Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

5.6. Il corpo cangiante. La recitazione di Stefania Sandrelli tra desiderio e mutevolezza 

 

1. Che cos’è recitare?

Uno dei rischi che si corrono quando si cerca di esplorare il territorio vastissimo, e forse non ancora del tutto cartografato, della recitazione di Stefania Sandrelli è quello di parlare di lei più come di un simbolo che come di un’attrice: di vederla solo come icona di costume, segno di un tempo nuovo che cerca con fatica di abbandonare modi e usi di un’Italia che va scomparendo, e così di lasciarne in sottofondo il lavoro sottile e multiforme di interprete.

Quello di Sandrelli attrice è un terreno impervio, dunque, se lo si pensa alla luce dell’immagine divistica che Stefania costruisce in pochi anni (esordisce nel 1961, con Gioventù di notte di Mario Sequi e poi con Il federale di Luciano Salce, a quindici anni). Sandrelli incarna prima di tutto il mito della ragazza della porta accanto che, scoperta per caso, diviene una stella del cinema − celebre la foto che la ritrae a Viareggio, la gonna scozzese e il golfino blu elettrico, ragazzina perbene e maliziosa insieme [fig. 1]: un miscuglio di ingenuità e seduzione che segna fin da subito la sua star persona e che esplode poi nei due film di Germi, Divorzio all’italiana (1962) e Sedotta e abbandonata (1964).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Il sole negli occhi (1953), esordio alla regia di Antonio Pietrangeli, si apre con una corsa in discesa. Una ragazza si precipita giù per le strade scoscese di un paesino, tenendo strette tra le mani una piccola borsa da viaggio e una statuetta. [fig. 1] Mentre scorrono i titoli di testa, seguiamo il suo percorso attraverso sei inquadrature dalla composizione pressoché identica: la ragazza entra in campo frontalmente; corre verso di noi ed esce dal quadro, mentre la camera segue i suoi movimenti disarticolati (a volte con panoramiche appena percettibili); una dissolvenza incrociata la fa rientrare in campo nell’inquadratura successiva; la sua corsa è sempre più concitata, fino al suo arrivo a una strada in piano. Nell’ultima di queste inquadrature, scorgiamo in alto a destra il cartello di una fermata d’autobus, «S.A.T.A Fermata Castelluccio». Celestina – questo è il suo nome, ed è la prima parola che sentiamo in tutto il film – sale su una corriera che la porterà a Roma, dove comincerà una nuova vita come domestica presso una ‘buona famiglia’ borghese. Una corsa che è, dunque, anche e soprattutto una partenza.

Con una curiosa coincidenza di immagini, anche Elisa Bussi Parmiggiani comincia il suo articolo sui personaggi femminili nel cinema di Pietrangeli proprio con una ‘corsa’. Commentando, infatti, il periodo immediatamente successivo alla stagione del Neorealismo, l’autrice utilizza la metafora della corsa per descrivere la situazione socio-economica di un paese avviato verso il (e proiettato nel) boom economico:

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →