Costruire il reale. Primi rilievi per una ricontestualizzazione critica dei mondo movies italiani

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L’interesse per i mondo movies – documentari estremi prodotti soprattutto in Italia a partire dagli anni Sessanta – presso la critica è sempre stato piuttosto limitato. A lungo considerati prodotti mistificanti e morbosamente interessati all’oscenità, questi film sembrano invece manifestare una consapevolezza modernissima per quanto riguarda il rapporto problematico fra l’immagine e la realtà, al centro oggi di un intenso dibattito. A partire da una breve ricognizione critica del fenomeno, utile per disinnescare alcuni dei più comuni pregiudizi relativi al filone inaugurato da Europa di notte (A. Blasetti) e Mondo cane (G. Jacopetti, P. Cavara, F. Prosperi), il contributo intende evidenziare alcuni degli elementi più tipici del genere. A partire da una prospettiva in grado di considerare queste opere in una luce intermediale, si cercherà di illustrare come – attraverso precise strategie testuali e paratestuali – i mondo movies abbiano contribuito a problematizzare una certa immagine del cinema documentario e del reale nel suo complesso. Oggetto precipuo dell’attenzione sarà infatti il rapporto osmotico e dialettico fra componente visiva e testuale, senza dimenticare – fra le altre cose – il ruolo fondamentale rivestito dal montaggio, usato in modo originale e consapevole. 

Mondo Cane (Jacopetti, Cavara and Prosperi, Italy, 1962) offers a lurid catalogue of archival film from around the world, focusing on violence, destruction, and sexuality, and especially the brutal engagements between human beings and the animal kingdom. The film inspired the ‘mondo’ cycle and the ‘shockumentary’ genre at large. In spite of the international success of such films, at home in Italy critics and scholars saw them as expressions of degradation and obscenity. Since then these films have been neglected by Italian scholars, largely because of the ideological and political use of the camera which is so typical of style. After a brief recognition of the critical reception of the phenomenon, the paper aims to underline some of the more typical elements of the mondo genre. In so doing the films will be considered from a transmedial point of view: the strategies of construction of a “reality effect” will be analysed focusing on the osmotic relationship between images and voice over commentary. The ideological role of the film editing will be analysed as well in order to problematize the link between the image and its reference in the real world. 

 

1. Ricontestualizzare la critica

La macchina da presa avanza lentamente. L’inquadratura è focalizzata su un individuo di cui vediamo solo le gambe; porta al guinzaglio un cane che cerca in tutti i modi di liberarsi dalla propria catena. Tutt’intorno, in recinti uguali fra loro, altri cani abbaiano rabbiosamente. Il regista ce li mostra in alcune inquadrature laterali, dalle quali emerge senza bisogno di ulteriori commenti lo stato di assoluta inadeguatezza in cui versano gli animali. Il cane, trascinato fino alla sua destinazione, viene spinto nel recinto comune con un calcio e sparisce, seguito dagli altri animali, in una zona coperta e invisibile, con lo spettatore che rimane sovrastato dai suoi latrati. Sullo schermo, intanto, sono passate parole che hanno il sapore di una dichiarazione di poetica: «All the scenes you will see in this film are true and are taken only from life. If often they are shocking it is because there are many shocking things in this world. Besides, the duty of the chronicler is not to sweeten the truth but to report it objectively».

 Mondo cane, 1962

La scena appena descritta è l’incipit di uno dei film che maggiormente hanno impressionato il pubblico internazionale, il documentario ‘maledetto’ Mondo cane. Uscito nel 1962 a firma di Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Franco Prosperi, l’opera ha immediatamente riscontrato uno straordinario successo di pubblico, a fronte delle numerose difficoltà relative alla censura e alla possibilità di ottenimento di un visto di proiezione. Il film, assurto oggi a autentico oggetto di culto, ha suscitato reazioni diverse e contrastanti già al momento della sua uscita in sala. La critica italiana dell’epoca, spiazzata dalla struttura linguistica dell’opera e – soprattutto – dalle sue immagini estreme, assume posizioni diverse. In generale si concedere all’opera di Jacopetti una certa capacità nell’orchestrazione visiva del materiale, ma quasi ovunque si contesta il morboso interesse per l’osceno.[1] Nonostante una certa varietà nelle posizioni critiche, nei decenni successivi prenderà piede una linea che tenderà a svalutare completamente l’apporto di queste pellicole alla storia del cinema italiano e a ignorarne anche solo la straordinaria modernità nel trattamento delle immagini e della loro composizione tramite montaggio.[2]

