6.3. Valeria Bruni Tedeschi, quali ruoli per una donna moderna?

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Valeria Bruni Tedeschi, la cui carriera di sceneggiatrice, attrice e regista è ormai trentennale, è molto conosciuta e pubblicizzata in Francia come in Italia. In questo intervento vorremmo studiare il personaggio dell’attrice in quattro film, due italiani (La seconda volta di Mimmo Calopresti, 1995, e La pazza gioia di Paolo Virzì, 2016) e due francesi (La Vie ne me fait pas peur di Noémie Lvovsky, 1999, e Crustacés et coquillages di Olivier Ducastel, 2005), nei quali i ruoli interpretati dall’attrice variano dalla severa attivista politica alla figura di donna esuberante e luminosa. In che modo Valeria Bruni Tedeschi rappresenta la figura dell’eccentricità femminile? E come possiamo collegare l’eccentricità ad altre rappresentazioni del femminile da lei incarnate, come ad esempio il ruolo della madre, della pazza, della moglie? In primo luogo, metteremo in discussione la figura della ‘eccentricità’, che la si declini al femminile o al maschile, per poi analizzare il modo in cui Bruni Tedeschi interpreta i ruoli di madre e moglie e quali figure di donne moderne siano disegnate dal lavoro dell’attrice.

L’eccentricità è sovente collegata al dandismo, ovvero a un modo di vivere lontano da quello della gente comune, il vulgum pecus. L’eccentrico disprezza la morale ipocrita borghese e ne irride la seriosità e la compostezza. Di solito l’eccentricità è riservata agli uomini: alle donne non è consentito andare al di là del buon gusto tradizionale, e se lo fanno sono descritte come isteriche, pazze che devono essere rinchiuse in ospedale e curate con metodi cruenti, dalla doccia fredda all’elettrochoc. Il mondo femminile rimane quello ristretto e frustrante dell’orizzonte domestico, con il corsetto al posto del sigaro e il volto sempre sorridente al posto dell’espressione malinconica o del sorrisetto ironico. Quando è declinata al femminile, l’eccentricità vede la donna caratterizzata da una deformazione ridicola del dandismo: la parlata troppo rapida, i gesti marcati, la femminilità affettata mescolata a una buona dose di isteria. Anche al cinema l’eccentricità è pensata spesso come una prerogativa maschile. Ad esempio Raymond Chirat e Olivier Barrot nel loro libro Les Excentriques du cinéma français finiscono per dare più spazio agli attori che alle attrici; e queste ultime sarebbero, a loro dire, caratterizzate da sbalzi di umore, dall’incapacità di finire le frasi: ovvero da quelle caratteristiche che designano le donne come incapaci di portare a termine alcunché, discorsi, gesti, azioni, pensieri.

Nei film che analizzeremo i personaggi interpretati da Valeria Bruni Tedeschi pertengono a un’identità che per molti aspetti si avvicina all’eccentricità: sono donne ‘pazze’, ‘isteriche’, ‘anormali’, ‘da rinchiudere’. Lisa di La seconda volta, la madre di Émilie in La Vie ne me fait pas peur, Béatrix in Crustacés et coquillages e Beatrice di La pazza gioia sono quattro donne che si ribellano ai ruoli femminili tradizionali di casalinga, madre, sposa o ragazza da marito, con un’insistenza sulla loro sessualità, che appare – ovviamente − quasi impossibile da controllare. Sono tutte donne che devono essere incasellate e riportate, anche con la forza, alla ‘normalità’ della società [figg. 1-3].

In effetti la recitazione di Bruni Tedeschi gioca con molta finezza sul registro dell’esagerazione e riesce così a portare alla luce il non detto e il rimosso di una società che respinge chi si azzarda a contestare il modello soffocante del capitalismo borghese. Il suo volto è molto mobile, simile a quello di un clown; ma, fino a pochissimo tempo fa, i clown erano solo maschi. Ci scontriamo qui una volta di più con gli stereotipi di genere, che ritroviamo nelle tipologie di ruoli che vengono poi proposti alle attrici. Bruni Tedeschi ha saputo giocare con abilità con l’orizzonte di attese del pubblico, scegliendo ruoli in cui le è stato possibile esprimere una diversa dimensione sociale della femminilità. Ruoli ai quali si aggiunge una star persona estroversa, caratterizzata da una forte gestualità, da un’accentuata mobilità del volto che passa agilmente dal sorriso largo alle lacrime, la timidezza appena dissimulata dal trucco, abiti eleganti di taglio ‘maschile’ (tailleur pantalone, camicia stropicciata, pullover sulle spalle) o ‘femminile’ (abiti neri lunghi e scollati, abiti bianchi, di alta moda), come vediamo nelle interviste e cerimonie ufficiali, senza contare ciò che le riviste scandalistiche raccontano della sua vita privata – il legame familiare con Carla Bruni, la relazione sentimentale con Louis Garrel –.

I ruoli interpretati da Bruni Tedeschi nei quattro film scelti mostrano le contraddizioni e l’evoluzione della condizione femminile anche nei suoi risvolti politici, tradizionale bastione maschile. Sono personaggi che vengono definiti prima di tutto rispetto alla loro vita sessuale, come sempre accade per le donne, al cinema e nella realtà: madri e spose (i due film francesi), designate come tali nei cast & credits in Internet: «madre di Émilie» in La Vie ne me fait pas peur, «Béatrix, la sposa» per Crustacés et coquillages – anche se dobbiamo notare che lo stesso trattamento è riservato ai personaggi maschili. Entrambi i film sono costruiti su stereotipi. Nel film di Noémie Lvovsky l’attenzione si concentra sulle ragazzine, le quattro ‘moschettiere’ Émilie, Stella, Marion e Inès, adolescenti parigine della fine degli anni Settanta. Seguiamo le loro vite dagli anni delle scuole medie fino alla maturità, nelle loro relazioni con genitori, professori e ragazzi. Bruni Tedeschi appare subito nel film: è la piccola, bionda e paffuta madre di Émilie. Nella commedia di boulevard Crustacés et coquillages Bruni Tedeschi canta la canzone che dà il titolo al film e appare alla finestra della casa di vacanza con il marito, interpretato dal sex-symbol Gilbert Melki, al primo minuto del film. Nei film italiani, invece, il rapporto con la sessualità di Lisa (La seconda volta) e di Beatrice (La pazza gioia) è mostrato in relazione agli altri personaggi: la compagna di cella per Lisa, ex brigatista rossa in semilibertà, le compagne dell’ ‘ospedale psichiatrico a cielo aperto’ per Beatrice, donna altoborghese che ha portato la propria famiglia alla rovina con speculazioni immobiliari avventate e che ha un’alta opinione del «povero presidente» (Berlusconi), un «caro amico» e «uomo squisito» con cui ha fatto un bella crociera in Sardegna. I personaggi italiani sono definiti dunque anche in relazione alla politica: Lisa è un ex brigatista e Beatrice, al contrario, è una donna razzista e di destra.

Anche in un film sulla politica come La seconda volta la sessualità e le relazioni donne-uomini sono i temi che vengono subito in primo piano sia nei dialoghi tra i personaggi che nella rappresentazione. Quando Alberto (Nanni Moretti) segue Lisa, pensiamo subito a una storia d’amore, perché Alberto è stato presentato come un uomo introverso a cui la sorella cerca di restituire il gusto della vita facendogli conoscere donne sempre nuove. Lisa reagisce alle allusioni sessuali con fastidio, rifiutandosi di ascoltare. La sua responsabile, Adele, le chiede se ha notato l’anello al dito di Alberto (che si fa chiamare Giovanni per nascondere la sua vera identità a Lisa; e, dato che Nanni è il diminutivo di Giovanni, siamo di fronte a una mise an abîme che tende a fare di Alberto il portavoce dell’attore/produttore del film; difficile non pensare all’impegno politico a sinistra di Moretti). Lisa le fa cenno di no, così come non reagisce quando la compagna di cella le annuncia, disperata, che il suo amante, sposato e padre di famiglia, la ha lasciata. Lisa non sembra interessata alla sessualità; rifiuta di chiamare Giovanni per ringraziarlo dei fiori che le ha mandato e quando lui la segue con insistenza sull’autobus 63 gli spiega, infastidita, che c’è qualcun altro nella sua vita. L’atteggiamento di Giovanni è comprensibile e giustificato agli occhi dello spettatore, che sa che l’uomo è stato ferito da una pallottola sparata da Lisa e che la segue per cercare di trovare una spiegazione per quel gesto. Ma, dal punto di vista di Lisa, che non ricorda il volto dell’uomo che ha cercato di uccidere, si tratta di una molestia sessuale contro cui non sa difendersi. Così, a due terzi del film, alla stazione di Torino, quando Giovanni prende d’autorità il bagaglio di Lisa, che è in viaggio per Bologna (città simbolo degli anni di piombo) per raggiungere la famiglia, la donna resta passiva davanti alle accuse dell’uomo, che le rivela la sua vera identità; e allo stesso modo subisce senza fiatare l’aggressività di Alberto, quando finalmente parlano a cuore aperto, ma senza arrivare a capirsi, lei del suo passato e lui del fallimento degli ideali armati delle Brigate Rosse, che non hanno fatto altro che rafforzare il capitalismo selvaggio. Quest’incontro porta a un dialogo bizzarro tra la sorella di Alberto e il marito, che immaginano una possibile relazione sentimentale tra l’assassina e la sua vittima di un tempo, come se, nel 1994, la violenza politica potesse risolversi e dissolversi nel sesso. Possiamo vedere qui un’anticipazione della totale dissoluzione dell’impegno politico in una televisione e in una società altamente sessualizzate, nell’era Berlusconi? Lisa non fa altro che fuggire, ancora e sempre. Nel finale preferisce la prigione al reinserimento e rifiuta di parlare di nuovo con Alberto. Le resta la musica, quella del walkman che la compagna di cella, rimessa in libertà, le lascia in regalo. La società dei consumi come modo di scaldare il corpo al posto di una sessualità ormai sfiorita.

È una scappatoia che, più di vent’anni dopo, Beatrice rifiuta. È irritata dalla disinvoltura di Donatella, che si rifugia nel suo iPod ascoltando in continuazione la canzone che il padre ha scritto per lei − o almeno così pare – quando era piccola, rifiutando in questo modo di comunicare con Beatrice. L’autobus 63 (un’allusione a La seconda volta?), che le allontana dalla città, è sinonimo di libertà ma anche, per Beatrice, di nuovi incontri, più o meno riusciti, con la sessualità. La donna va a letto con l’ex marito, che la desidera ancora nonostante abbia una nuova compagna, più giovane di lui, e due figli. L’attrice domina la scena, il partner è un giocattolo per lei. La follia della donna permette, come spesso accade, di rivelare i disturbi altrui. Qui vengono alla luce la mancanza di carattere e i disturbi sessuali del marito di Beatrice. Quando la donna fa visita al vecchio amante, un pregiudicato agli arresti domiciliari, subito dopo aver visto il marito, il suo personaggio diviene pateticamente sublime. È una scena che avrebbe potuto cadere con facilità nel sordido e nella volgarità gratuita: una donna matura che offre dei soldi a un uomo un po’ più giovane di lei, lo supplica di tornare da lei e si umilia davanti a lui e alla nuova e giovane compagna, e che viene salvata solo dall’intervento di un uomo del popolo (l’autista del taxi). Ci sono tutti i luoghi comuni per un pubblico di sinistra: decadenza di una borghesia connivente con la criminalità, situazione tipica dell’era berlusconiana, debolezza femminile, virilità salvifica che viene dal popolo. Manca solo una musica extradiegetica sul genere della canzone T’appartengo, successo del 1995 della cantante Ambra, per cadere in un fotoromanzo per ragazzine. Ma l’interpretazione di Valeria Bruni Tedeschi alza il livello della scena. Il suo volto, che implora e sorride meccanicamente, e la sua presenza fisica danno forza e intensità alle sue suppliche. Come lei stessa ha dichiarato in un’intervista a Mick LaSalle: «Per molti anni ho combattuto contro il glamour […]. Non so perché. Forse era per una sorta di contrapposizione con mia sorella, ma penso ci sia qualcosa di più. Sentivo – in modo inconscio – di dover entrare dentro le emozioni, il dolore» (Lasalle 2012, 55). Anche quando il suo ex amante le urina addosso, lei conserva la propria dignità. Quella prova di virilità diviene ridicola e volgare: Beatrice appare intoccabile, perlomeno fisicamente. Non ridiamo di lei perché il regista ci ha messi accanto all’attrice. Beatrice è ripresa dall’alto quanto si china verso il marito addormentato, dal basso quando offre dei soldi all’ex amante. Sfortunatamente il film non le offre nessuna opportunità sessuale, e per questo la donna riversa tutto il suo affetto sublimato su Donatella.

