Daniela Brogi (a cura di), La donna visibile. Il cinema di Stefania Sandrelli

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In occasione dell’edizione 2016 del Premio Fiesole ai Maestri del cinema, assegnato a Stefania Sandrelli, è apparso per i tipi di ETS, grazie alla cura di Daniela Brogi, un volume collettaneo che rinnova con grande efficacia l’idea che regista e attore «creano, loro stessi, il testo»,[1] secondo una reciprocità di azioni spesso fraintesa, quando non addirittura misconosciuta. Il settantesimo compleanno della diva, insieme ai suoi cinquantacinque anni di carriera, offriva del resto l’opportunità di riavvolgere il nastro della storia cinematografica del nostro paese, se è vero – come si legge nel suo sito ufficiale – che lei può essere considerata «il termometro del cinema italiano».

Il volume si aggiunge al catalogo di studi recenti dedicati al ‘cinema delle donne’,[2] come si intuisce facilmente già dal titolo. L’evidente riferimento a Balász, lungi dall’essere solo il frutto di un divertito scambio di genere, sposta l’attenzione su un nuovo paradigma femminile che non si riduce alla mera esibizione dei segni del corpo, ma ripropone il tema della visibilità come chiave di volta della «direzione delle immagini» filmiche e al contempo invita a un rinnovato interesse per quelli che Dyer definisce i «segni di performance».[3] Detto altrimenti, con le parole della curatrice, è in un duplice senso che Stefania Sandrelli può essere definita la «donna visibile»:

per guardare alle qualità, anche tecniche, d’interpretazione, alla sua «attorialità» spesso rimossa (Pierini); al tempo stesso, l’espressione può essere usata per continuare a raccogliere la sfida di una «bellezza mai vista» (Rasy), di una «visibilità» spesso anche così ostentata, con pose «spregiudicate» – «spinte», si sarebbe detto in passato (Brogi, p. 6).

Il rimando a Balász pare rimanere sotto traccia, quasi inconsapevolmente, soprattutto in riferimento a un concetto che viene puntualmente risolto da tutti gli autori e le autrici:

E la maggior parte degli attori, inoltre, ha un solo «volto d’attore». Si tratta sempre dello stesso tipo, riconoscibile anche nel più convincente travestimento e in ogni costume, come un ufficiale in abiti civili.[4]

Se l’immaginario cinematografico ha costruito nel tempo una Sandrelli-tipo, approfittando della visibilità del suo corpo («una sorta di Gran teatro della storia della donna italiana del Novecento» – Brogi, p. 6), è pur vero – e lo dimostrano con grande evidenza i contributi raccolti nel volume – che è nel segno della variazione che si coglie l’«effetto di presenza»[5] dell’attrice, il cui volto è un atlante mutevole di espressioni, sentimenti, pose, inganni. La fisionomia della diva ispira registi diversi (da Germi a Pietrangeli, da Bertolucci a Scola, senza dimenticare il fatale incontro con Brass), capaci di smontare l’idea di una bellezza facile, assoluta, e pronti invece a disseminare dentro opere assai diverse per genere, stile e spessore diegetico frammenti di donna ora ingenua ora audace, ora generosa ora cinica, ma sempre ‘sprezzante’ – nell’accezione di Baldassar Castiglione.[6]

È intorno a questa galleria di gesti e sguardi che si dispongono le tessere del libro, ordinate in due sezioni, Saggi e Letture. La prima mette in chiaro e approfondisce le categorie di ‘personagge’ incarnate da Sandrelli nel corso della sua lunga carriera, dando voce alla declinazione di una femminilità non ovvia perché «sensibile non solo alle mutazioni della storia e del costume, ma anche a quella vibrazione sotterranea che nelle metamorfosi degli anni cambia il nostro modo di abitare lo spazio e la vita» (Rasy, p. 13). Inquadrando i diversi profili di donna ‘costruiti’ da Sandrelli emerge un «percorso di continue andate e ritorni fra il familiare e l’estraneo, il pudore e il desiderio, l’esaltazione e la rassegnazione» (Becattini, p. 33). Le seduttrici, le ribelli, le mogli, le madri interpretate articolano «quasi un esame di coscienza, una elaborazione critica dell’archetipo femminile che la cultura della modernità ha assegnato alla donna» (Polese, p. 17), restituendo così sullo schermo un frastagliato ventaglio di sfumature.