La sopravvivenza di Mondo cane si deve soprattutto all’esistenza di una folta comunità di affezionati spettatori, più all’estero che in Italia. Esclusi alcuni primi e parziali tentativi recenti di rivalutazione del genere mondo,[3] le opere di Jacopetti sono state a lungo considerate una manifestazione morbosa e deteriore. Lino Micciché, rileggendo a posteriori lo sviluppo del genere mondo – la cui genesi si fa risalire al film Europa di notte (Alessandro Blasetti, 1958) – nel panorama del cinema italiano di quel periodo, emette un drastico giudizio di condanna:

[…] Nell’anno in cui Quilici firma il suo ultimo film degli anni ’60, appare Mondo cane (1962), che è la versione ghignante e perversa del semplice e approssimativo umanesimo naturalistico de L’ultimo paradiso e Ti-Kojo. Il nuovo astro del cinismo cinematografico è un giornalista abile e spregiudicato, Gualtiero Jacopetti, che si è fatto le ossa nel qualunquismo di uno dei tanti cinegiornali sovvenzionati con il pubblico denaro, e che ora riversa in un più lussuoso e pretenzioso documentarismo itinerante una tecnica incialtronita dall’uso e consiste in una formuletta elementare: rappresentare nel modo più degradato le cose più degradanti, ricercandole, e il più delle volte inventandole, con il massimo della degradazione, e coprendole poi con un esile manto di finto stupore moralistico o di falsa amarezza pensosa, in modo da ingannare lo spettatore.[4]

 

La critica di Micciché, che diviene senza appello nel momento in cui definisce la corrente come «uno dei massimi punti di abominio del gusto e dell’intelligenza della storia cinematografica nazionale nella prima metà del decennio»,[5] è sintomatica di una difficoltà, comune a parte della critica coeva, di rapportarsi a un prodotto cinematografico scomodo e soprattutto caratterizzato da una certa spericolatezza nel trattamento di tematiche limite, oggetto di intensa interdizione. Il giudizio negativo comminato nei riguardi di Mondo cane e dei suoi epigoni si è poi tradotto, come si è già accennato, in un appiattimento del discorso teorico.[6] Analizzando più da vicino il giudizio di Micciché si possono forse portare alla luce alcuni elementi di riflessione utili a disinnescare degli stereotipi ormai sedimentati. Sembra, in particolare, di poter individuare una insistenza specifica su alcuni punti:

  1. Il confronto continuo che viene istituito fra il genere mondo e il documentarismo d’autore, di cui viene operato un pervertimento del linguaggio.

  2. Il gusto per la rappresentazione insistita dell’osceno, in netta contravvenzione ai codici socialmente accettati della visibilità.

  3. Il ‘peccato originale’ di orchestrare alcune scene ad hoc, contravvenendo così all’idea dell’immagine documentaria come restituzione non filtrata del reale.

Vale la pena di ricordare che, con ogni probabilità, sul drastico giudizio formulato nei confronti del cinema di Jacopetti, un certo ruolo dev’essere stato giocato anche dalla natura stessa del personaggio in questione. Non ci soffermeremo qui sulla biografia del regista di Barga, ma può essere utile ricordare che Jacopetti si è sempre distinto per una vita mondana e sregolata, per aver avuto diversi problemi con la giustizia per accuse di abuso di minore e per le proprie convinzioni politiche, spesso apertamente reazionarie.[7] Si tratta di elementi essenzialmente biografici e politici che con ogni probabilità hanno giocato sulla fortuna del cinema jacopettiano presso la critica, generando una lettura fortemente politicizzata delle sue opere che – per quanto pienamente comprensibile nel contesto del secondo dopoguerra – non dovrebbe continuare a viziare la nostra comprensione a più di cinquant’anni di distanza.

 Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi

Il problema della dignità estetica del cinema di consumo popolare è comune ai diversi generi che lo costituiscono. In particolare nel periodo considerato è da notificare «l’indifferenza che la critica militante italiana dimostra nei confronti di una produzione che è in fase di grande espansione [e che] è alla base di un progressivo scollamento tra la critica cinematografica e il nostro cinema».[8] Da questo punto di vista, un’archeologia del genere mondo, alla ricerca degli antecedenti di un certo modo di intendere il cinema e di utilizzare la macchina da presa, può dare esiti sorprendenti. Come ha giustamente mostrato Marco Dalla Gassa,[9] il fenomeno mondo, lungi dall’essere chiuso in sé stesso, costituisce un sistema aperto, permeabile a influenze autoriali diverse ed illustri e guardato con curiosità e attenzione anche da cineasti successivi. Attraverso una comparazione dettagliata dei debiti iconografici e delle similari modalità di ripresa e montaggio, Dalla Gassa ha evidenziato legami imprevisti, fra cui vale la pena di ricordare la disinvolta sovrapposizione di fiction e realtà documentata in Lettre de Sibérie (Chris Marker, 1958) o l’esposizione insistita di immagini estreme e disgustose, ai limiti della sopportazione, di Calcutta (Louis Malle, 1969).

Al riguardo è forse il caso di recuperare l’opinione di Daniele Aramu che, anziché considerare il mondo come un parto deviato di Jacopetti, legge in esso lo sviluppo e l’esplicitazione di una tendenza latente che si registra sin dai primi anni dell’industria cinematografica. Lungi dall’essere semplicemente un genere dotato di precise caratteristiche identitarie e marche enunciative stabili, il mondo potrebbe essere considerato più proficuamente come una determinata modalità di intendere il cinema documentario. Se è dunque vero che in particolare la nostra epoca ci pone nella condizione di riconoscere immediatamente che qualsiasi immagine, per quanto aderente alla realtà, è necessariamente inscritta in una forma costruzione culturale,[10] si deve ricordare che si tratta di una tendenza di lungo corso, geneticamente inscritta nei media riproduttivi:

La figura del cinereporter, d’altronde, già agli albori del secolo veniva spinta alla ricerca di situazioni ed eventi fuori dal comune; nella Londra del 1906 era possibile godere, fra gli intrattenimenti cittadini, di un kinetoscopio caricato con brevi sequenze di esecuzioni capitali girate in varie parti del mondo. […] Anche la pratica della simulazione faceva il suo ingresso con notevole tempismo. Parallelamente al moltiplicarsi dei reportages in terre lontane e di cronache filmate degli eventi più spettacolari e importanti […], nei primi decenni del secolo il documentario iniziava ad adottare alcuni accorgimenti tecnici del teatro di posa, dando inizio a una osmosi che confonderà sempre più il limite fra rappresentazione della realtà e quella della finzione.[11]

2. Riaprire i testi

Dopo aver utilizzato Mondo cane come campione di indagine per operare una ricontestualizzazione della critica e del mondo movie nel complesso, all’interno di una cornice più articolata, vale la pena di aprire la prospettiva anche a altri titoli del filone per interrogarsi più direttamente sulle modalità attraverso cui questi film contribuiscono a suggerire allo spettatore una impressione di realtà. È ormai chiaro a questo punto che non siamo di fronte a una perversione del linguaggio documentaristico, di cui si tradirebbe la natura, ma piuttosto all’estrinsecazione di elementi già impliciti all’interno del documentarismo stesso. A questo scopo sarà necessario adottare una prospettiva necessariamente intermediale, che consideri non solo il film in sé, ma anche i suoi paratesti e il rapporto interlinguistico che le sue componenti visuali e testuali contribuiscono a fondare.

I film del filone mondo si caratterizzano infatti per un intreccio profondo fra le immagini e il commento in voce over che viene a esse sovrapposto. Si tratta di una forma testuale strutturata, che assolve a funzioni diverse e che subisce un’evoluzione nel corso dello sviluppo del genere. Se con Europa di notte Blasetti gli affida un ruolo tendenzialmente accessorio, subordinandolo alla spettacolarità procace dei siparietti notturni portati in scena, la presenza di Jacopetti nella produzione de Il mondo di notte (Luigi Vanzi, 1960) contribuisce a imprimere una svolta autoriale alla componente letteraria del film. Jacopetti, introdotto al giornalismo per tramite di Indro Montanelli, svilupperà gli elementi fondanti della sua poetica registica quando si troverà a dirigere il settimanale Cronache. Fondato nel 1953, il periodico avrà un grande successo e getterà le basi per la successiva politica editoriale de L’Espresso: contravvenendo alla convenzione di una fotografia a pagina intera come copertina, Jacopetti opta per l’accostamento di due immagini contrastanti. La stridente associazione di queste ultime, accompagnate da brevi didascalie, finiva col produrre effetti di ironia dissacratoria o col suggerire riflessioni impreviste.

 Copertina di Cronache

L’idea dell’accostamento imprevedibile e costruttivo di immagini e testo viene trasposta da Jacopetti, per sua stessa ammissione,[12] anche all’interno dei suoi film. Ne risulta un cinema che rifugge consapevolmente la continuità delle situazioni e dei contenuti e si focalizza piuttosto sulle virate improvvise, i collegamenti imprevisti, le suggestioni costruite a partire dal montaggio fra le varie sequenze e amplificate dal commento. È allora evidente che, in un documentarismo così fortemente autoriale, la responsabilità finale per il confezionamento dell’opera è da imputarsi a chi ha messo mano al commento e al montaggio, cioè – nel caso di Mondo cane – allo stesso Jacopetti. Con buona pace dei difensori di Cavara,[13] documentarista esperto e autore di un film narrativo che rilegge a posteriori la sua esperienza nel filone mondo (L’occhio selvaggio, 1967), bisogna riconoscere che la potenza eversiva di Mondo cane sta tutta nella costruzione ideologicamente orientata del montaggio e nella messa a punto di un commento sagace e tagliente, operazioni queste portate avanti proprio da Jacopetti.

I film del filone sono dunque essenzialmente basati su una messa in evidenza della potenza del montaggio, qui considerato come uno strumento espressivo in grado di creare suggestive connessioni. Il funzionamento del sistema è regolato da un uso sapientissimo dei tagli e dal rapporto simbiotico con le componenti musicale e testuale. Si tratta di una concezione che ci riporta agli albori della teoria cinematografica, alla riflessione sovietica che «si caratterizza per la sperimentazione oltranzista delle tecniche associative»[14] e che «individua nel montaggio non solo un procedimento tecnico autonomo e specifico del “fare” filmico, ma anche il principio sostanziale dell’organizzazione formale e semantica del film».[15] In particolare poi sembra tornare qui l’idea di Ejzenštejn di un cinema intellettuale, fondato sull’esaltazione delle connessioni fra le immagini e sull’eruzione incontrollata di significati ulteriori, non originariamente presenti nelle singole inquadrature.[16]

Un esempio interessante per comprendere come viene articolata attraverso il montaggio la materia cinematografica, può venire dall’analisi dei primi minuti di Mondo cane 2 (Gualtiero Jacopetti, Franco Prosperi, 1963), realizzato con il girato non utilizzato per il capostipite e, per stessa ammissione di Jacopetti, meno autoriale del precedente. Ciò nonostante l’opera manifesta una struttura coerente, articolata in quelle che potremmo definire unità tematiche, declinate internamente attraverso spostamenti progressivi e connesse le une alle altre attraverso un principio di continuità che può legarsi a temi, luoghi, etc. Adottando questo punto di vista si delinea, in particolare, la struttura seguente:

