9.2. Il silenzio della madre: appunti su Rina Morelli tra teatro e cinema

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Ho scelto come dato di partenza il silenzio, perché è davvero la nota dominante quando ci si accosta a Rina Morelli (1908-1976), interprete fra le più rappresentative del Novecento, primattrice di Luchino Visconti per oltre vent’anni, ma figura di rilievo anche in rapporto alla storia culturale del nostro paese e alla presenza delle donne nel teatro. Silenzio in un duplice senso: dell’attrice sul proprio lavoro e dei testimoni che la videro in scena, che ci hanno lasciato la traccia della loro emozione di spettatori, ma non la memoria delle sue pratiche di preparazione e delle sue tecniche di esecuzione, pur riconoscendola fra le grandissime, soprattutto in teatro. Il cinema, infatti, l’ha vista soprattutto in veste di caratterista in particolare nei ruoli di madre (spiccano, nella sua filmografia piuttosto lunga, le prove con Curzio Malaparte, con Mauro Bolognini e naturalmente con Visconti). Assumere il silenzio non come un vuoto o un’assenza, ma come un altro piano di discorso che ci provoca a un’indagine trasversale, è una pista metodologica che ricavo dal lavoro di ricerca del gruppo “Divina”, in particolare dal volume Arte femminile in scena, curato da Barbara Lanati e Paola Trivero nel 1995. Per le giornate di Fascina 2017 ho proposto due ambiti di riflessione: il primo ha riguardato il tipo di espressività di Morelli e alcuni elementi della sua drammaturgia d’attrice; il secondo, distinto anche se intrecciato al primo, ha esaminato alcune sue figurazioni di madre, cioè il tipo di ‘performance del materno’ realizzato da Morelli soprattutto tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento.

 

1. L’arte di sparire

Il tentativo di scrivere la vita di una donna, come recita il titolo del bel libro di Carolyn Heilbrun, nel caso della Morelli si fa particolarmente arduo non solo perché ha parlato pochissimo e non ha scritto quasi nulla, ma soprattutto per il tipo di autorappresentazione, per il racconto di sé che ha destinato alla scena pubblica. Morelli, infatti, ha offerto una ‘maschera’, una vera e propria figura virtuale che si conferma dall’una all’altra delle non numerose interviste che ci rimangono di lei. Potremmo intitolare questa autorappresentazione L’arte di sparire. Prima di procedere, però, occorre ricordare qualche dato preliminare. Rina Morelli apparteneva a un’antica famiglia d’attori la cui storia si fa risalire al Settecento e forse oltre. Era una figlia d’arte nel senso più antico e profondo del termine. Quando lavora per la prima volta con Visconti nel 1945, questi non forma certo una debuttante, ma stringe un sodalizio con un’attrice di primo piano. Già alla fine degli anni Trenta Morelli ha il nome in ditta con Memo Benassi, che è stato l’attore di prosa fra i più importanti della sua generazione. Prima, fra le sue altre esperienze sceniche, lavora con i grandi registi stranieri di passaggio in Italia (Max Reinhardt e Jacques Copeau). Dopo Benassi, entra nella compagnia stabile del Teatro Eliseo di Roma, dove incontra Paolo Stoppa che sarà il suo partner scenico della vita.

Tuttavia, Morelli ha voluto offrire di sé un racconto che oggi ci appare profondamente autosvalutante, quello della donna debole, paurosa, timida, eterodiretta, ‘un’attrice per caso’, immagine che non collima con l’evidenza dei risultati scenici. Quasi tutti gli osservatori hanno finito per assecondare questo ritratto della piccola donna cui è stato consegnato un dono di cui è a stento consapevole. Gerardo Guerrieri, per esempio, parla di lei in termini quasi magici, come di un idolo che dopo la cerimonia (lo spettacolo) torna a essere di legno, di pietra, cioè muta. Certo, creare distanza è una delle strategie della costruzione divistica, ma qui siamo di fronte, io credo, a un’altra dinamica. Per leggerla, più che gli strumenti della storiografia dello spettacolo, possono venirci in aiuto quelli della psicanalisi. Penso, infatti, che il ‘mascheramento’ di Rina Morelli possa essere decifrato nel senso proposto da Joan Riviere nel suo classico La femminilità come travestimento (1929), ovvero servirsi di una caricatura di femminilità, in questo caso di modestia e fragilità, per celare il possesso di un potere, di un’ambizione ‘virili’. La determinazione a ‘sparire’, insomma, diventa un diaframma per la difesa del proprio territorio di autonomia e di creatività, e per essere rispettata all’interno di un mondo difficile come quello del teatro e in generale della società italiana del suo tempo. Oriana Fallaci, a sua volta donna ‘virile’ anche se in tutt’altre forme, ha intuito questa dinamica definendola una «diva», ma soprattutto una «donna fraintesa». Ugualmente, non stupisce che, fra le poche immagini sul muro di casa Morelli, pare vi fosse un ritratto di Marilyn Monroe.