Accanto alla temperatura emotiva di queste figure, alcune delle quali sembrano a tratti delle «piccole Bovary» (Polese, p. 18), si pone la questione cruciale della visibilità intesa come performance, come varco dell’espressione attoriale: è qui che l’analisi produce lo scarto più consistente, nell’aggirare l’insidia di una recitazione senza volontà né fibra, e soprattutto nel tentativo di individuare l’idioletto di Sandrelli, cioè «quel bagaglio di segni autoctoni che contraddistinguono la sua presenza e la sua attorialità» (Pierini, p. 27). Il manuale minimo dell’attrice poggia saldamente sulle micro-tensioni del volto, sull’impercettibile movimento delle labbra, sulle inclinazioni del capo, sul posizionamento delle braccia e del corpo ma, poi, quel che conferisce spessore e intensità all’interpretazione è il modo in cui questi segni si «inseriscono nel flusso della performance» (Pierini, p. 28). Senza generalizzare troppo, è possibile ricondurre la recitazione di Sandrelli a un’imprevedibilità di fondo, a una incondizionata pulsione ludica che rende spesso difficile distinguere «tra spontaneità e stilizzazione, tra casualità e premeditazione» (ibidem). La conseguenza più ‘visibile’ di tale postura giocosa è la rinuncia a schematismi e inibizioni in forza di un’esuberanza espressiva che le consente di dar corpo alle intermittenze di un nuovo tipo di borghesia, «pronta ad adottare nuovi stili di vita, a cavalcare il consumismo, a seguire modelli comportamentali massificati e sognare traguardi di affermazione effimeri e talvolta fatali» (Vanelli, p. 39). Allo stesso tempo, la tensione metamorfica del suo stile, (solo apparentemente) senza regole, contribuisce all’invenzione di una gioventù[7] di chiara matrice pop, apparsa nel solco degli anni Sessanta e via via declinata – e forse anche degradata – nel cuore degli anni Ottanta.

La compattezza tematica e discorsiva della prima sezione cede il posto, nella seconda e più estesa parte del volume, alla combinazione di prospettive di indagine che offrono una galleria di letture di grande effetto, soprattutto perché animate da una vis analitica sempre puntuale e tesa. Data l’ampiezza dei rimandi, e la varietà dei casi di studio prescelti (dal dittico germiano Divorzio all’italiana-Sedotta e abbandonata fino a La prima cosa bella di Virzì, passando per Pietrangeli, Bertolucci, Comenicini, Scola, Brass, Monicelli, Archibugi e Bigas Luna), non è possibile dar conto dei singoli contributi, ma si può tentare di delineare, per brevi cenni, il quadro d’insieme. Come per un effetto di rispecchiamento, i saggi contenuti in questa sezione sembrano riprendere e ribadire le idee cardine esplorate nella prima: l’analisi dei film di Germi lascia emergere, ad esempio, tutta «l’opaca ambivalenza» (Cardone, p. 57) della personaggia in abbinamento ai tratti tensivi dell’attrice, mentre il discorso su Io la conoscevo bene approfondisce le dinamiche di interferenza fra corporeità e sessualità nella rappresentazione di modelli femminili.

