«Il femminile viene scelto perché travestito da maschile: questo è il segreto del successo di figure come la vamp, la donna fatale, la donna sessualmente emancipata, aggressiva, moderna» (Passerini 1988, p. 54). Così Luisa Passerini descriveva la repulsione delle giovani donne degli anni Sessanta nei confronti dei modelli di femminilità incarnati dalle madri. Questo rifiuto era legato alle nuove ambizioni con cui le ragazze italiane si affacciavano al mondo, ma era anche sintomo di uno spaesamento. In quegli anni, infatti, il posto delle donne nell’Italia del boom economico era ancora un’incognita e i veicoli di affermazione sociale erano ancora ritagliati a misura maschile. Riconoscimento professionale, scolastico e militanza politica: ognuno di questi ambiti risultava particolarmente insidioso.
Il cinema, sempre saldamente al centro del sistema mediale italiano, non tardò a intercettare a suo modo queste tensioni e a modellare di conseguenza i volti femminili che apparivano sullo schermo. Fu la commedia all’italiana a farsi carico di questo ‘aggiornamento del femminile’. L’intellighenzia creativa della commedia era per lo più composta da un gruppo ristretto di registi e sceneggiatori (uomini), mentre le figure divistiche ricoprivano un ruolo promozionale e di richiamo altrettanto importante e complementare. Da questa dualità deriva il carattere essenziale di un cinema medio che doveva negoziare il successo di cassetta con la qualità. Pur attirando un pubblico ampio, questi film erano particolarmente apprezzati dagli spettatori delle prime visioni, che potevano permettersi i biglietti più costosi degli spettacoli serali delle sale dei centri cittadini. Il cosiddetto ‘pubblico più evoluto’ era quindi ansioso di vedere la modernità sullo schermo, una modernità che coincideva spesso con una giovane figura femminile sessualmente emancipata, aggressiva, vestita all’ultima moda, amante della musica e del ballo. Questo personaggio prese vita in quegli anni grazie alle interpretazioni di due attrici poco più che adolescenti, Catherine Spaak e Stefania Sandrelli. Entrambe debuttarono sul finire degli anni Cinquanta, e seppur non riuscirono a scalzare definitivamente le dive della precedente generazione, come Gina Lollobrigida e Sofia Loren, rivoluzionarono di fatto il modello di femminilità nel cinema italiano. Sia la Spaak che la Sandrelli legarono gran parte delle loro carriere alla commedia, dando vita a personaggi che rimangono ancora oggi iconici, e che nell’immaginario comune rappresentano a pieno titolo i ‘favolosi’ anni Sessanta. Giovani donne, emotivamente fragili ma sessualmente disinibite, i caratteri delle protagoniste di Diciottenni al sole di Camillo Mastrocinque (1962), La voglia matta di Luciano Salce (1962), La bella di Lodi di Mario Missiroli (1963), La parmigiana di Antonio Pietrangeli (1963) e Sedotta e abbandonata di Pietro Germi (1963) avevano molti punti in comune con l’immagine pubblica delle loro interpreti. Poco più che adolescenti, le due attrici furono protagoniste di amori problematici, che non mancarono d’interessare i rotocalchi: nel 1961, a soli 15 anni, la Sandrelli si era legata a Gino Paoli [fig. 1], di dodici anni più grande, mentre la Spaak, nemmeno ventenne, lasciò il marito Fabrizio Capucci poco dopo aver avuto una bambina. Non solo la loro vita privata, ma anche i loro corpi tardo-adolescenziali, definiti efebici dai giornalisti, presero il posto delle curve delle pin up degli anni Cinquanta. Sui loro fisici ben si posavano i modelli delle sartorie all’ultima moda, che le due indossavano con disinvoltura fuori e sul set. Le commedie da loro interpretate alimentavano di fatto, in maniera problematica, la corrispondenza tra modernizzazione e libertà sessuale femminile, ovviamente solo per le giovani. La differenza generazionale rispetto al marito e il consumismo improduttivo continuavano ad essere le marche principali dell’indipendenza femminile dei personaggi della Spaak, quando appena ventenne, iniziò a recitare prevalentemente in ruoli da donna sposata (Adulterio all’italiana, 1966; Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare di Pasquale Festa Campanile, 1967).
