7.3. Di lei solo il nome. Elementi critici per una rilettura di Anna

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An(n)a/gram è il titolo del progetto (ancora in realizzazione), basato sulla ʻre-visioneʼ delle bobine inedite del film Anna di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli (1972-1975), che il collettivo Out 1, fondato dall’artista viennese Constanze Ruhm e dal filmmaker parigino Emilien Awada, ha presentato alla nona edizione del Fid Lab di Marsiglia (svoltosi all'interno della ventottesima edizione del Fid Festival, a luglio 2017). Il lavoro, che si sviluppa intorno alla protagonista del film storico considerandola come un enigma irrisolto (è ciò che d'altra parte il titolo annuncia), mira a cogliere il generale dal particolare, finendo per interrogare, attraverso lo studio degli archivi inediti, diverse “storie” legate al periodo degli “anni di piombo” in Italia: il femminismo, la politica, la storia dei media e della comunicazione. Dunque ʻl’anagrammaʼ evocato dal titolo riguarda ed indica il gesto stesso del riuso, il puzzle dei frammenti preposto alla ri-attualizzazione di una storia, di più storie, suggerite e sospinte dalla recrudescenza di un’immagine, quella per di Anna. La ricerca di Ruhm e Awada, che seguo da lungo tempo e che ha ispirato la stesura di questo testo, mi sembra che porti ad interrogarsi su due ordini di domande, uno che si staglia su un piano sincronico (quello della contemporaneità: perché e come tornare a parlare di Anna oggi?), un altro che si proietta su un piano storico o diacronico, che riguarda Anna ed alcune questioni, come la presa di parola (d’altra parte l’elegante calembour nel titolo di Out 1 si presenta come una specie di risposta ad una forma di interpellazione), che a mio avviso meriterebbero di essere ancora approfondite: chi parlava, di cosa e perché nel film di partenza?

Vorrei quindi iniziare con una ʻnota ortograficaʼ, ponendo una distinzione tra l’Anna in corsivo, che userò per indicare il titolo del film di Grifi e Sarchielli, e l’Anna in tondo, lettera A maiuscola, cui farò riferimento per indicare il nome della protagonista. Semplicemente ʻAnnaʼ (palindromo la cui nettezza svanisce di fronte all’identità che rincorre), sovrapposto al volto di un personaggio ʻschiacciatoʼ dentro al formato che lo ha reso celebre: immagine video sgranata in bianco e nero, poi gonfiata in 16mm per la prima proiezione pubblica [fig. 1]. Un’immagine che è sintesi di passato e moderno, punto di fuga verso un momento di passaggio tra il film, la pellicola e tutto ciò che verrà dopo, conclamato a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Più di quarant’anni sono trascorsi dalla realizzazione dell’opera che era, e continua ad essere, il documento sperimentale di una metamorfosi sociale, politica ed estetico-culturale. Il progetto debuttava con l’intenzione di fornire una rappresentazione plastica del mutamento, dando una voce ed un corpo visibili alla generazione dei ʻgiovaniʼ degli anni Settanta, tra virgolette perché l’umanità balzachiana (o pasoliniana, come si preferisce) messa in scena dai registi appare talmente variegata da essere irriducibile ad una definizione univoca, in primo luogo anagrafica. Tuttavia, se fosse possibile trovare un bandolo, il minimo comune denominatore capace di agglutinare i destini di quelle ʻragazzeʼ e di quei ʻragazziʼ, andrebbe cercato proprio nella decostruzione, ovvero nel desiderio primario di identificarsi con ciò che ʻnon eraʼ. Non era lo Stato, non era il potere o la ricchezza, non era la bellezza (intesa come codice estetico esclusivo, eterno ed immutabile), non era la salute (intesa come effetto di un dispositivo di controllo sociale normalizzante e purificatore), non era la differenza tra i generi o tra le classi (cioè la struttura, la base di supporto dell’oppressione culturale e politica).

