Pour voir tous les yeux réfléchis
Par tous les yeux
Paul Eluard
Nella trama disegnata dall’ultimo romanzo di Alessandra Sarchi, L’amore normale (Torino, Einaudi, 2014) ‘il dolce rumore della vita’ quotidiana di Laura e Davide e delle loro figlie, Violetta e Bettina, è stravolto dall’esperienza del tradimento più o meno casuale e reciproco dei due coniugi. Il titolo prende spunto da una battuta del film di Ettore Scola Dramma della gelosia (1970), che fa da Leitmotiv a tutta la storia («allora, io e lui, si amavamo normalmente») e che Fabrizio, un tempo fidanzato e ora neo amante di Laura, cita diverse volte: questo il primo dei rimandi visuali che sostiene la semantica del testo. Il tradimento che interrompe la routine dei protagonisti fa probabilmente parte della normalità cui allude il titolo, nella ripresa della trama da romanzo d’appendice o da dramma borghese, come è già stato notato da più parti. Anche se, nella seconda parte del romanzo, l’intenzione di Davide e Laura è quella di sfidare la ‘norma’ provando a far convivere tutti insieme, famiglia e amanti compresi, in vacanza nella casa al mare.
Il plot esibisce, dunque, una materia usurata, ma ciò che costituisce l’elemento più affascinante di questo romanzo è l’invenzione di un dispositivo diegetico multifocale. La storia rimbalza, infatti, da un personaggio all’altro, evolve e si aggroviglia nel passaggio del gomitolo da Laura a Davide, da Davide a Mia (la sua amante), e così via fino a penetrare in altre case e a incontrare l’esistenza di altre famiglie. I personaggi in realtà non si passano la parola ma lo sguardo sulla storia, che si compone dei pezzi di uno specchio andato in frantumi, ciascuno dei quali riflette una scheggia della vicenda, accompagnata dalla differente percezione che ognuno dei protagonisti ha della propria e della altrui vita. A ripensarci, quel che stupisce maggiormente è proprio il fuoco incrociato degli sguardi, e insieme ad esso la staffetta delle voci interiori, che funziona in perfetta sincronia. L’autrice sembra non parteggiare per nessuno dei protagonisti, riversa su di loro un amore incondizionato, estraneo a ogni forma di giudizio morale e interessato unicamente a comprendere le ragioni delle loro scelte, a intuirne le conseguenze.
Di fronte a un racconto interamente affidato al flusso di pensieri dei personaggi ci si domanda dove sia situato lo sguardo di Alessandra Sarchi, come faccia a nascondersi e mimetizzarsi fra tanti io narranti, come sia capace di restare fedele alla volontà di essere tutti i suoi personaggi. Le brevi cornici extradiegetiche che introducono i due tempi in cui è scandita la storia, descrivono la scena dall’esterno e conducono il lettore a guardare dentro la casa dei protagonisti all’inizio della prima parte, e dentro la villa al mare nella seconda. Per il resto la narrazione è affidata a una ‘prima persona’ che prende il volto, il corpo, la voce e lo sguardo di ciascuno dei personaggi. Soltanto piccoli indizi, disseminati e celati dal punto di vista di Laura, Davide, Giovanna e Violetta, lasciano intravedere la presenza della scrittrice. Si tratta soprattutto di alcuni brani ecfrastici che sembrano anticipare o almeno riflettere lo svolgimento della vicenda. Il primo riguarda la descrizione del quadro di Primaticcio che ritrae Ulisse e Penelope, ritrovatisi dopo anni nel letto nunziale.
Laura e Davide lo osservano mentre visitano una mostra del pittore bolognese e rimangono a interrogarsi sul gesto di Ulisse che accarezza il mento della moglie, come a cercare nello specchio del dipinto il senso delle parole che di lì a poco si diranno confessandosi il tradimento reciproco. «Chiunque si fosse trovato davanti, si sarebbe sentito anche dentro quella scena, sul bordo del loro letto»: la percezione che Davide ha del quadro di Primaticcio rivela, come una mise en abyme, la vera storia che Sarchi ci sta raccontando. Ma occorre raccogliere gli altri indizi visuali per provare a scioglierne il senso.