In questo territorio del silenzio dobbiamo collocare anche la sua mancanza di vocazione pedagogica, se non per le tracce lasciate su alcune compagne di lavoro (penso, in particolare, a Lucilla Morlacchi). Negli anni Sessanta, poi, anni della presa di parola delle donne, dell’affermazione della centralità del soggetto creativo femminile, in cui il mandato politico è il Taci anzi parla di Carla Lonzi, il silenzio di Morelli diventa un ostacolo anche esistenziale difficilmente superabile per la trasmissione del suo patrimonio di tecniche e immaginari; senza contare che lo spazio di rinnovamento della lingua teatrale delle donne è identificato, in questi anni, in contesti di militanza lontani dal teatro di rappresentazione e di regia in cui opera Morelli (per un quadro delle specificità di tale rinnovamento segnalo la ricerca di Roberta Gandolfi, Francesca Fava e Maia Giacobbe Borelli Donne di teatro a Roma ai tempi della mobilitazione femminista, nell’ambito del progetto di storia orale ORMETE). Al momento, stanno emergendo riferimenti al lavoro tecnico di Morelli in generazioni d’attrici lontane dal suo tempo. Alludo in particolare a Maria Luisa Abate della compagnia Marcido Marcidoris & Famosa Mimosa, che studia Morelli e Carmelo Bene allo stesso modo, usandoli cioè come trainer vocali, indipendentemente dal fatto che Abate non sia un’attrice di rappresentazione come invece è stata Morelli.

 

2. Tracce stilistiche

Dalla sua storia pre-Visconti estraggo due momenti. Il primo è da La rappresentazione di Sant’Uliva diretto da Jacques Copeau (1933). Morelli è la Vergine Maria, un personaggio da segnare mentalmente, perché qui troviamo una delle prime modellazioni di una figura – la madre amorevole – che assumerà un peso decisivo sia in teatro con Visconti sia al cinema [fig. 1].

Il secondo esempio è La scarpetta di vetro di Molnár con Benassi nella stagione 1937-1938, dove Morelli è la Cenerentola protagonista. Anche questo personaggio è da segnare, perché il ‘cenerentolismo’ sarà un’altra delle figurazioni tipiche di Morelli con Visconti, benché riveduto e corretto in chiave tragica. I critici segnalano già una sua specificità linguistica, quella cioè di muoversi tra ‘verosimiglianza’ e ‘metafora’, tra una concretezza di dettagli, all’occorrenza anche «stridenti» come scrive Leonida Rèpaci, e una spinta verticale, un’elevazione poetica verso i territori del sogno e della fiaba. È la forma che l’attrice porterà a Visconti e che questi userà per il suo peculiare realismo, cambiando quel sogno in incubo.

Consideriamo il corpo, il materiale concreto di cui si serve l’attrice. Morelli non ha il personale tipico della primadonna. È un corpo in un certo senso ‘insignificante’ (ragione del suo non aver sfondato al cinema, diceva). Questa fisicità, però, le permette di ‘performare’ tutta la sfera delle passioni, del desiderio, del sesso portandola su un piano mentale, non veicolandola attraverso una carnalità esplicita e ingombrante. È un corpo che sta prima, dopo e oltre il sesso: il corpo delle vergini, delle madri e delle ossessive (le maniache o le ‘matte’), che sono appunto le sue tre macro-figurazioni. Anna Magnani rappresenta la sua antitesi sul piano espressivo e dell’immaginario del materno, e per certi versi anche dal punto di vista esistenziale.