La madre di Émilie possiede già, in potenza, il disgusto per la volgarità proprio di Beatrice. La scena in cui il marito canta canzoni da osteria e le tocca il sedere rivela il profondo malessere di lei, che ride nervosa, poi piange, mentre il marito le mette un imbuto sulla testa, come fosse una pazza da baraccone. L’angoscia di lei nei confronti della sessualità non viene mai resa esplicita, ma percorre tutto il film. È la prima donna/madre ad apparire sullo schermo ed è su di lei che il regista indugia più a lungo.

Béatrix, dal nome balzacchiano (il romanzo omonimo è del 1839), è una donna sensuale, ma questa passione per il sesso non è presentata come qualcosa di bizzarro tipico di una ninfomane. Non viene mai giudicata, né dagli altri personaggi, né dalla camera o da noi, anche se è vero che la sua sessualità multipla (marito e amante) è spiegata fin dall’inizio del film con la sua origine olandese, dunque con l’appartenenza a una società più permissiva di quella mediterranea da cui proviene il marito, imprigionato in un’omofobia e un’omosessualità/bisessualità di cui si vergogna. Il corpo dell’attrice è valorizzato dai colori caldi degli abiti, di taglio aderente e scollati. Il rosso (il costume da bagno, l’abito da sera) esprime la fiamma sensuale che ha dentro. L’assenza d’inibizioni e il desiderio di non complicarsi la vita le fanno rifiutare la proposta di matrimonio, molto convenzionale, dell’amante Mathieu. Precede la conclusione del film un breve dialogo tra Béatrix e Marc (due nomi che iniziano per «m» per i due uomini della sua vita, il che è molto pratico), che si chiude così: Béatrix: «La verità è che ti amo. A modo mio, ma ti amo». Marc: «Anch’io ti amo». Appare poi la didascalia «l’estate successiva», che ci mostra la felicità di tutti: Mathieu e Béatrix, Marc e Didier (l’idraulico, amante di Marc), Laura (la figlia di Béatrix e Marc) e il compagno, Charly (figlio di Béatrix e Marc) che aspetta la fidanzata Julie, nella stessa casa dalle persiane verdi. Didier chiede a tutti di cercare cosa sia cambiato in casa: è lo scaldabagno, elemento comico centrale della commedia. La famiglia biologica si è allargata, con il sorriso e senza drammi.

Altro dato importante è la maternità. Come ricordano Yvonne Knibiehler e Martine Sagaert, «Il mito della buona madre ha sempre nascosto una realtà sconcertante: ciò che chiamiamo maternità comporta una serie di sequenze che non sono necessariamente conseguenti tra loro e che le donne possono condividere tra loro» (Knibiehler e Sagaert 2013, 837). Così le quattro donne sono definite dal loro rapporto con la maternità, che fa di nuovo parte dell’identità femminile dopo la reazione negativa degli anni Ottanta. In teoria Lisa sarebbe esclusa dal gruppo, ma la vediamo acquistare un giocattolo al supermercato. In quel momento del film lo spettatore, che non sa ancora nulla del suo passato, è dalla sua parte. Sotto i portici di una via di Torino Lisa si volta a guardare una bambina accompagnata dal padre. Il suo desiderio di maternità si legge in filigrana e rassicura lo spettatore sulla «normalità» dell’ex terrorista.