  1. Cani

    1. Introduzione: canile “silenzioso” dove sono state tagliate le corde vocali agli animali

    2. Sfilata di moda canina in Italia

  1. Capelli e parrucche

  1. Taglio dei capelli a Sant’Antino (Aversa) per la fabbricazione di parrucche

  2. Rifinitura delle parrucche in America

  3. Utilizzo della parrucca in locali dedicati al travestitismo maschile

  4. Travestimento dei poliziotti per stanare dei molestatori

  1. Messico

  1. Poliziotti messicani si esercitano al poligono di tiro

  2. Festa dei morti in Messico

  3. Messicani mangiano cimici vive nelle tortillas

  4. Gioiellieri messicani utilizzano gli insetti per creare preziosi monili

Come si vede le scene sono fortemente differenziate l’una dall’altra e solo a partire da un’analisi dettagliata dei rapporti fra le sequenze è possibile identificare una struttura precisa. Il rapporto fra le varie scene è infatti sancito da diversi vettori di continuità: nell’unità tematica II la continuità è garantita dal passaggio dalla produzione delle parrucche (IIa/IIb) al loro utilizzo (negativo in IIc; positivo in IId). Ugualmente vediamo che l’unità III è congiunta alla precedente dall’attenzione ai corpi di polizia (poliziotti americani in IId, poliziotti messicani in IIIa) ed è al suo interno coerente anche solo per la continuità di luogo fra le varie sequenze (oltre che – per esempio – per l’attenzione al tema del cibo che lega IIb e IIc o al tema degli insetti che lega IIc e IId). Si tratta di un processo complesso, accuratamente studiato in fase di montaggio e realizzazione del testo di commento. Il rapporto parola/immagine è in questo senso di fondamentale importanza; se ne individua un chiaro esempio anche nella primissima scena di Mondo cane 2. Le immagini dei cani con le corde vocali recise che tentano invano di abbaiare e quelle che mostrano l’operazione cui le bestie sono sottoposte, sono non solo un chiaro riferimento all’incipit di Mondo cane, ma anche e soprattutto una stoccata alla censura inglese. Ne sia prova il commento:

Come tutti sanno il popolo inglese ama sinceramente l’Inghilterra, la famiglia, il week-end, il tè, la regina, ma soprattutto le bestie. Dei quarantuno milioni di sudditi britannici i cani sono infatti la categoria più benvoluta, vezzeggiata, favorita e protetta dalle leggi. Il primo Mondo cane fu vietato in Inghilterra esclusivamente a causa di certe sequenze nelle quali il cane era spesso vittima dell’umana scelleratezza. Ci inchiniamo riverenti al giudizio del censore inglese e come prova del nostro ravvedimento gli proponiamo oggi, molto rispettosamente, questa seconda versione quasi senza sangue e senza crudeltà. Questa sequenza infatti è una delle poche eccezioni. L’abbiamo ripresa in una clinica di Londra, dove tutti i giorni decine di cani vengono sottoposte al taglio delle corde vocali affinché il chirurgo possa vivisezionarli senza essere disturbato dai loro guaiti. Abbiamo inserito questa scena all’inizio perché anche il censore inglese, se lo crederà opportuno, possa usare il suo bisturi di chirurgo. Affondandolo infatti in questo punto potrà amputare il film con un colpo solo e senza provocare alcun guaito sia dei cani che del nome degli autori.

Qui come altrove è solo dalla contaminazione e dal rafforzamento reciproco fra commento e immagini che il film acquisisce la sua inedita potenza espressiva. Lo stile franto e gli accostamenti imprevedibili sorretti da un disegno autoriale forte contribuiscono così a dare allo spettatore l’impressione che tutto ciò che sta guardando sia un documento vero, autentico delle più assurde stranezze dell’uomo. E poco importa che alcuni episodi (quello del monaco buddhista in Mondo cane 2 ha fatto scuola) siano notoriamente frutto di ricostruzione: «la finzione jacopettiana giunge a essere più credibile della realtà stessa, perché si appropria di quegli strumenti […] che per convenzione riflettono le caratteristiche estetiche della realtà al cinema».[17] Siamo lontanissimi dal sogno baziniano di un’immagine in grado di aderire perfettamente al reale in virtù del suo carattere indessicale: ciò che vediamo sullo schermo è comunque una finzione e il suo più o meno marcato realismo dipende dall’adozione di un certo linguaggio, dalla costruzione di una determinata disposizione retorica.

I film del filone mondo, proprio a partire dai primi titoli realizzati da Jacopetti, giocano molto consapevolmente sull’indecidibilità circa lo statuto di realtà delle immagini, in direzione di una progressiva e sempre maggiore insistenza sulle componenti violente e macabre di ciò che viene rappresentato. Si tratta di una strategia enunciativa che riletta oggi, in un’epoca di profonde mutazioni visuali e di virtualizzazione della realtà, appare straordinariamente moderna. Negli anni la morbosa fascinazione per queste immagini proibite è andata crescendo e i film del genere si sono serializzati diventando sempre più assurdi e meno credibili. Già intorno agli anni 2000 Daniele Aramu, intervistando Angelo e Alfredo Castiglioni, aveva evidenziato questa difficoltà riguardo a uno dei loro film:

Anche nei casi più impensabili sappiamo che il documentario si è servito della fiction, un dubbio che nel vostro caso mi è parso di provare in Addio ultimo uomo, assistendo alla scena in cui una vendetta tribale culmina con l’evirazione di un uomo…
No, quella è una scena vera. Eravamo tra questa popolazione da parecchio tempo […]. Tanto era l’odio, il desiderio di caricare l’energia che si era accumulata in quei giorni di preparativi, che noi per loro eravamo una presenza del tutto inesistente […]. Alcune scene erano talmente eclatanti da sembrare ricostruite, ma è stato possibile proprio perché c’era un disinteresse completo di questi guerrieri nei nostri confronti.[18]