Raramente la mimica facciale di Morelli è accentuata, il viso tende a essere fermo. Uno dei suoi grandi strumenti di lavoro è lo sguardo. Ha un modo proprio di sbarrare gli occhi nelle crisi, di usare lo ‘sguardo perso’ per suggerire il lavorio mentale del personaggio, di socchiudere le palpebre – lo fa spessissimo – per dirigere l’attenzione dello spettatore verso l’interiorità del personaggio e la sua situazione emotiva. Il corpo è di norma composto, non è un’attrice ‘cinetica’. Il modo sostanzialmente naturale di stare in scena è contraddetto, in precisi momenti, da gesti ‘tenuti’, soprattutto il pugno [fig. 2], e da pose fisse che, con la loro artificiosità, esprimono una forte intenzione significante, chiedono di farsi leggere e decodificare. Le torsioni o le cadute all’indietro, per esempio, sono usate nei momenti apicali, in modo che siano il chiarimento visivo di una crisi irreversibile.

Nella cena con Raf Vallone in Il Cristo proibito di Malaparte (1951), dove l’attore interpreta il figlio di Morelli tornato dalla guerra, è possibile osservare in sequenza, quasi al completo, la gamma di tali comportamenti scenici e strategie espressive.

Questa gestualità didascalica, da statua vivente serviva, soprattutto, ai personaggi contemporanei amati da Visconti, per collocarli su un piedistallo tragico e conferire loro una speciale aura mitica. Un esame a parte meriterebbe la voce (Morelli è stata anche una famosa doppiatrice), una voce tanto ‘materica’, in cui si percepisce la concretezza del corpo nel lavoro di amplificazione e respirazione, quanto limpida, che può esplodere in impennate improvvise, in vere e proprie elevazioni di potenza che, pur rimanendo profondamente dentro la linea del personaggio, producono effetti da grande cantante.

Se Visconti è stato fondamentale per lo sviluppo del linguaggio della Morelli soprattutto per quel che riguarda il repertorio, la Morelli non di meno è stata decisiva per lui, perché con la sua autorevolezza scenica e l’estrema raffinatezza del suo gioco recitativo riusciva a far accettare a molti critici, soprattutto a quelli del PCI vicini a Visconti, le sue scelte considerate poco ortodosse sul piano dell’ideologia e della rappresentazione del sesso. Appunto il sesso, visto anche nelle sue forme più torbide e inquietanti, era per Visconti una necessità tanto espressiva quanto politica, per la carica di verità e per gli esiti liberatori che i suoi spettacoli teatrali sapevano portare dentro il conformismo della società italiana.

Ho già accennato che, nel territorio drammaturgico della Morelli, si impongono tre grandi forme del femminile: le ossessive, le fanciulle-angelo, le madri. Le ‘ossessive’ sono le ‘idealiste’ totalmente assorbite dalla loro causa (l’Antigone contemporanea di Jean Anouilh, 1945, fig. 3) o le ‘fate cattive’ come le chiamerebbe Jung, madri mancate o degeneri, sessualmente sregolate, che sono l’altra faccia dello stereotipo, l’immancabile lato abissale e notturno del materno angelicato (Un tram che si chiama desiderio, 1949 e 1951). Le ‘fanciulle-angelo’ possono prendere le sembianze di ‘vergini malinconiche’, come Laura, la sorella problematica di Zoo di vetro di Tennessee Williams (1946), per la quale la Morelli rielaborava il coté favolistico e fiabesco dei suoi personaggi pre-viscontiani (il ‘cenerentolismo’ di cui sopra) calandolo in un contesto contemporaneo senza lieto fine [fig. 4]. Ma gli ‘angeli’ sono soprattutto le ‘fanciulle salvifiche’ e compassionevoli per un soggetto maschile in piena crisi identitaria (fra queste, la prostituta santa di Delitto e castigo 1946, Sonia di Zio Vania 1955, sempre con regia di Visconti e sempre con Paolo Stoppa come partner scenico).

Gli ‘angeli’ della Morelli sono già forme della madre, cioè della sua modellazione cardine con e oltre Visconti. Forse l’espressione più compiuta e quintessenziale è quella della madre-moglie Linda Loman di Morte di un commesso viaggiatore (1951 e 1956, il protagonista è Stoppa, la regia di Visconti, fig. 5), come suggerisce questo promemoria che le arriva da Visconti [fig. 6].

Morelli modella un’icona atemporale di madre amorevole e accudente, una Vergine Maria laica, una dea benevola del sacrificio e della sopportazione, artista delle lacrime silenziose, del sospiro, dello scontro trattenuto, attraverso una comunicazione non verbale fatta di sguardi, di attese, di gesti un po’ disegnati (oltre che nell’adattamento televisivo di Morte di un commesso viaggiatore diretto da Sandro Bolchi nel 1968, tracce di questa costruzione del materno sono rintracciabili al cinema, per esempio in Nozze d’oro, episodio del film Cento anni d’amore di Lionello De Felice, 1954, film non del tutto riuscito, ma interessante sul piano del lavoro attorico).