I modelli maschili corrispondenti erano generalmente figure dalla mascolinità debole e moralmente incerta. In altre parole, l’uomo veniva confinato alla classica figura dell’‘inetto’ impreparato nei confronti della giovane consorte, e quindi alla modernità. Tuttavia, la crisi del maschile era solitamente dotata di tridimensionalità psicologica, e garantiva gli escamotage comici, mentre le adolescenti-mantidi, immancabilmente immortalate in camicia da notte o alle prese con scatenati twist, iniziavano a garantire una forma di spettacolarità erotica che diventerà il marchio di fabbrica delle commedie successive. Gli interpreti maschili, divi come Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman e Nino Manfredi, oltre ad essere uomini adulti potevano contare su figure divistiche e carriere più articolate, non necessariamente imperniate sulla loro vita privata e sulla loro sessualità.
Queste differenze nei ruoli e nelle immagini divistiche riflettevano evidentemente le dinamiche produttive e creative nell’industria cinematografica dell’epoca e così continuò ad essere negli anni successivi. Con l’ironia che caratterizza la sua scrittura, Patrizia Carrano nel 1977 scriveva: «Vista l’impossibilità di travestire verosimilmente gli uomini con abiti femminili, le attrici sono le uniche lavoratrici presenti nel cinema in modo abbastanza consistente, anche se la loro percentuale non raggiunge certo quella maschile» (Carrano 1977, p. 129). Carrano, nella sua inchiesta sulla donna nel cinema italiano, affermava che le attrici erano soggette a una forma di discriminazione a livello creativo e attivo, che si articolava non solo nel rapporto con gli altri professionisti (in stragrande maggioranza uomini), ma si rifletteva soprattutto nella penuria di ruoli. Insomma, se fino agli anni Cinquanta il melodramma aveva garantito la presenza di «mamme, sorelle, zie, anziane, contadine, attempate signorine», proprio la commedia degli anni Sessanta si è poi resa responsabile del restringimento della gamma dei ruoli femminili disponibili sino al prevalere definitivo di parti accessorie, connesse alla spettacolarità dell’erotismo e alla sessualizzazione della commedia stessa. La generazione di attrici che seguì quella di Sandrelli e Spaak non poté che debuttare in Italia nel cinema erotico, mentre proprio le due ex-adolescenti degli anni del boom non disdegnavano negli stessi anni parti di nudo e ruoli sexy [fig. 2]. Il cinema era dunque cambiato, il pubblico era diminuito, il prezzo del biglietto aumentato. Ornella Muti, Nadia Cassini, Gloria Guida, Edwige Fenech, Eleonora Giorgi e Barbara Bouchet sono solo alcune delle nuove attrici che conobbero l’apice del successo negli anni Settanta grazie alla commedia sexy. Eppure, molte di loro, cercarono in qualche modo di ‘redimere’ la loro credibilità di attrici partecipando a progetti dotati di qualche potenzialità artistica. A garantire questo aspetto era spesso proprio la firma di un autore della commedia degli anni Sessanta, come Luciano Salce, Pasquale Festa Campanile o Dino Risi.