Il non-essere e la non-parola (ossia la parola politica, disturbante, arrabbiata, esplosa in mille dialetti e slogan durante le quattro ore del film originale) descrivono l’umanità e la potenza deflagrante dei protagonisti di Anna. Un non-essere brulicante di vita che si annidava intorno a due spazi reali (Piazza Navona a Roma e la casa di Massimo Sarchielli) e ad alcuni spazi soltanto evocati e ricostruiti nella narrazione. Il FilmStudio, quartier generale di Grifi (dove verrà elaborato il ʻvidigrafoʼ, macchinario che permetterà la trasfusione dal video alla pellicola per la prima proiezione), l'Ospedale, in cui Anna porterà a termine la propria gravidanza, la Francia, la Sardegna e il Piemonte, ovvero i luoghi che ricostruiscono la mappa immaginaria, i ʻcapitoliʼ del racconto della sua vita disgraziata (dalla nascita, all’abbandono, ai soprusi subiti in orfanotrofio, dalle suore e anche per strada). ʻCapitoliʼ perché Anna effettivamente nasce come personaggio immaginario, già incastrata come Anna, prima dalla penna di Sarchielli, poi dalla videocamera di Grifi. La storia è già nota ma merita di essere ricordata: Sarchielli incontra casualmente a Piazza Navona una ragazza alla mercé della propria incoscienza (incinta, minorenne, tossicodipendente) e ne fa la propria eroina tragica. Immolata come il pharmakon di Derrida, allo stesso tempo medicina e veleno, capro espiatorio costretto ad assumersi la responsabilità del proprio compito, la giovane viene ascoltata, poi la sua storia è trasformata in scrittura. Sarchielli stende un canovaccio (una sceneggiatura, in un certo senso) e lo propone ad Alberto Grifi, che nel frattempo si adoperava per cercare forme (in realtà prossime più al documentario o al cinema diretto che alla fiction) che purificassero il suo linguaggio dai ‘sortilegi’ del capitale e dell’industria cinematografica. Grifi impiega mezzi all’avanguardia ma gioca il gioco di Sarchielli. È complice nel portare a casa Anna (dove il ʻcoroʼ dei ragazzi di Piazza Navona si raggruppa per discutere di politica intorno alla giovane) e nel convincerla a recitare, ad incarnare, e ricostruire gli episodi che l’hanno resa sé stessa: pària della società, anzi prodotto drammaticamente perfetto della società che tutti quelli che non sono – o meglio tutti quelli che non vorrebbero essere – combattono e vogliono smascherare. Apparentemente senza parola e corpo propri, Anna viene espropriata di sé stessa per diventare ʻmedicinaʼ: avvicinata, respirata e assorbita, fornisce a tutti (i registi, il coro) il pretesto per farla oggetto di progetti e discorsi che nobilitano i loro propositi tanto quanto non la riguardano, perché lei non li comprende. Lei ha fame, sonno, voglia di sussurrare, voglia di drogarsi e di carezze. Tuttavia, lentamente Anna si rivela anche ʻvelenoʼ, perché il progetto sfugge di mano a tutti. Affermando il diritto di non essere come il film la vuole, cioè rifiutando di interpretare la sua parte (Grifi ammetterà alla fine che era «diversa da quella che noi volevamo che fosse»), Anna rimescola le carte, svela l’incapacità dei suoi mentori, drammaticamente e forse inconsciamente trasformati in ʻpadri e padroniʼ, di ribaltare ruoli, condizioni e destini. In tal modo il racconto, sotto la pestilenza di questo veleno, si frammenta fino a sfaldarsi: il non-essere e la non-parola propri di tutti tranne che di Anna, si ripiegano su sé stessi e, come sotto l’effetto di una forza centripeta, si trasformano nell’essere e nella parola di personaggi fittizi, simili a quelli reali che andavano combattendo. Mentre Anna, come spinta dalla propulsione di una forza centrifuga, dopo aver rifiutato di recitare la propria vita riscritta, nell'ultima parte che il film ci mostra, rifiuta anche di essere e ripresa mentre dà alla luce sua figlia; fugge nell'ombra, così come il pharmakon derridiano si inerpica nei boschi fuori dalla città, lontano dalla vista e dall’udito, impedisce alla troupe di recarsi all'ospedale, diventa rapidamente irreperibile, rifiuta l'amore di Vincenzo (ex operaio Pirelli, poi elettricista sul set), per annullarsi nel vuoto che l'ha creata e da cui è emersa.

In questo rifiuto di essere Anna, Anna è l'unica che effettivamente riesce a compiere il proprio destino, la cui riuscita non sta nella condanna all’emarginazione (alla morte?), ma nella forza di una scelta, forse la prima (l'unica?) consapevole della sua vita: quella di votarsi ad un’esistenza da medium e da fantasma, lo stesso che continua ad aggirarsi nel nostro immaginario da quarant’anni a questa parte. Per tornare al quesito iniziale, Anna è dunque la sola che nel film parli davvero, e lo fa sacrificando, anzi espandendo, la propria carne nel tempo. Lasciandoci la sua immagine espropriata, Anna si tramuta, per metonimia, in una ʻdivinitàʼ capace di raccontare il passaggio tra due epoche e così anche la storia dei media, ricordandoci che la materia (impalpabile, silenziosa) si trasforma, e che può restare solo in forma di pezzo, di frammento, di un insieme che muta.

Ecco il senso che riscontro nel lavoro sugli archivi di Constanze Ruhm e Emilien Awada: non soltanto un’attività da archeologi e storici, ma anche e soprattutto un lavoro che valorizza il potere della risposta e della decostruzione, del mutamento e della metamorfosi, rendendo pieno e parlante quel fuori campo che Anna con la sua scelta ha aperto e (inconsciamente) ha saputo far brillare come eternamente radicale.

 

Bibliografia

J. Derrida, La Farmacia di Platone, Milano, Jaca Book, 2007.

R. Kushner, ʻLa sparizione di una donna in rivoltaʼ, Alias (Il Manifesto), 22 dicembre 2012, pp. 2-4.

 

Sito dell'associazione culturale Alberto Grifi: http://www.albertogrifi.com/home

Pagina internet del Fid Lab 2017 relativa al progetto intitolato An(n)a/gram del collettivo Out 1: http://fidmarseille.org/index.php/fr/?option=com_content&view=article&layout=edit&id=2417

Sito di Constanze Ruhm: http://www.constanzeruhm.net/portfolio/projects.phtml