Corpi e classici. Il processo evolutivo della reiterazione, tra automatismi ed esperienze

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Bob Wilson, Bill Viola, William Kentridge oltre a essere tra i nomi più significativi della sperimentazione artistica internazionale, sono accomunati da un’attenzione alla “classicità”, da loro analizzata e riscoperta in qualità di pluralità di saperi ed esperienze dal valore universale. Per ognuno di loro il termine corrisponde di fatto a un insieme di conoscenze che si sono elevate oltre il tempo e lo spazio e che tendenzialmente possono ripetersi all’infinito senza mai essere identiche. In questo divenire costantemente progressivo e mutante, dove nulla si può riproporre come replica assoluta, ma la reiterazione è una chiave evolutiva, nella dialettica con i media elettronici il corpo appare sia come un delicatissimo strumento di apertura alla conoscenza che come una profonda memoria al servizio della stessa. Dopo un breve inquadramento introduttivo il testo, quindi, si propone di percorrere le valenze espressive del binomio corpo-classici nel lavoro dei tre artisti. 

Bob Wilson, Bill Viola, William Kentridge, as well as being one of the most significant names of international experimentation, share a focus on "classicity", analyzed and rediscovered as a plurality of universal knowledge and experiences. For them the word corresponds in fact to a set of knowledges that has elevated beyond time and space and tend to repeat indefinitely, without ever being identical. In this becoming, constantly progressive and mutant, where nothing can be reproduced as absolute replica, but reiteration is an evolutionary key, in dialectics with the electronic media the body appears both as a delicate instrument of openness to knowledge and as a profound memory at the service of the knowledge itself. Therefore, after a brief introduction, the text aims to examine the expressive values of the body-classical binomial in the three artists’artwork.

 

John Cage, the american composer, said “There is no such things that is songless. Sometimes, when we are very quiet, we become more aware of sound then we make a lot of sound”. Martha Graham, the american choreographer said “sometimes when we are very still, we become more aware of movement then when we make a lot of movement”. Classical architecture is simply buildings and trees. The trees an option to see the buildings, the buildings an option to see the trees. The Avanguarde is redescovering the Classics. Socrates said: baby is born knowing everithing; it’s the uncovering of the knowledge that is a learning process.

Bob Wilson[1]

1. Cage, Graham, Socrate. Il tempo, lo spazio, il corpo; l’avanguardia, i classici

A metà del secolo scorso, durante la revisione estetica messa in atto negli scenari della ricerca artistica europea e d’oltreoceano, maturano due direttrici: da un lato prende piede «l’arte come idea», dall’altro «l’arte come azione».[2] Insieme alla messa in discussione di limiti, media e supporti, in questo periodo si va dunque delineando l’affermazione di un pensiero concettuale e di un approccio ʻproceduraleʼ – a suo tempo già anticipato da Duchamp – in cui assumono importanza sia un’attenta progettualità che l’improvvisazione gestuale e performativa.

All’interno di questo clima l’immagine elettronica, che comincia ad aprirsi un varco proprio nel corso degli anni Cinquanta, per sua natura fisiologicamente procedurale, effimera, immateriale, simultanea, istantanea e leggera, non tarda a incontrare l’approvazione di una parte della sperimentazione artistica e a diventarne protagonista, introducendo nuove forme di comunicazione e di relazione.

Nello stesso periodo però cambia anche lo statuto del corpo, che dall’avere una rappresentazione oggettuale, diventa il principale interlocutore delle pratiche performative, sino a raggiungere, a partire dagli anni Sessanta, un vertice produttivo con la Body Art.

Tra il carattere dematerializzato e smaterializzante dell’immagine elettronica e il corpo si prefigura così un’interessante dialettica, a cui molti artisti daranno spazio criticamente recuperando, attraverso il nuovissimo linguaggio videoartistico, le potenzialità espressive e ‘mediatiche’ del corpo: ne sarà trattata la fisicità, enfatizzati e dettagliati i movimenti, esplorata l’interiorità e gli aspetti percettivi.

Tra le riflessioni all’origine del particolare confronto tra lo sguardo videoartistico e le varie facce della corporeità, si può porre lo spirito pionieristico di John Cage. Compositore, filosofo, uomo innamorato delle tecnologie e del suono, inventore e ʻdetonatoreʼ esplosivo, Cage produce un’incontrovertibile cesura col passato, mettendola in atto grazie al corpo, innanzitutto il proprio.

All’inizio degli anni Cinquanta, questo visionario e straordinario personaggio, anche grande appassionato di insetti e piante e specialista di funghi, sperimenta all’Università di Harvard la camera anecoica: una stanza fonoassorbente dove il suono è abbattuto quasi totalmente (si parla di una percentuale che rasenta il cento per cento). Ma in questa circostanza, Cage scopre che il silenzio non esiste. Il suo corpo produce una sonorità di fondo che acquista peso con il passare dei secondi; un vociare interno del flusso venoso e dell’attività nervosa che sale progressivamente alla sua attenzione e gli fa capire che il silenzio è un’utopia: dove c’è vita non può regnare.