Anna Magnani è la madre-belva, corporea, erotica, rumorosa, divorante, una madre-terra: la sua linea drammaturgica è quella di Medea e di La Lupa (a teatro diretta rispettivamente da Menotti nel 1966 e da Zeffirelli nel 1965), del film Bellissima di Visconti (1951) e di Mamma Roma di Pasolini (1962). È sufficiente una ricognizione anche solo panoramica dei suoi segni perché emergano le profonde differenze rispetto a Morelli, a cominciare dalla bocca spalancata di Nannarella in una risata o in un grido che arriva dalle viscere. La maschera di Morelli è del tutto opposta, la sua linea è quella di Antigone, delle figure cechoviane e appunto della Vergine Madre.

L’operazione di Visconti è servirsi delle specificità di Morelli per la sua riflessione sul grande stereotipo unificante e rassicurante della madre, immagine profonda d’italianità che attraversa il secolo, da D’Annunzio a Pirandello e Fellini, dai cattolici al PCI. Negli anni Cinquanta il discorso aveva acquistato vigore per «il bisogno di nuovi miti coesivi nella ricostruzione dell’identità collettiva in un’Italia traumatizzata dalla guerra e più che mai divisa», scrive Marina D’Amelia. Sono anni di rilancio e di analisi dell’immagine ideologico-culturale della madre come base, nel bene e nel male, del carattere nazionale italiano. Un rilancio compiuto attraverso il cinema popolare (si vedano gli studi di Lucia Cardone e di Emiliano Morreale), attraverso l’elaborazione di scrittori e studiosi (il celebre saggio polemico di Corrado Alvaro Il mammismo, che associa materno e animalità, è appunto del 1952; le analisi di Ernst Bernhard sulla Grande Madre Mediterranea escono agli inizi degli anni Sessanta), e, ancora, sul piano teologico e devozionale (nel 1950 papa Pio XII proclama il dogma dell’Assunzione, cui si riallaccia Carl G. Jung con il suo fondamentale studio sull’archetipo del materno, nella revisione del 1954).

A questa figura sacrificale e luminosa di ‘angelo-madre’ incarnata da Morelli, a questa zattera per identità in crisi, si chiede di ricomporre i diversi orientamenti e di farsi argine alle incognite e ai conflitti della contemporaneità. Tuttavia, il lavoro di Morelli mostra tutta la pervasività del dispositivo culturale in atto visto anche nei suoi risvolti più retorici, proprio nell’accentuare certi segni recitativi: gli occhi socchiusi, le lacrime, la voce spenta in sussurro o rotta nel grido, le immobilità da quadro sacro, i gesti di cura o di contenimento rivolti al compagno-figlio.

La recitazione della Morelli rimane esemplare per la sua capacità di rendere trasparente lo stereotipo nelle sue evidenti dinamiche oppressive: le sue fanciulle e le sue madri, innalzate su un piedistallo di solitudine, sono delle condannate che portano il peso con coraggio, ma con lo stesso entusiasmo di un personaggio in catene. Attivamente presenti durante la guerra e la Resistenza, e ottenuto il diritto di voto nel 1946, per le donne arriva, negli anni Cinquanta, un chiaro rappel à l’ordre sul piano delle richieste di genere, di cui questa mitizzazione del materno è un’articolazione. È ormai tempo di restituire alla Morelli la sua voce critica, cioè di riconoscerla come l’agente di una riflessione penetrante oltre che precoce sui modelli culturali e di genere, una riflessione che l’attrice ha offerto non mediante un’esplicita elaborazione teorica, ma nella concretezza dell’atto recitativo.

Da questi primi appunti dedicati alle modellazioni tragico-drammatiche della madre ho dovuto escludere il ricchissimo filone comico di Morelli, che ha rappresentato il rovesciamento parodico e la conferma delle dinamiche descritte sopra. La riflessione morelliana sugli stereotipi femminili è proseguita, infatti, sotto il segno del comico tra gli anni Sessanta e Settanta con le sue mogli/bambine (per esempio, la Principessa di Salina in Il Gattopardo viscontiano del 1963) e con le sue variazioni della ‘svampita’ (fra queste, “Sempre Tua” nei duetti radiofonici con “Eleuterio” Stoppa in Gran Varietà, 1966-1974).

 

 

Bibliografia

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