Allo stesso modo Béatrix ci viene presentata come madre: ha un figlio, una figlia e un marito, nella tipica famiglia mononucleare, di quelle che si vedono nei telefilm e film per famiglie. Si occupa della casa, da buona casalinga degli anni 2000. Del resto non sappiamo quale sia la sua professione, e se ne abbia una. Discute regolarmente con il marito a causa dei figli; prende garbatamente in giro Marc, che non sopporta il ragazzo della figlia, ricordandogli che la ragazza ha ormai una sua vita sessuale. La donna si stupisce dei pregiudizi del marito, che nega l’omosessualità del figlio «perché gioca a calcio». La stolidità di Marc si sgretola lungo il film, fino a fargli raggiungere la tolleranza e l’apertura della moglie: riesce a riconciliarsi felicemente con la sua omosessualità pur continuando ad amare la moglie. Béatrix non deve più sopportare di essere stata amata, e di esserlo ancora, come «madre dei figli di Marc»; ma rifiuta comunque di dover pensare a tutto e si arrabbia con Charly, che reclama una volta di più la sua attenzione e il suo ascolto. La donna sottolinea, con i gesti e con il tono di voce esasperati, che una madre non può essere sempre a disposizione, sorridente e gentile.

La madre di Émilie è presentata come borderline, isterica, ma da dove nasce questo malessere? Ama la figlia, le costruisce delle marionette con le sue mani; poi, nella scena successiva, in sala da pranzo, prende la bambola della figlia, la fa mangiare, poi la prende in braccio dicendole «la mamma ti vuole troppo bene», poi piange. Il malessere viene subito a galla: il peso dell’amore diviene una minaccia per Émilie e per la madre, profondamente a disagio nel ruolo materno.

Beatrice si comporta come una madre per Donatella stando al parere della psichiatra della villa, che afferma che si tratta di una sorta di «bombing love» (un attaccamento possessivo e nocivo), ma benefico, poiché Donatella si apre di nuovo alla vita e ritrova la fiducia in se stessa. Beatrice fa da contrappeso all’influenza negativa che sulla giovane donna ha avuto la madre biologica, interessata solo ai soldi, al benessere e alle apparenze. Beatrice incoraggia Donatella a guarire e a essere una madre. Alla fine del film, quando Donatella esce dall’ospedale, Beatrice la aspetta, inquieta, fumando davanti alla finestra. È una scena che ricorda la fine di Il capitale umano (Paolo Virzì, 2014), ancora con Bruni Tedeschi, quando l’altoborghese Carla (!) osserva gli invitati del marito, rilassati e felici di aver guadagnato molti milioni alle spalle degli Italiani. Ma La pazza gioia si chiude su una nota di speranza: Beatrice e Donatella sono di nuovo insieme e hanno imparato ad apprezzarsi, mentre a Carla resta solo il collier di perle, dato che il figlio l’ha delusa e il marito si è rivelato un essere odioso.

Dunque questi ruoli disegnano la donna moderna come presa in molte trappole che, sebbene non si notino a prima vista, vengono alla luce proprio grazie al carattere eccentrico dei personaggi femminili.