Da questa esperienza nascerà 4'33',[3] una partitura silente in tre movimenti, fatta per qualsiasi strumento a condizione, però, che resti tale: taccia! Lo scopo è attrarre nei 273 secondi di azzeramento sonoro (numero che si ottiene dalla conversione del minutaggio e che, peraltro, richiama lo zero assoluto) le sonorità di fondo. Una sorta di intervallo, una sospensione attiva e calamitante dove frammenti sonori di varia natura vengono catalizzati e compongono un’armonia spontanea e aleatoria, addensandosi e sottraendosi secondo logiche involontarie, non programmate. Così, come aveva notato nei White paintings di Robert Rauschenberg – dei panelli completamente bianchi e statici che amplificavano le ombre dell’ambiente e il pulviscolo che vi si depositava sopra –, Cage dà luogo a un ‘bianco sonoroʼ: un vuoto attraente, che si pone come uno straordinario magnete e diventa un invito ad ascoltare il mondo e a farne parte.

Un ascolto a cui la danzatrice e coreografa Martha Graham aveva già prestato il proprio orecchio, o meglio il proprio corpo, includendo nella sua arte quell’immobilità divenuta fondamentale anche per Merce Cunningham, suo allievo più importante, che ne raccoglierà il testimone e riesplorerà le istanze della danza, introducendo anche il gesto quotidiano.

1952, Carolina del Nord.

Dai White painting, da 4'33' e dalle coreografie di Cunningham prende letteralmente corpo l'Untitled Event, in cui rientrano anche azioni teatrali, letture di poesie e proiezioni filmiche, che ʻspuntanoʼ qua e là proprio come i funghi amati da Cage, irrompendo sulla scena, mescolandosi fra di loro, coinvolgendo tutti gli astanti. Frammenti casuali, che si depositano e si sottraggono allo spazio del Black Mountain College facendolo vibrare di ‘nuovo’.

L’Untitled Event è quasi certamente il padre degli happening. Sicuramente è il momento che più di tutti irrompe nella scena del contemporaneo come azione iconoclasta e interdisciplinare. In pochi anni l’East Coast statunitense si trasformerà in un’area pullulante di situazioni innovative, dai punti di vista sempre più indeterminati, frammentati e moltiplicati, che avranno un loro apice nella fucina newyorkese degli anni Sessanta, fino a risuonare oltreoceano.

 

2. Bob Wilson

Sperimentatore teatrale, architetto, regista, tra gli artisti visivi più conosciuti al mondo, fondatore del laboratorio artistico permanente Watermill Centre (Eastern Long Island, New York), Robert-Bob Wilson (Waco, Texas, 1941) si forma proprio a New York all’interno dell’humus appena descritto, con un’arte rinnovata che dichiara la propria frammentazione e un corpo che se ne fa portavoce primario, mettendosi in gioco e mettendo in gioco anche quello dello spettatore, chiamato a essere parte integrante della rappresentazione. 

Ma nel quadro di una sperimentazione da cinquant’anni votata a superare i confini, a fondere arti e modalità rappresentative e fare della vita un’arte e dell’arte la vita – «arte = vita» diceva Vostell – il termine avanguardia, per Bob Wilson, non può essere che una ʻriscoperta dei classiciʼ. Un invito, cioè, a riappropriarsi e a restituire una pluralità di saperi ed esperienze dal valore universale. Forme di conoscenza che si sono elevate oltre il tempo e lo spazio e che tendenzialmente possono ripetersi all’infinito senza mai essere identiche. Come l’eterno ciclo dei giorni e delle stagioni. In questo divenire costantemente progressivo e mutante, dove nulla si può riproporre come replica assoluta e l’arte è una creazione ʻillimitataʼ, il corpo appare come un delicatissimo sismografo polisensoriale, in grado di attivare quel «processo di apprendimento», citato dallo stesso Wilson, con cui prende forma, si struttura e acquista consistenza la «conoscenza». Un ʻdispositivoʼ attento e laboratoriale che, osservando e osservandosi, si pone appunto in ascolto, si interroga e sollecita domande, così come è stato insegnato dal pensiero illuminante di John Cage e Martha Graham. Peraltro, l’idea del silenzio come suono e della stasi come movimento riecheggia proprio quell’infinitum esperienziale universale tipico di ogni elemento che produca una forma di inabissamento profondo e intestino, capace poi di tradursi in una potente e consapevole leva innalzante. Né più né meno di quel che succede grazie al concetto di reciprocità. «L’architettura classica» ricorda Wilson «è fatta semplicemente di edifici e alberi. Gli alberi sono un’opzione per vedere gli edifici; gli edifici un’opzione per vedere gli alberi». Un tutt’uno contraddittorio e armonico – nel senso etimologico del termine, cioè come sintesi di parti diverse –in cui gli elementi sono gli uni funzionali agli altri e manifestano, nell’insieme, un pensiero per lo sguardo: raccontano il punto di vista ‘registico’ e il luogo della composizione, replicando il ‘corpo a corpo’ interno (alberi-edificio) all’esterno, in una dialettica perennemente diversa, che si ripeterà a ogni nuovo sguardo.

Gli elementi sintetizzati nella epigrafe a inizio testo – detta a Varese dallo stesso Wilson, in occasione della conferenza stampa di Tales, Robert Wilson per Villa Panza – e di seguito ripercorsi, sono nodi stilistici di una poetica raffinatissima, dove la visione avviene proprio nei termini della disposizione appena descritta: strutturata secondo un rigore architettonico classico e minimalista, intrisa anche di astrattismo, di elementi tratti dal Teatro del No e dalla cultura nipponica, e dove la luce gioca un ruolo compositivo e modellante di stampo scultoreo e pittorico.

