità assoluta, senza storia.

Alternando realtà e astrazione il ritmo della recita segue il paso doble del testo vittoriniano, ma aggiungendo sequenze e dilatando il sistema dei personaggi per ottenere un bilanciamento narrativo tra vicende collettive e private; ossia tra lo spazio della Storia (i capitoli del romanzo in tondo) e lo spazio della coscienza (quelli in corsivo), compresi, e di fatto congiunti, in quel cronotopo esistenziale che è la Milano del ’44. La superfetazione drammatica dà risalto agli ideali collettivi non meno che all’introspezione personale, tuttavia la lente con cui Rifici e Santeramo guardano all’opera di Vittorini è di natura più umana ed etica, che storica e ideologica. Rifici stesso ha dichiarato:

 

Al di là del racconto sulla Resistenza e sul rapporto di Milano con il nazifascismo, la trama nascosta del testo che voglio emerga nello spettacolo è la percezione della scomparsa di un mondo. Michele Santeramo la definisce perdita dell’incanto, dell’incantesimo che permea i rapporti dei personaggi tra loro e con la realtà circostante (Rifici, programma di sala dello spettacolo).

 

Il sottile e pertinace Leitmotiv dello spettacolo è proprio la ricerca di quella gioia e di quella meraviglia che appartengono ai rapporti umani, all’amore e all’amicizia, nonostante, o forse specialmente, se vissuti nel contesto di una città-deserto, infera e tragica, dove restano solo «spettri di case» e il «suono rotto, quasi d’ululo» del grido delle forze occupanti [fig. 8]. La rappresentazione desertica di Milano a seguito dei bombardamenti nazisti è una delle ‘immagini narrative’ più ricorrenti del testo di Vittorini, e acquista vividezza nella scena decadente e notturna dello spettacolo, che, suggestiva ma non invadente, consente di stringere il disegno registico sui rapporti tra i personaggi. Non solo l’amore impossibile e intriso di evocazione tra Enne 2 e Berta, ma anche il legame carico di tenerezza e futuro dei neosposi Giulaj e Lucrezia, spezzato dalla morte di lui per volere del sadico capitano Clemm; o la solidarietà al femminile tra le giovani Linda e Daria, costrette a compiacere gli ufficiali nazisti pur di aver salva la propria vita.

Se per Vittorini, com’è noto, a dispetto del titolo apparentemente netto del suo romanzo, l’antitesi uomini-non uomini non si può sciogliere, perché il ‘non uomo’, il male, potenzialmente si annida dentro ciascuno di noi, la chiave di lettura del libro che Rifici e Santeramo sembrano suggerire è la necessità di riscoprire, e portare al centro del proprio essere, cioè che ci rende umani: la condivisione del dolore, la fraternità e la tenerezza, la spinta morale verso la felicità e il rinnovamento. La ricerca e il recupero dell’incanto e della meraviglia non corrispondono quindi a un disimpegno etico-sociale, né a un tentativo di escapismo dal male storico, al contrario diventano anch’essi un atto di resistenza, di eversione all’offesa e all’odio.

Nell’appassionata adesione allo spirito del testo da parte dei giovani attori, nella convincente antiretorica della riscrittura di Santeramo, e nel fine respiro poetico della regia di Rifici, si rilancia il messaggio umano e civile di Vittorini. E se è vero che il dissidio tra ‘uomini e no’ è insolubile e senza tempo, pertiene al passato come al presente e al futuro, allora acquista un’importanza piena l’occasione viva del teatro di dargli corpo e voce.

 

Bibliografia

A. Acanfora, ‘Teatro e romanzo nella produzione letteraria contemporanea’, Misure critiche, 1, 2010, pp. 7-20.

G. Bartolucci, ‘Teatro e Resistenza’, Sipario, 228, aprile 1965.

R. Crovi, Il lungo viaggio di Vittorini. Una biografia critica, Venezia, Marsilio, 1998.

R. Crovi, E. Vaime, ‘Uomini e no’, Sipario, 228, aprile 1965, pp. 44-53.

G. Lupo, Vittorini politecnico (in particolare il capitolo ‘La resistenza mancata di «Uomini e no». Dal romanzo di Vittorini al copione teatrale di Crovi e Vaime’, pp. 105-123), Milano, FrancoAngeli, 2011.

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C. Segre, Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Torino, Einaudi, 1984.

C. Taglietti, ‘Vittorini torna a Milano e sale sul tram’, la Lettura – Corriere della Sera, 17 settembre 2017, p. 37.

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E. Vittorini, Uomini e no, in M. Corti (a cura di), Le opere narrative, Milano, Mondadori (I Meridiani), I, 1974, pp. 711-920.