L’ekphrasis della Joie de vivre di Matisse, presente nella seconda parte, esalta la funzione speculare della pittura. Giovanna, la proprietaria della casa al mare dove si trasferiscono i protagonisti, nonché unica spettatrice del loro dramma familiare (la dimensione teatrale è esplicitamente sottolineata in più occasioni), tenta da anni di riprodurre il capolavoro di Matisse in una parete della sua camera da letto.
Il programma che si è imposta prevede che ogni estate sia dedicata a uno dei personaggi che animano la tela, ma la coppia in primo piano l’ha tenuta impegnata a lungo e ora ha deciso di lavorare al «gruppo che danza in fondo al bosco». Le sei figure vengono subito identificate come le coppie dei suoi ospiti e contrassegnate con le iniziali dei loro nomi: Laura e Davide, con i rispettivi amanti Fabrizio e Mia, e Violetta e Guido (il suo ragazzo). Lo sguardo di Giovanna, come prima quello dei due protagonisti, rimane catturato dal dettaglio della postura di una delle donne e, nel tentativo di interpretarlo, si sofferma a descrivere l’opera. In entrambi i casi il lettore ha di fronte a sé un espediente ecfrastico complesso, che richiederebbe un’analisi più accurata. Tuttavia, al di là della possibilità di rispecchiamento dei personaggi e del set in cui si svolge la seconda parte del romanzo, l’ekphrasis ha un potenziale ermeneutico molto forte, indispensabile per comprendere il senso dell’intera vicenda. In altri termini, la mise en abyme riguarda la storia e il punto di vista su di essa. Così come avviene per le altre occorrenze ecfrastiche (la descrizione delle pitture rupestri e quella delle fotografie familiari), queste pagine ci raccontano lo sguardo che si è posato sulle immagini a interpretare le figure ritratte, a interrogare i loro gesti e le loro azioni cercando di tradurli in voci e parole. Anche i personaggi ‘disegnati’ da Sarchi si sorprendono a osservare gli altri con lo stesso intento in più occasioni. Fabrizio e sua figlia Gaia, fermi al semaforo, guardano «la stessa scena» attraverso il finestrino e si accorgono che «mancavano molti elementi perché quelle persone fossero vere»; confrontano le differenti interpretazioni, ma mancano i corpi e le voci a dare certezza alle loro letture delle immagini. Poi intuiscono che quella è la sostanza del loro rapporto («andiamo per tentativi, approssimazioni a quella che ognuno dei due immagina sia la vita dell’altro»). Anche Mia osserva la vita degli altri: un giorno vede per strada Davide, Laura, Bettina e Violetta, e percepisce per la prima volta (pur essendone a conoscenza sin da subito) l’esistenza dei legami familiari del suo amante («sapere in astratto è un’altra cosa che vedere»). La «semplice quotidianità» dei gesti, scrutati e interrogati al pari di quelli dei personaggi dei quadri, le rivela la consistenza della relazione che li unisce («certi gesti sembrano fatti di un materiale resistente, più resistente degli altri, come l’oro che sui mobili sopravvive sotto il nero della fuliggine e della polvere»). Sul finale del romanzo, in un’analoga situazione in cui però significativamente alle immagini si aggiungono i suoni, Violetta spia i suoi genitori a «una distanza di sicurezza»: in tale posizione può guardarli e ascoltarli, «oggettivi e distanti», libera dal «viluppo di affetto» che l’ha sempre legata a loro, e coglie finalmente la verità che aveva sotto gli occhi ma che, presa dalla sua storia d’amore con Giudo, non era riuscita a vedere.
Tutti questi sguardi ‘doppiano’ gli occhi della scrittrice posati sull’inesauribile spettacolo dei rapporti umani, di cui certo l’amore rappresenta la varietà più importante, per le famiglie che crea e disperde, per lo «splendore» e le miserie che è capace di regalare, per le sfide a superare i confini dei propri corpi e delle proprie solitudini, per il desiderio di «essere concavi e convessi, e non mancare di nulla» che infonde. Sarchi, in fin dei conti, racconta la fragilità di quei fili sottili ed essenziali che compongono la trama della nostra normalità, che pure vorremmo fossero eterni.