Lo spazio, inoltre, per quanto articolato secondo gli schemi di un contesto pittorico e architettonico tradizionale, è assai insidioso, visto che è trattato come un’ibridazione di orizzonti. Infatti, ciò che ha validità per l’architettura classica trova un riscontro anche in ambito pittorico, per cui il cliché della pittura di paesaggio, di orizzonte lontano, è contemplato insieme all’orizzonte vicino tipico della ritrattistica, con il formato della mezza figura o del primo piano e della ‘natura morta’; o forse, in linea con quanto è stato sopra esposto, sarebbe meglio chiamarla, «frammenti di interno»,[4] con l’oggetto o il timbro sonoro che gli viene attribuito come un alibi necessario. Una ciambella di salvataggio e al tempo stesso un elemento straniante, utilizzato sia per focalizzare l’attenzione, sia come inganno percettivo e spaesamento dal sapore giocoso e coltissimo.

I videoportraits di Tales, Robert Wilson per Villa Panza ne sono un paradigma e in un certo senso danno forma all’intero lavoro dell’artista texano.

Ritraggono elegantissimi animali e personaggi dell’arte e dello spettacolo – tra cui ventitré gufi della neve, un bellissimo esemplare di pantera nera dal nome altrettanto bello, Ivory, e una volpe; tra i personaggi Lady Gaga, Robert Downey Junior, Roberto Bolle, Isabella Rossellini, la soprano Renée Fleming, Brad Pitt e molti altri ancora –[5] e condensano elementi linguistici propri del video e del cinema insieme ad elementi di teatro, architettura, design, pittura, scultura, fotografia, danza e musica, ossia l’intera gamma artistica frequentata da Wilson.

I Tales inoltre hanno un’origine lontana, infatti prendono spunto da un suo lavoro degli anni Settanta, Video 50: un centinaio di brevissimi video prodotti per la televisione tedesca ZDF, che andavano in onda a fine programmazione giornaliera al posto dell’immagine fissa del monoscopio. Erano dei videoritratti[6] a inquadratura fissa caratterizzati da una teatralità distaccata, da un immaginario simbolista e surrealista, dall’inserimento dell’imprevisto e da un’architettura sonora che includeva la presenza di motivi fonetici al posto delle parole.[7]

Nella galassia artistica di Villa Panza, da alcuni anni fondo FAI, i Tales rappresentano quindi dei ʻmicromondiʼ pieni di tempo ed eredità, che trasudano dai corpi e dalle potenzialità dello spazio del ritratto. Disseminati tra gli arredi e la collezione di arte antica e contemporanea creata da Giuseppe Panza, arricchiranno le pareti della residenza settecentesca fino al 4 marzo 2018.

Di durata variabile, dai 30’ ai 20’, ogni tale ha un’ambientazione a sé stante con costumi e componente sonora (spesso accompagnata dalla voce dello stesso Wilson che legge brani di letteratura o di poesia o produce stravaganti rumori)[8] che ha comportato un enorme lavoro di cura dei dettagli. I soggetti dei ritratti, ripresi frontalmente con camera fissa, sono rimasti per ore in assoluto silenzio di fronte alla macchina da presa. Compresi gli animali, tutti sono stati ripresi dal vivo. Ha raccontato Wilson: «Tecnici e soggetto erano una cosa sola. Come a teatro, nessuno si muoveva».

In fase di post produzione la temporalità interna è rimasta inalterata, non è stata dilatata, mentre è stata aggiunta la componente sonora ed è stato fatto un importante lavoro sui colori. Il risultato finale è una sorta di tableau vivant la cui mutazione, lentissima e quasi impercettibile, è dunque di tipo performativo. Ad eccezione di tre casi – Roberto Bolle, Brad Pitt e Isabella Rossellini –[9] i micromovimenti interni sono infatti fisiologici: corrispondono alla gestione della resistenza del soggetto al prolungato immobilismo.

 Robert Wilson, Lady Gaga The death of Marat - Foto Sergio Tenderini © FAI - Fondo Ambiente Italiano

Così, Robert Downey ha interpretato il corpo-cadavere della Lezione di anatomia di Rembrandt, e Lady Gaga, rimasta ferma in posa per circa undici ore («lei che è abituata a muoversi di continuo» ha sottolineato Wilson, in conferenza stampa), ha prestato il proprio volto, il proprio corpo e un’incredibile quanto nobile[10] espressività, a quello di Mademoseille Rivière, ritratta da Jean-Auguste Domenique Ingres nel 1806, ma anche alla Testa di Giovanni Battista nella decollazione dipinta da Andrea Solari (1507), e ancora a Marat nella Morte di Marat di Jacques-Louis David (1793) e all’impressionante Flying, ispirata all’antica pratica erotica giapponese dello Shibari.

 Robert Wilson, A House for Giuseppe Panza - Foto Sergio Tenderini © FAI - Fondo Ambiente Italiano

 

All’esterno, vicino a una gigantesca magnolia del magnifico giardino, fa da contrappunto alla Villa House for Giuseppe Panza, una casetta in stile American Shaker che sembra uscita da un dipinto di Hopper. Una struttura architettonica da cui si possono udire, recitati dallo stesso Wilson, alcuni versi di Rainer Maria Rilke, tratti dal suo Lettere a un giovane poeta (1929). Dedicata allo spirito del collezionista, fatto di silenzi e un profondo amore per lo studio, non è accessibile ai visitatori, ma è destinata a fare parte della collezione permanente, come la deliziosa videoinstallazione A Winter Fable aggiunta a maggio.