Prendiamo in prestito il termine ʻpersonaggeʼ per discutere i ruoli delle donne moderne  e della modernità  interpretati da Valeria Bruni Tedeschi nei quattro film in questione. Nadia Setti definisce così il neologismo: «La personaggia (…) femminile è sostenuta dalla forza di una parola e di un corpo liberati dalla paura, dalla rimozione e dall’autocensura». Per quel che riguarda Lisa e la madre di Émilie, la loro parola non riesce a liberarsi del tutto, soltanto a tratti. È piuttosto una parola estirpata, sporadica, troncata bruscamente dalla fuga. Lisa va a trovare Alberto a casa di lui, dove vent’anni prima aveva cercato di ucciderlo. Prima fanno una passeggiata, poi cenano insieme. Lisa racconta la sua storia. Aveva conosciuto un ragazzo durante una manifestazione in cui la polizia uccise uno studente. Ha tenuto il revolver del suo ragazzo, poi è passata alla clandestinità. Alberto le dice che si tratta di una scusa, ma lei nega: sarebbe comunque passata alla clandestinità, avrebbe agito contro lo Stato fascista, anche se non avesse conosciuto quel ragazzo. Il peso della storia d’amore nella scelta del terrorismo da parte di Lisa è minimizzato, cosa che va contro il luogo comune della donna sempre pronta a seguire ciecamente l’uomo in politica, senza avere convinzioni personali. Alberto non mette in discussione la versione di Lisa ma critica aspramente gli slogan ideologici delle Brigate Rosse, in particolare «colpirne uno per educarne cento». Accusa Lisa e i suoi compagni di lotta di aver peggiorato la situazione economica e sociale, ma lei, ferma nelle sue convinzioni, non reagisce. Liberare la sua parola dall’autocensura che si è imposta da anni non le è servito a niente, dato che torna definitivamente in prigione. La madre di Émilie sa liberare solo emozioni del corpo – pianti, grida, pacche delle mani – che finiscono per portarla all’ospedale psichiatrico. Ci vorrà tutto il film, dunque diversi anni, perché sua figlia possa emanciparsi a sua volta da una madre troppo invadente, passando per due tentativi di suicidio, un’esperienza teatrale abortita, un sogno di successi scolastici (ispirato al film La favolosa storia di Pelle d’asino di Jacques Demy, in cui la madre recita il ruolo della madre del principe), diverse trasformazioni fisiche (piercing, capelli colorati, gioielli e borchie in stile punk) e, infine, l’incontro con il compagno, sul set di un film in costume, per finire in abito da sposa sullo sfondo di un cielo azzurro mentre risuona la canzone À toi di Joe Dassin. È la figlia a realizzare la vita felice che avrebbe dovuto essere di sua madre, sempre rinchiusa, dopo aver trasformato e deformato il suo corpo, ed essere amata malamente o non amata del tutto dalla madre. Émilie è riuscita a liberarsi del senso di colpa legato alla follia materna.

Béatrix e Beatrice sono simili per la loro mancanza di autocensura. Le due personagge devono tutto all’interprete che, secondo Mick LaSalle, «sembra avere la corporatura di un cavallo, ma il suo modo di esprimere le emozioni, intenso e saturo di sentimenti, la porta a disegnare sensazioni delicate» (p. 50). È questa mescolanza di corpo e anima che fa esplodere i codici della decenza e della buona educazione al femminile. Entrambe hanno un corpo che esiste e che non si lascia ignorare, per gli abiti e per la postura. Non torneremo sugli abiti, simboli della classe media (Béatrix) e borghese (Beatrice) e insieme del desiderio sessuale che le due donne portano dentro di loro e che mostrano agli altri. Sono femminili nel senso classico del termine, ovvero seguono i canoni della moda degli inizi del ventunesimo secolo: trucco, smalto, accessori (sciarpa, foulard, scialle, ombrello, ventaglio, gioielli), depilazione impeccabile. Né l’una né l’altra hanno i peli sotto le ascelle di Donatella, per riprendere il rimprovero sessista che Beatrice rivolge all’amica. Lo scollo è appariscente se non profondo, le gambe, abbronzate, sono esibite: un corpo seducente nella sua piena maturità. Il pubblico ne è affascinato al pari degli altri personaggi. L’attrice, allora, può giocare con finezza su tutta la gamma dei sentimenti. Esprime risentimento con il variare di profondità dello sguardo, la bocca che si solleva, si stira o si piega per un momento. La voce rauca toglie la parola a un molestatore, risolve una situazione o consola marito, amante, figlio, figlia putativa (Donatella), spiega il mondo, filosofeggia sulla definizione di felicità (La pazza gioia). Bruni Tedeschi appare in quasi tutte le inquadrature, è il filo conduttore del film e la sua ragion d’essere: senza di lei, cosa farebbero gli altri personaggi? Come e di che cosa vivrebbero? Di altre cose, ma così noiose e tristi…

