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5.6. Il corpo cangiante. La recitazione di Stefania Sandrelli tra desiderio e mutevolezza 

 

1. Che cos’è recitare?

Uno dei rischi che si corrono quando si cerca di esplorare il territorio vastissimo, e forse non ancora del tutto cartografato, della recitazione di Stefania Sandrelli è quello di parlare di lei più come di un simbolo che come di un’attrice: di vederla solo come icona di costume, segno di un tempo nuovo che cerca con fatica di abbandonare modi e usi di un’Italia che va scomparendo, e così di lasciarne in sottofondo il lavoro sottile e multiforme di interprete.

Quello di Sandrelli attrice è un terreno impervio, dunque, se lo si pensa alla luce dell’immagine divistica che Stefania costruisce in pochi anni (esordisce nel 1961, con Gioventù di notte di Mario Sequi e poi con Il federale di Luciano Salce, a quindici anni). Sandrelli incarna prima di tutto il mito della ragazza della porta accanto che, scoperta per caso, diviene una stella del cinema − celebre la foto che la ritrae a Viareggio, la gonna scozzese e il golfino blu elettrico, ragazzina perbene e maliziosa insieme [fig. 1]: un miscuglio di ingenuità e seduzione che segna fin da subito la sua star persona e che esplode poi nei due film di Germi, Divorzio all’italiana (1962) e Sedotta e abbandonata (1964).

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«Il femminile viene scelto perché travestito da maschile: questo è il segreto del successo di figure come la vamp, la donna fatale, la donna sessualmente emancipata, aggressiva, moderna» (Passerini 1988, p. 54). Così Luisa Passerini descriveva la repulsione delle giovani donne degli anni Sessanta nei confronti dei modelli di femminilità incarnati dalle madri. Questo rifiuto era legato alle nuove ambizioni con cui le ragazze italiane si affacciavano al mondo, ma era anche sintomo di uno spaesamento. In quegli anni, infatti, il posto delle donne nell’Italia del boom economico era ancora un’incognita e i veicoli di affermazione sociale erano ancora ritagliati a misura maschile. Riconoscimento professionale, scolastico e militanza politica: ognuno di questi ambiti risultava particolarmente insidioso.

Il cinema, sempre saldamente al centro del sistema mediale italiano, non tardò a intercettare a suo modo queste tensioni e a modellare di conseguenza i volti femminili che apparivano sullo schermo. Fu la commedia all’italiana a farsi carico di questo ‘aggiornamento del femminile’. L’intellighenzia creativa della commedia era per lo più composta da un gruppo ristretto di registi e sceneggiatori (uomini), mentre le figure divistiche ricoprivano un ruolo promozionale e di richiamo altrettanto importante e complementare. Da questa dualità deriva il carattere essenziale di un cinema medio che doveva negoziare il successo di cassetta con la qualità. Pur attirando un pubblico ampio, questi film erano particolarmente apprezzati dagli spettatori delle prime visioni, che potevano permettersi i biglietti più costosi degli spettacoli serali delle sale dei centri cittadini. Il cosiddetto ‘pubblico più evoluto’ era quindi ansioso di vedere la modernità sullo schermo, una modernità che coincideva spesso con una giovane figura femminile sessualmente emancipata, aggressiva, vestita all’ultima moda, amante della musica e del ballo. Questo personaggio prese vita in quegli anni grazie alle interpretazioni di due attrici poco più che adolescenti, Catherine Spaak e Stefania Sandrelli. Entrambe debuttarono sul finire degli anni Cinquanta, e seppur non riuscirono a scalzare definitivamente le dive della precedente generazione, come Gina Lollobrigida e Sofia Loren, rivoluzionarono di fatto il modello di femminilità nel cinema italiano. Sia la Spaak che la Sandrelli legarono gran parte delle loro carriere alla commedia, dando vita a personaggi che rimangono ancora oggi iconici, e che nell’immaginario comune rappresentano a pieno titolo i ‘favolosi’ anni Sessanta. Giovani donne, emotivamente fragili ma sessualmente disinibite, i caratteri delle protagoniste di Diciottenni al sole di Camillo Mastrocinque (1962), La voglia matta di Luciano Salce (1962), La bella di Lodi di Mario Missiroli (1963), La parmigiana di Antonio Pietrangeli (1963) e Sedotta e abbandonata di Pietro Germi (1963) avevano molti punti in comune con l’immagine pubblica delle loro interpreti. Poco più che adolescenti, le due attrici furono protagoniste di amori problematici, che non mancarono d’interessare i rotocalchi: nel 1961, a soli 15 anni, la Sandrelli si era legata a Gino Paoli [fig. 1], di dodici anni più grande, mentre la Spaak, nemmeno ventenne, lasciò il marito Fabrizio Capucci poco dopo aver avuto una bambina. Non solo la loro vita privata, ma anche i loro corpi tardo-adolescenziali, definiti efebici dai giornalisti, presero il posto delle curve delle pin up degli anni Cinquanta. Sui loro fisici ben si posavano i modelli delle sartorie all’ultima moda, che le due indossavano con disinvoltura fuori e sul set. Le commedie da loro interpretate alimentavano di fatto, in maniera problematica, la corrispondenza tra modernizzazione e libertà sessuale femminile, ovviamente solo per le giovani. La differenza generazionale rispetto al marito e il consumismo improduttivo continuavano ad essere le marche principali dell’indipendenza femminile dei personaggi della Spaak, quando appena ventenne, iniziò a recitare prevalentemente in ruoli da donna sposata (Adulterio all’italiana, 1966; Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare di Pasquale Festa Campanile, 1967).

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In occasione dell’edizione 2016 del Premio Fiesole ai Maestri del cinema, assegnato a Stefania Sandrelli, è apparso per i tipi di ETS, grazie alla cura di Daniela Brogi, un volume collettaneo che rinnova con grande efficacia l’idea che regista e attore «creano, loro stessi, il testo»,[1] secondo una reciprocità di azioni spesso fraintesa, quando non addirittura misconosciuta. Il settantesimo compleanno della diva, insieme ai suoi cinquantacinque anni di carriera, offriva del resto l’opportunità di riavvolgere il nastro della storia cinematografica del nostro paese, se è vero – come si legge nel suo sito ufficiale – che lei può essere considerata «il termometro del cinema italiano».

Il volume si aggiunge al catalogo di studi recenti dedicati al ‘cinema delle donne’,[2] come si intuisce facilmente già dal titolo. L’evidente riferimento a Balász, lungi dall’essere solo il frutto di un divertito scambio di genere, sposta l’attenzione su un nuovo paradigma femminile che non si riduce alla mera esibizione dei segni del corpo, ma ripropone il tema della visibilità come chiave di volta della «direzione delle immagini» filmiche e al contempo invita a un rinnovato interesse per quelli che Dyer definisce i «segni di performance».[3] Detto altrimenti, con le parole della curatrice, è in un duplice senso che Stefania Sandrelli può essere definita la «donna visibile»:

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