Composta da tre videopotraits di animali – la volpe, il lupo e l’agnello – è ispirata alla favola Comare Volpe e Compare Lupo, delle Fiabe italiane di Italo Calvino (1956). In scena, accompagnati dall’inquietante filastrocca Bloody Face cantata dai Coco Rosie e da una dolce caduta di fiocchi di neve, un lupo dal muso insanguinato, una volpe con le orecchie ben tese e lo sguardo vigile, e un piccolo agnello dall’aria sorridente appaiono quasi ʻincastonatiʼ tra fusti di piante slanciati come colonne, che amplificano le potenzialità narrative dei soggetti: sono lì per ricordare un sistema di sensi di colpa, di astuzie e di paure che contraddistingue l’uomo e la sua realtà. Da sempre un po’ alberi, un po’ colonne, un po’ corpi, e ricordando e parafrasando Wilson si potrebbe aggiungere: gli alberi sono un’opzione per vedere i corpi, i corpi un’opzione per vedere gli alberi. Un mondo tra i mondi, che continua a diluire il passato in un presente intriso di classicità. La durata, in questo caso, è di quasi 8 minuti; ovviamente in loop.

 

3. Bill Viola

Tra gli artisti più noti del contemporaneo, Bill Viola (New York, 1951), legato da sempre all’arte elettronica, si è formato nello stesso vivacissimo contesto di Bob Wilson, respirando il clima anticonformista degli anni Sessanta e cominciando a fare video agli inizi del decennio successivo. La sua produzione corre parallela al progresso tecnologico ed è contrassegnata da un costante dialogo tra media elettronici e media tradizionali: dalle sperimentazioni tecnologiche iniziali, alle ricerche di stampo introspettivo e plurisensoriale, avviate in Italia dalla prima metà degli anni Settanta, per la precisione a Firenze. Viola risiede nel capoluogo toscano dal 1974 al 1976, periodo durante il quale è direttore tecnico di Art/Tapes/22, straordinario centro internazionale di produzione e distribuzione video, intorno a cui ruotano artisti come Alighiero Boetti, Vito Acconci, Daniel Buren, Joan Jonas, Jannis Kounellis, Chris Burden e altri ancora. Creato da Maria Gloria Bicocchi in via Ricasoli 22, Art/Tapes/22 era situato nel cuore del centro storico fiorentino, a due passi dall’imponente gruppo architettonico del Duomo di Firenze e circondato ad ogni angolo da secoli di storia e arte, visibile negli stessi spazi per cui era stata pensata. È in questo contesto che Viola ha le prime esperienze di un’arte «collegata al corpo»[11] e vede nelle chiese fiorentine una «forma di installazione».[12]

Il tema del corpo comincia così a essere declinato insieme a quello della classicità e entrambi si profilano in qualità di patrimonio ancestrale da riscoprire, acquistando una valenza ʻsacraʼ agli occhi dell’artista statunitense. L’accezione del termine è distante da un sentire ‘cultuale’, per Viola infatti sacro corrisponde a universale, dove il termine universale ha lo stesso significato visto in Robert Wilson. Sacra è l’immagine rimodulata e sublimata attraverso la consapevolezza, riacquisita e metabolizzata, riattivata dal pensiero, in un processo continuo fatto di sedimentazione e reinterpretazione: ‘nel’, ‘al di là’ e ‘attraverso’ il tempo. Un tempo che si configura come ʻdurataʼ di stampo bergsoniano dove le immagini sono naturalmente in ‘movimento’ e agiscono, a livello latente o in chiara evidenza, come degli «organismi viventi».[13]

«La durata è il mezzo che rende possibile il pensiero, dunque la durata è per la coscienza ciò che la luce è per gli occhi. Il tempo stesso è divenuto la materia prima dell’arte dell’immagine in movimento»,[14] scrive Viola nel 1990. Così, un momento quotidiano, come in Interval (1995) il farsi una doccia, assume progressivamente la valenza di un rituale ed è appunto sacro, nell’accezione secolare del termine: classico, universale. Lo spettatore è dunque invitato a identificarsi in quel gesto, a farlo suo. Non a caso il corpo dell’uomo sotto la doccia (Viola stesso) è in rapporto uno a uno con lo spettatore. Inoltre, nel totale dell’inquadratura la rappresentazione è dilatata oltre i limiti del quadro; cioè sconfina, sia pure virtualmente, nello spazio spettatoriale. Così un gesto quotidiano come il farsi la doccia assume progressivamente la valenza di un rituale, e va al di là della connotazione simbolica che potrebbe avere l’acqua come elemento di purificazione o iniziazione (ricorrente in Viola).

In The Greeting (1995) c’è addirittura una sublimazione del tempo rallentato, del gesto e del valore universale di un certo tipo di rappresentazione. Nell’opera, divenuta famosissima, l’incontro e il saluto tra due donne, siglato da un caloroso abbraccio, è stato rimodulato dall’artista sulla stretta tra Maria ed Elisabetta che compare nella Visitazione di Carmignano (1529 ca.) del Pontormo. Grazie all’uso del rallenty la ripresa originaria di quarantacinque secondi è stata trasformata in una proiezione di oltre dieci minuti, che esalta l’evento senza alcuna perdita qualitativa[15] e con un crescendo emozionale che prende forma attimo per attimo e che altrimenti sarebbe stato impercettibile. È questa la funzione rigenerativa dell’immagine, del messaggio, del tempo: l’abbraccio è un gesto trasversale alle epoche e ai territori.