La categoria del «corpo come desiderio» (Tognolotti, p. 61), messa in campo a proposito del film di Pietrangeli, si riaffaccia tra le pieghe del racconto de Il conformista, si deforma nella tensione claustrofobica de L’ascensore per poi culminare negli abbandoni estatici de La chiave e nel bulimico erotismo di Prosciutto, prosciutto, a riprova della disponibilità e del carattere anticonvenzionale della recitazione di Sandrelli. Con il film di Scola quella «straordinaria istintualità» che aveva caratterizzato il primo lungo tratto della carriera dell’attrice lascia spazio a un «inedito protagonismo morale, frutto di un cambiamento di sguardo che all’inizio del nuovo decennio sembra investire l’intero cinema italiano» (Luceri, p. 79). Il carattere di Lori in Speriamo che sia femmina, pur restando per certi aspetti ai margini della vicenda, si fa portatore in prima battuta di un disequilibrio per poi divenire nel finale elemento di ri-congiunzione di un coté squisitamente femminile. Nel segno della madre si compie infine l’avventura con Archibugi e Virzì, registi che in misura diversa hanno saputo esaltare il corto circuito fra arte e vita, destino e mestiere che segna fin dalle prime prove lo stile di Sandrelli; la decisa impronta delle inquadrature di Archibugi, la nettezza dei suoi piani fa da contraltare alle tinte dolceamare di Virzì, al suo perenne oscillare fra desiderio e nostalgia.

Questa giostra di personagge, affetti e scene, descritti con intelligenza e passione, vale a rilanciare l’idea che il cinema di Stefania Sandrelli sia davvero un punto di osservazione privilegiato degli snodi della storia artistica e sociale del nostro paese; allora, grazie alla ricchezza dei materiali e dei rimandi presenti nel testo, possiamo tornare a contemplare lo sguardo di scorcio della diva alla maniera del Joseph Roth di Fuga senza fine: «come una meta e come una cosa perduta».


1 B. Balász, L’uomo visibile [1924], a cura di L. Quaresima, Torino, Lindau, 2008, p. 138.

2 Negli ultimi anni si registra un forte interesse verso temi, figure e opere di quello che può dirsi a tutti gli effetti un ‘cinema delle donne’, parafrasando uno dei testi che ha contribuito al rilancio di una storia della settima arte al femminile, cioè Le donne del cinema. Dive, registe, spettatrici (Laterza 2014) di Veronica Pravadelli. L’autorialità delle donne dietro, davanti e accanto alla macchina da presa non è più un tabù, come testimonia un ricco indice di studi: oltre al già citato contributo di Pravadelli, occorre segnalare almeno B. Luciano, S. Scaparro, Reframing Italy: New Trends in Italian Women’s Filmaking, West Lafayette, Purdue University Press, 2012; L. Cardone, C. Jandelli, C. Tognolotti (a cura di), ‘Storie in divenire: le donne del cinema italiano’, Quaderni del CSCI, 11, 2015; L. Cardone, S. Filippelli (a cura di), Filmare il femminismo. Studi sulle donne nel cinema e nei media, Pisa, ETS, 2015; G. Carluccio, M. Pierini (a cura di), ‘Miti d’oggi. L’immagine di Marilyn’, La valle dell’Eden, 28-29, 2015. A tale fermento partecipa con convinzione il collettivo FAScinA, Forum Annuale delle Studiose di Cinema e Audiovisivi, capace di produrre ricche iniziative scientifiche ed editoriali. Non è un caso che la Galleria del numero 8 di Arabeschi, Almeno in due. Donne del cinema italiano, nasca proprio dalla collaborazione con FAScinA.

3 R. Dyer, Star [1979], Torino, Kaplan, 2009, pp. 163-181.

4 B. Balász, L’uomo visibile, p. 156.

5 Cfr. F. Pitassio, Attore/Divo, Milano, Il Castoro, 2003.

6 Si legga a tal proposito il saggio di E. Rasy, Un’altra bellezza, pp. 11-13.

7 Si veda il contributo di R. Ventrella, L’invenzione della gioventù, pp. 45-50.