A distanza di decenni, con alle spalle decine di film, ruoli per il teatro e lavori per la televisione, Stefania Sandrelli e Catherine Spaak godono di uno status ormai consolidato di dive del cinema italiano, come protagoniste di una delle sue stagioni migliori. Nonostante entrambe abbiano poi diversificato la loro carriera nello spettacolo e abbiano spesso partecipato a progetti distanti da ambizioni autoriali, la loro figura pubblica è ancora profondamente ancorata ai ruoli trasgressivi, ma rispettabili, dei primi anni e quindi al loro lavoro con alcuni registi (Salce, Pietrangeli). Se questo appare ovvio in un certo senso, dall’altro risulta interessante come tale capitale sociale e professionale venga speso nei confronti delle altre generazioni di attrici, e fornisca al contempo una prospettiva sulla storia del cinema italiano, imperniato su un paradigma della crisi che in controluce segnala una conflittualità femminile irrisolta dentro l’industria cinematografica di quegli anni.
Nella puntata del 22 luglio 2016 del programma di Rai Tre Stracult, ideato dal critico Marco Giusti, sono presenti in studio Catherine Spaak, Daniela Poggi e Ilenia Pastorelli, vincitrice del David di Donatello come migliore attrice per Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabrielle Mainetti (2016). Nel salotto cinefilo, le tre donne rappresentano tre diverse stagioni del cinema italiano. La Spaak naturalmente vanta una carriera più solida e lunga, ed è anche colei che rispetto alle altre può vantare un sodalizio artistico con i ‘grandi’ del cinema italiano. Al contrario, sia la Poggi che la Pastorelli sono imbarazzate per i loro debutti, rispettivamente il nazisexploitation L’ultima orgia del terzo Reich di Cesare Canevari 1(977) [fig. 3] e al Grande Fratello. Interpellata da Giusti sul suo vecchio personaggio di ‘giovane ribelle’, la Spaak definisce la sua libertà «più mentale che fisica», sminuendo l’audacità delle sue interpretazioni, mentre la Poggi, affrontando il nodo spinoso della nudità, invoca il buon gusto e l’eleganza delle sue parti ‘sexy’ rivendicando, invece, una libertà fisica («ero elegante anche da nuda»). Il confronto tra queste due donne in qualche modo rispecchia quella tensione prodottasi tra attrici e cinema dagli anni Sessanta e accentuatasi negli anni Settanta. La crisi del cinema italiano, infatti, non farà che aumentare il divario tra professioniste, accesso alla creatività, varietà di copioni e personaggi. I ruoli da loro interpretati negli anni Settanta e la reticenza a parlarne in qualche modo ne sono una spia. Cinzia Bellumori, nel 1972, nel suo pionieristico studio sull’industria cinematografica italiana, ne dava questa lettura: «sembra che la donna sia […] la rappresentazione di alcuni momenti di crisi del cinema, direttamente collegati alla crisi del sistema. […] Il cinema, quindi, viene fuori con la maggior parte dei suoi difetti e sempre, comunque, filtrato attraverso la problematica femminile. Il cinema è simile all’uomo che Diogene cercava, è dappertutto e in nessun luogo insieme» (Bellumori 1978, p. 112). Specularmente, anche le donne, nel cinema Italiano dagli anni Sessanta in poi, sono ovunque e da nessuna parte.
Bibliografia
C. Bellumori, ‘Le donne del cinema contro questo cinema’, Bianco e Nero, 11, 1-2, 1972.
P. Carrano, Malafemmina. La donna nel cinema italiano, Rimini, Guaraldi, 1977.
N. Fullwood, Cinema Gender and Everyday Space. Comedy Italian Style, New York, Palgrave-Macmillan, 2015.
L. Passerini, Autoritratto di gruppo, Firenze, Giunti, 1988.
J. Reich, Beyond the Latin Lover. Marcello Mastroianni, Masculinity, and Italian Cinema, Bloomington, Indiana Univerisity Press, 2004.
V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Roma, Bulzoni, 1985.
“Stracult”, Rai Tre, puntata andata in onda il 22/07/2016 disponibile al link http://www.raiplay.it/video/2016/07/Stracult-del-22072016-fd1fb33d-3858-4886-bd27-499ac82b0d97.html [accessed 01/09/2017]