The Greeting da poco è stata esposta nuovamente, peraltro proprio in dialogo con la Visitazione, nella retrospettiva di Palazzo Strozzi (Firenze) Bill Viola Rinascimento elettronico, curata dallo stesso direttore di Palazzo Strozzi, Arturo Galansino, e da Kira Perov.[16] In questa occasione la scelta curatoriale ha di fatto optato per un ʻineditoʼ dialogo tra alcune opere di Viola e i capolavori che ne sono stati la fonte d’ispirazione, facendo sì che il binomio corpo-classici si rivelasse in tutta la sua potenza espressiva. Dalle prime sperimentazioni degli anni Settanta (come Level, 1973 e Olfaction, 1974) – proprio quelle realizzate a Firenze – fino ad alcuni lavori più attuali (Inverted Birth, 2014) e a opere che hanno fatto storia (The Reflecting Pool, 1977-1979),[17] nelle sale del Piano Nobile di Palazzo Strozzi è stato possibile ammirare Catherine’s Room (2001) e la tavola di Andrea Di Bartolo raffigurante Caterina da Siena fra quattro beate domenicane e scene delle vite (1394-98); Emergence (2002) con la Pietà di Masolino da Panicale (1424); Man Searching for Immortality / Woman Searching for Eternity (2013) a confronto con Adamo e Eva di Lukas Cranach (1528).

 Bill Viola Emergence (Emersione) 2002, 11’40”. Retroproiezione video a colori ad alta definizione su schermo montato a parete in una stanza buia. Interpreti: Weba Garretson, John Hay, Sarah Steben, cm 213 x 213. Courtesy Bill Viola Studio Masolino da Panicale (Tommaso di Cristoforo di Fino; Panicale di Renacci? 1383/84-documentato fino al 1435) Cristo in pietà 1424. Affresco staccato, cm 280 x 118. Empoli, Museo della Collegiata di Sant'Andrea, inv. n. 32. Foto Antonio Quattrone

Un’opportunità che ha messo in risalto non solo l’efficacia comunicativa dei formati del contesto pittorico italiano rinascimentale, ma anche, con Cranach, della pittura nordica e del loro contenuto emozionale. Inoltre, ha evidenziato la stretta relazione tra «l’immagine e l’architettura». «L’atto del dipingere» scrive Viola «diventa [nel Rinascimento, n.d.c .] una forma architettonica, spaziale, che lo spettatore sperimenta fisicamente camminandovi attraverso»,[18] perché vi è immerso.

Viola ha guardato a quei modelli e li ha presi come riferimento, appellandosi alla loro matrice compositiva, strutturale e contenutistica per opporre una forma di resistenza a una dimensione comunicativa impoverita, a un approccio mediatico odierno sempre più sofisticato ma sterile. L’impianto della pala d’altare, la pittura devozionale quattro-cinquecentesca, la funzione narrativa data dalla successione dei quadri della predella – presa a modello per Catherine’s Room – la struttura tripartita del trittico, usata per altri lavori non in mostra:[19] ognuno ha un’importanza che travalica il ruolo momentaneo attribuitole dalla storia dell’arte, perché continua ad avere significato nella mente umana, perché è parte della nostra coscienza occidentale.

Lo stesso vale per i modelli più intimi quali i primi piani, le mezze figure, i dettagli che, come si è visto anche per Bob Wilson, richiamano la funzione del piano ravvicinato ma determinano anche un lavoro di completamento che deve essere fatto dallo spettatore chiamato a ‘immaginare’ la figura, a intuire gesti e movimenti sottaciuti, tratti psicologici e, ancora, emozioni.[20]

 

4. William Kentridge

A differenza degli artisti già incontrati la classicità di William Kentridge parte dalla tecnica da lui utilizzata, il disegno, un autentico tratto distintivo dalla valenza rotondamente corporea, che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Alla base della sua arte poliedrica, il disegno per Kentridge è innanzitutto un atto performativo. Equivale a entrare fisicamente nella materia dell’immagine e del pensiero, attraverso una serie di azioni, tecniche, procedimenti congiunti e frammentati. «C’è un foglio di carta sulla parete. Una videocamera in mezzo alla stanza. Un camminare tra la videocamera e la parete. Modificare il disegno, tornare verso la videocamera, registrare la modifica e poi tornare al disegno».[21]

Lo sviluppo dell’immaginazione, insieme a quello del disegno, avviene tra un passo e l’altro, all’interno di uno stesso movimento in cui anche il tempo prende ‘corpo’ e si palesa come grandezza visibile:

[…] Il tempo diventa distanza, materia, si espande e si contrae, diviene visibile. Il tempo diventa distanza due volte, in due modi diversi. La macchina da presa è uno strumento che trasforma il tempo in una distanza calcolabile […] e numeri di fotogrammi. […] La sostanza invisibile del tempo è trasformata nella materialità della pellicola.[22]

Un ulteriore contributo alla manifestazione della corporeità del tempo è dato dal segno che viene cancellato. La traccia del passaggio rimane comunque, «resta tra le fibre della carta»[23] e contribuisce alla costruzione del discorso artistico. L’immagine-pensiero-tempo-corpo si forma ‘tra’ e grazie alle soste, ai tempi fermi che si aprono tra i passi o come li definisce lo stesso Kentridge, gli «interstizi».

Negli interstizi aperti da quegli stessi gesti […] mettiamo in atto, vediamo e anche rendiamo onore al contributo che diamo alla comprensione del nostro mondo. È così che si fa un cavallo. Così si fa una faccia. È così che si arriva a vedere. Questo è il lavoro entro il perimetro dello studio.[24]

Il disegno è così assenza e presenza insieme, passato e presente insieme. È somma di immaginazione e tracce di memoria che via via che emergono chiamano in causa realtà e utopie.