A colpire in tutti i film è poi la volontà di controllo delle donne, del loro corpo e dei loro movimenti. Certo non è una novità, ma si potrebbe pensare che i movimenti femministi degli anni Settanta avessero creato spazi realmente condivisi. Ora, le nostre quattro eroine non possono muoversi liberamente, tranne Béatrix; se non fosse che quest’ultima non va oltre un perimetro ben delimitato e non sembra pensare mai ad abbandonare tutto (famiglia e amante) per vivere da sola. E il suo amante non la lascia partire da sola in bicicletta, dopo la loro conversazione sul matrimonio e sulle convenzioni sociali. Se cammina da sola o va in bicicletta è sempre allo scopo di ritrovare un uomo, che sia il marito o l’amante. La madre di Émilie attraversa gli anni Settanta e Ottanta rimanendo sempre imprigionata: prima dal marito, poi dall’istituzione psichiatrica, come Beatrice negli anni Duemila. Solo quest’ultima, come Lisa, ha la possibilità di cambiare spazio, restando nel quadro della legalità: Beatrice lavorerà come giardiniera, Lisa in fabbrica.

La Legge patriarcale rinchiude le donne in strutture carcerarie per poter domare il loro desiderio d’indipendenza, rifiutando così di dar loro un posto nella società che non sia quello di angelo del focolare. Non stiamo dicendo che la madre di Émilie, Lisa o Beatrice non siano responsabili dei gesti gravi che hanno commesso, ma ci interroghiamo sulla sorte riservata a queste donne, una di estrema sinistra (Lisa), l’altra di destra (Beatrice) e la terza senza una chiara opinione politica (la madre di Émilie). Non siamo lontani dalla reclusione imposta a Camille Claudel e a tutte le altre ʻistericheʼ di cui abbiamo parlato nella prima parte, tutte donne che sfidavano più o meno coraggiosamente la società. L’universo francese e italiano respinge senza pietà le donne che vogliono vivere al di fuori della cornice dettata dalle regole. Ma non tutto è perduto, perché nei film italiani appare una certa sorellanza. Una psichiatra e una religiosa prendono le difese di Beatrice, la direttrice della fabbrica dove Lisa lavora e la sua compagna di cella la apprezzano e la aiutano. Se il mondo non cambia più di tanto, almeno le donne si sostengono tra loro.

L’eccentricità al femminile resta ancora poco percettibile, se non in relazione all’eccentricità maschile. Valeria Bruni Tedeschi la rappresenta in quanto recita delle personagge fuori norma rispetto al femminile tradizionale, dolce, gentile e passivo. Valeria seduce facendo esplodere i confini della misura e del buongusto. Il suo aspetto spesso sexy riporta i personaggi maschili ai desideri primari e richiama l’attenzione del pubblico sull’aspetto carnale della nostra umanità, primitivo e finanche pericoloso perché portatore di conseguenze imprevedibili e sconvolgimenti interiori. La mobilità dell’attrice ricorda che le donne sono state a lungo costrette a restare immobili, vicino al focolare.

I tentativi delle sue personagge di cambiare il mondo si scontrano con un patriarcato implacabile e immutabile, che cambia solo superficialmente: la libertà sessuale esiste, per le donne, solo sul piano eterosessuale e nella coppia marito/amante (Beatrice), oppure vengono private della sessualità (la madre di Émilie), gli ideali vengono abbattuti senza pietà e la repressione capitalista è resa più forte anche nei suoi eccessi (Lisa e Beatrice). La constatazione amara di Alberto in La seconda volta è visibile soprattutto in La pazza gioia, dove solo i clochard hanno una visione lucida della decadenza della nostra società. La sessualità finisce per diventare un rifugio e un fine in se stessa (Béatrix e Beatrice), in un mondo individualista e centrato sui valori tradizionali: matrimonio, maternità, destini già scritti per le donne.

Valeria Bruni Tedeschi, con la sua recitazione e con un impegno a sinistra ben noto allo spettatore interpella quest’ultimo sulla società contemporanea e i suoi tabù, le sue regressioni, i pochi progressi e le molte costanti. L’attrice riesce a coinvolgere chi guarda i film e, indirettamente, a rivolgergli delle domande sulla sua stessa esistenza. L’interesse per l’eccentricità di Bruni Tedeschi sta nel suo riuscire a far esplodere il bon ton, a far esultare il corpo e, infine, a far trionfare un senso di felicità, nonostante i tempi bui.

 

 

Bibliografia

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