All’inizio del suo percorso artistico nei primi anni Ottanta i temi dei lavori di Kentridge ruotano intorno a Johannesburgh e al contesto sudafricano, condizionato dall'apartheid e dai conseguenti contrasti tra le classi sociali. Progressivamente si sviluppano questioni di maggior respiro, enucleate intorno alla scienza, alla storia, alla geografia e alla politica internazionale. Di pari passo cresce anche la produzione, in un reciproco alimentarsi tra cinema, arti performative e grandi installazioni che evolvono anche in spazi pubblici e si trasformano in un teatro a cielo aperto. È accaduto recentemente per il gigantesco Triumphs and Laments (2016), realizzato sul Lungotevere romano con l’ausilio di un’idropulitrice: cancellando la patina del tempo e della storia, rifiutandola, per farne rivivere, in successione e per frammenti, parte di una gloriosa memoria.

Ridare voce al corpo della memoria e rifiutare la patina del tempo, vuol dire sottrarsi ai condizionamenti e andare oltre la storia. Paradigma di tale assunto è un gigantesco lavoro che ha per titolo proprio The Refusal of Time, il rifiuto del tempo. La videoinstallazione è stata presentata in anteprima nel 2012 a Kassel in occasione della rassegna dOCUMENTA13, e poi nel 2013 è stata il centro nevralgico dell’ampia monografica Vertical Thinking, dedicata all’artista sudafricano dal MAXXI – ancora Roma, la ‘città eterna’ – dove è stata riadattata.[25]

L'installazione, così come l’opera teatrale Refuse the Hour ad essa strettamente connessa, nasce come una forma di resistenza alla standardizzazione del tempo che Kentridge fa risalire all’inizio del Diciannovesimo secolo: nel momento in cui gli orologi del mondo vengono sincronizzati sul meridiano di Greenwich e adeguati al sistema dei fusi. L’uscita dall’ordinarietà prefigurata allora potrebbe essere possibile traslando il tempo da una dimensione sociopolitica e assoggettante a una che si ponga come antidoto. Da qui deriva il titolo e il concetto di rifiuto: rifiutare il tempo significa emanciparlo dall’astrazione interrompendo il flusso delle influenze limitanti, esterne ma anche interne, proprie dell’uomo.

Kentridge prova a farlo attraverso un’esplosione iconoclasta di immagini e suoni che pervade lo spazio dell’allestimento caricandolo di energia e di stimoli. Nella sua estensione, The Refusal of Time appare come un grande omaggio al cinema delle origini, in particolare a Méliès, all’arte e alle scoperte del primo Novecento, alla danza, al teatro e alle straordinarie dinamiche ibridanti che si compiono all’interno dell’installazione.

Le cinque macroproiezioni simultanee, che si srotolano lungo le ruvide pareti a marcare la concretezza del tempo, seguendo un ordine a ferro di cavallo, fanno quasi da cornice a delle sedie organizzate in piccoli gruppi e orientate in vario modo, e a delle composizioni scultoree, formate da dei megafoni cuneiformi e dai relativi treppiedi, di foggia primo novecentesca. Al di fuori, collocato all’ingresso dello spazio espositivo, si trova invece un marchingegno pneumatico interamente in legno, che apre il percorso.

William Kentridge, The Refusal of Time, Roma, MAXXI 2013, inquadratura dall'ingresso

È un corpo meccanico di «memoria leonardesca», una «macchina che respira», come la definisce Kentridge.

Il complesso narrativo è dislocato tra questi elementi, ma è diretto dall’intreccio compositivo delle proiezioni che, relazionate agli altri componenti, richiedono mobilità di sguardo e di attenzione. Infatti, se è vero che al centro dei racconti delle proiezioni c’è il tempo, considerato come grandezza misurabile, è altrettanto vero che in The Refusal of Time lo spazio è ʻtemporalizzatoʼ. Ciò significa che esiste uno scarto, per l’appunto temporale, che determina un ritardo o un anticipo della visione, ed è osservabile in quei momenti in cui proiezioni contigue e con uno stesso contenuto appaiono l’una leggermente in ritardo o in anticipo (dipende dal punto di vista) rispetto all’altra.

Altre volte, invece, il contenuto delle proiezioni è per ognuna diverso, altre ancora uno stesso racconto le percorre linearmente tutte e cinque, in senso orario o antiorario. È il caso della processione di ombre cinesi in cui si riconoscono musicisti e danzatori, o della camminata di Kentridge, mentre in compagnia di una danzatrice attraversa un mondo fatto di mappe geografiche. Nel falso movimento ricostruito con la complicità di uno zootropio, alle distanze geografiche che diminuiscono vertiginosamente corrisponde un’apparente progressione dell’azione. In realtà, Kentridge è trattenuto nello stesso punto di partenza e la sua camminata è soltanto un ben congegnato effetto ottico. Gli immaginari evocati richiamano alchimie scientifiche, ironiche triangolazioni affettive amante-moglie-marito, mondi e universi culturali tra loro distanti. All’inizio dei segmenti narrativi, su tutte e cinque le proiezioni, compaiono imponenti metronomi che segnano il tempo, battendolo dapprima in sincrono, mentre in sottofondo si sente il respiro della grande macchina pneumatica. Il respiro è tempo e la macchina è un corpo. La relazione tra i due elementi sta nel fatto che ogni corpo è un orologio. L’intero immaginario dà il senso di uno scorrere vincolato, scandito, organizzato da varie forme di ‘prigionia’ spaziale. Il corpo è uno spazio, lo strumento musicale è uno spazio, il metronomo misura un tempo spazializzato, la geografia determina lo spazio del tempo e il tempo dello spazio, e così fa la storia. In un continuo fuori campo veniamo circondati da spazi fisici e artificiali in cui la grandezza temporale è catturata. Il montaggio, con un crescendo fortemente coinvolgente, intensifica i gangli e i condizionamenti da cui si vorrebbe ma non si può uscire. Invertire la direzione dei passi, sfogliare un libro al contrario, liberare gli oggetti dai loro meccanismi, ricomporne perfettamente altri andati distrutti e creare dei cortocircuiti tra la causa e l’effetto, Kentridge sembra voler dire che tutto questo può essere possibile. E forse potrebbe esserlo anche con facilità, come può avvenire in una danza, in cui all’improvviso la musica cambia ritmo.

Il progetto The Refusal of Time era partito da considerazioni sui diversi tipi di tempo, ma con il progredire del lavoro è risultato chiaro che ruotava anche attorno al fato, oltre che al tempo; e attorno ai nostri tentativi di sottrarci quanto ci costringe in ciò che siamo, e ci lega a un come e un dove. Ma c’era più di questo. C’era la speranza che se avessi cominciato con attività pratiche (disegno di scene, costumi, strumenti musicali, macchinari) avrei potuto cambiare la direzione […] non solo la traiettoria, ma anche la destinazione finale.[26]

The Refusal of Time è insomma un lavoro ʻutopicoʼ. Non si può rifiutare il tempo o resistervi, però lo si può intercettare, avvicinare e analizzare attraverso il modo in cui si materializza. Ci si può intervenire, affrancandolo completamente dalla realtà con l’uso del rallenty o dell’accelerazione. Così il tempo diventa una dimensione provvisoriamente e manipolabile da ʻafferrareʼ, un corpo. L’atto del cancellare, del sottrarre, del frammentare o del ridurre la tridimensionalità alla bidimensionalità, prima di riconvertirla nuovamente (nella videoinstallazione), corrisponde così a una forma di sublimazione e a un tentativo ʻconcretoʼ di passare oltre.

Kentridge ha lo stesso approccio con la componente sonora, concepita come combinazione di canti, sonorità varie (anch’esse sottoposte a dilatazioni e contrazioni) e il respiro della grande macchina di legno posta all’ingresso dell’installazione. La ʻmacchina che respiraʼ, lo si è anticipato, è metafora del corpo come orologio, ma trae ispirazione non da un corpo qualsiasi, bensì da un elefante morente. Nel sistema di ingranaggi meccanici e di scorrimento delle immagini, la macchina-elefante è un anti-orologio; è anch'essa un rifiuto del tempo. E c’è altro. La metafora del respiro si relaziona anche a uno scenario che si è configurato, sempre nel Diciannovesimo secolo, sotto il cielo parigino, anzi sotto le strade di Parigi dove c’erano delle tubature collegate a un orologio ad aria compressa. L’orologio era alimentato da un principio meccanico che pompando l’aria pompava anche il tempo e innescava la sincronizzazione degli altri orologi della città.[27] Nascono da qui i richiami a un’oggettistica e a una strumentazione musicale di tipo meccanico. Proiezioni e disegni sono, infatti, connotati da un inventario di ruote, orologi ottocenteschi, metronomi in varie scale, e qua e là il tutto è disseminato da personaggi e silhouette che suonano gli ottoni, o comunque degli strumenti a fiato o a manovella (come la ghironda) ed espandono il proprio suono tramite imponenti megafoni cuneiformi, che si materializzano negli oggetti scultorei della videoinstallazione.

I vari significati assunti dal respiro sono un plusvalore semantico che va a innestarsi nei giochi linguistici – scritti, ammiccati, espressi con la voce e con i gesti – e nei frammenti narrativi che di volta in volta vengono intessuti, sollecitando una riflessione sulla reversibilità dei concetti, oltre che degli assunti cronologici. Un cambio dei punti di vista.

Anche Kentridge dunque, benché in modo differente da Viola e Wilson, confronta e relaziona dispositivi diversi appartenenti al cinema (riprese, proiezione e postproduzione), al teatro (le scenografie, gli oggetti di scena), alla poesia (la frasi, le immagini), al disegno (il linguaggio di fondo), alla componente sonora (dentro e fuori le proiezioni), alla videoarte (lo spazio videoinstallato, la sovrapposizione di piani, l’ibridazione scenica), e su tutti interviene con modalità manipolatoria. Così accade per l’immagine, invertita e reiterata in loop; per lo spazio dell’installazione, acceleratore di processi e sovrapposizione caotica di corpi pensanti e virtuali; per la multiproiezione, che ripropone solo l’illusione di una visione orizzontale e a scorrimento lineare; per i fotogrammi, che sembrano identici ma non lo sono del tutto; per i metronomi, che scandiscono il tempo insieme al dispositivo pneumatico; per la disposizione panoramica come aspetto del pre-cinema, da leggere però secondo criteri dettati dalla simultaneità e non dalla linearità; per lo spettatore che si siede illuso di poter controllare la visione e dominare la scena col proprio sguardo e movimento ma che, vincolato a uno zootropio post litteram, non riesce mai a cogliere alcuna totalità.

Bob Wilson, Bill Viola, William Kentridge: molte le potenzialità di confronto e di raccordo, enorme il bacino di riflessione, sul processo evolutivo della reiterazione, sugli automatismi, sul senso universale dell’esperienza, tra classici e corpi.

 

 


1 Frase detta in occasione della conferenza stampa di Tales, Robert Wilson per Villa Panza, a cura di Noah Koshbin e Anna Bernardini, Varese, Villa Panza, 4 novembre 2015 - 4 marzo 2018.

2 L.R. Lippard, J. Chandler, Six Years: The Dematerialization of the Art Object from 1966 to 1972, New York, Praeger, 1973, p. 43.

3 Cfr. M. Porzio, Metafsica del silenzio - John Cage e la Nuova Musica, Milano, Auditorium edizioni, 1995.

4 Come l’ha definita Alberto Veca: A. Veca, ‘Ruolo e senso della natura morta’, in Id., La natura morta italiana da Caravaggio al Settecento, Milano, Electa, 2003, p. 53.

5 Il progetto dei Videoportreits ha inizio nel 2004.

6 Si vedano i ritratti del pappagallo e della papera ‘canterina’.

7 R. Wilson, Electronic Arts Intermix, Video 50, 1978 [accessed 30 October 2017].

8 Ogni ritratto è accompagnato da una colonna sonora creata per l’occasione. I musicisti coinvolti sono Bernard Hermann, David Byrne, Michael Galasso. Glenn Gould e Hans Peter Kuhn hanno invece reinterpretato Beethoven, Bach e Goldberg.

9 Sia il michelangiolesco e statuario Roberto Bolle, che Brad Pitt, in calzini bianchi e mutande sotto una pioggia battente, che Isabella Rossellini trasformata in una protagonista in parte della pop art e in parte della letteratura manga, compiono una brevissima azione. Nel caso della Rossellini, pure velocizzata in post produzione trasformando il ritratto in una sorta di marionetta meccanica molto divertente e squillante.

10 «C’è una sorta di regalità in lei. Guardate i suoi occhi, il loro movimento interiore. Le lacrime ne raggiungono la superficie e una le cade sulla guancia. Lei non li muove, restano immobili. Ha avuto una forza non comune. Non ci sono molti artisti che riescono a fare cose simili. […] Per ogni personaggio interpretato [sono ventiquattro e ognuno è stato studiato al Louvre, direttamente a contatto con l’opera, in totale isolamento, ogni volta per una ventina di minuti, n.d.c.] ogni volta il suo volto ha restituito un sentire interiore. Mai esibito, solo comunicato attraverso un’emozione interna». Bob Wilson, conferenza stampa inaugurale.

11 R. Violette, B. Viola (a cura di), Reasons for Knocking at an Empty House: writings 1973-1994, Cambridge Massachusetts, The Mitt Press, London, Thames & Hudson in association with Anthony D’Offay Gallery, 1999, p. 241; anche in V. Valentini (a cura di), Bill Viola: vedere con la mente e con il cuore, Roma, Gangemi, 1993, p. 86.

12 Ibidem.

13 S. Bordini, ‘Più simile a una nuvola che a una roccia: Bill Viola e le immagini come organismi viventi’, in G. Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini, Milano, Mimesis, 2009, p. 212.

14 ‘Materia prima’ è in latino nel testo originale. Bill Viola, Video Black – The Mortality of the Image, in R. Violette, B. Viola, Reasons for Knocking at an Empty House: writings 1973-1994, p. 204, tr. it. A. Cigala, Video Nero – la mortalità dell’immagine (1990), in V. Valentini, Bill Viola: vedere con la mente e con il cuore, p. 64.

15 Il lavoro è stato girato con una speciale cinepresa da 35 mm, a una velocità dodici volte superiore alla norma - 300 fotogrammi al secondo contro i tradizionali 24 - e poi riversato in video e lavorato in post produzione con le tecnologie digitali.

16 Firenze, Palazzo Strozzi, 10 marzo-23 luglio 2017. Cfr. A. Galansino, K. Perov (a cura di), Bill Viola. Rinascimento elettronico, Firenze, Palazzo Strozzi, 10 marzo – 23 luglio 2017, Giunti, Firenze 2017.

17 Le opere esposte complessivamente sono state 14.

18 R. Violette, B. Viola, Reasons for Knocking at an Empty House: writings 1973-1994, p. 105.

19 Nel trittico il pannello centrale è in stretta relazione con i due laterali e la struttura è utilizzata da Viola a partire dagli anni Ottanta.

20 L’interesse di Viola nei confronti dei formati pittorici e fotografici – quindi di una dimensione statica dell’immagine e di media alternativi al video – si manifesta nel corso degli anni Settanta. Cfr. A. Di Brino, ʻIl riflesso di un riflesso Bill Viola, tra passato e presente, per un’arte senza tempoʼ, in Arabeschi, 5, gennaio-giugno 2015, pp. 110-111.

21 W. Kentridge, Sei lezioni di disegno, Monza, Johan & Levi, 2016, p. 79.

22 Ibidem

23 Ivi, p. 83.

24 Ivi, p. 109.

25 A cura di Giulia Ferracci, Vertical Thinking è stata allestita nella Galleria 5 del MAXXI dal 7 novembre 2012 al 10 marzo: [accessed 30 October 2017]. Lo spettacolo Refuse the Hour, controparte di The Refusal of Time, ha debuttato al Teatro Argentina dal 15 al 18 Novembre nell’ambito del Romaeuropa Festival 2012.

26 W. Kentridge, Sei lezioni di disegno, p. 139.

27 A. Costa, Viaggio sulla luna, Milano, Mimesis, 2013, pp. 83-92.