È già a partire dal primo Mondo cane che questa indecidibilità di fondo permea il tessuto dei mondo movies, esplicitandosi attraverso precise strategie testuali di costruzione dello statuto dell’immagine. Ciò avviene sostanzialmente a due livelli: quello della comunicazione pubblicitaria e quello dell’istanza meta-rappresentativa all’interno del film. Per quanto riguarda la prima prospettiva, ricordando i suggerimenti di Genette sulla valenza semantica del paratesto,[19] è possibile identificare – nei poster e nelle locandine di diversi mondo – una costante interpellazione nei confronti dello spettatore. Il poster promozionale inglese per Mondo cane 2 è già emblematico: vi si legge a chiare lettere un’unica frase oltre al titolo della pellicola «Twice as shocking… Twice as daring». Si tratta di una tradizione che continuerà con i titoli successivi, nei quali le frasi sulle locandine sfideranno direttamente il pubblico ad affrontare proiezioni sempre più estreme per quanto concerne la violenza e l’impatto visivo delle sequenze. Altri esempi sono ovviamente possibili per confermare quest’ipotesi. In essi si riscontra un’identica volontà di sfida ai limiti visuali dello spettatore e al contempo una continua certificazione della veracità delle immagini: «Unbelievable! Incredible! Yet every living scene is real!» (La donna nel mondo); «The most startling motion picture achievement in the history of film-making» (Africa addio); «Too violent to be shown anywhere else in the world. Everything you see is real!» (Ultime grida dalla savana); «Touching or disgusting? Judge for yourself!» (Macabro); «Sweden… When the facts of life are stranger than fiction!» (Svezia, infermo e paradiso); «Un documentario sconvolgente. Quello che non avete mai visto e che non vedrete mai più» (Nudo e crudele); «It’s the film that starts where other MONDO pictures chickened out» (I tabù).[20]

In relazione alle strategie di autenticazione dell’immagine filmica proposte dai mondo movies è poi possibile identificare un topos ricorrente nella continua messa in evidenza della presenza fisica della troupe e del regista sul luogo delle riprese. In questo senso, ancora una volta, il rapporto fra le immagini e il commento è particolarmente funzionale. Mentre infatti la voce over insiste continuamente sulla pericolosità dell’operazione e sui lunghi preparativi che sono stati approntati per riprendere quanto gli spettatori stanno vedendo, le immagini tradiscono spesso la presenza di macchine da presa, microfoni e apparecchiature di vario genere. Questo, insieme al carattere spesso incerto delle riprese, contribuisce a generare una fortissima impressione di realismo. Un esempio particolarmente interessante in questo senso è fornito da una sequenza di Le schiave esistono ancora (Maleno Malenotti, Roberto Malenotti e Folco Quilici, 1964), film che, pur non indulgendo morbosamente nell’oscenità come spesso fanno i mondo, ne mutua per larga parte strategie ed estetica.

In uno dei passaggi cruciali dell’opera, assistiamo al tentativo da parte della troupe di acquistare degli schiavi. La voce over ci informa innanzitutto che «la nostra troupe ha viaggiato per centinaia di chilometri», mettendo subito in evidenza il carattere fisico, performativo dell’impresa. Successivamente la regia ci mostrerà con dovizia di particolari la preparazione delle riprese nel luogo dello scambio: le macchine da presa vengono posizionate e tutto è accuratamente studiato perché dal montaggio si possa ricavare la maggiore quantità di materiale informativo disponibile. Immediatamente dopo è di nuovo il commento a riportare in primo piano il coinvolgimento diretto dei registi, quando si afferma: «Era facile comprare un essere umano. Che emozione si provava? […] Da un punto di vista morale è stata la cosa più facile del mondo». Tale attenzione agli elementi patetici e morali contribuisce ancora una volta a radicare l’istanza dell’autore all’interno dell’immagine, ‘sul luogo del delitto’ potremmo dire. Un esempio particolare è poi fornito da Nudo e crudele (Bitto Albertini, 1984). In una delle sequenze più note assistiamo alla morte in diretta di un ranger americano, attaccato da un alligatore. In modo simile a quanto avveniva in una sequenza analoga analizzata da Gianfranco Galliano,[21] siamo di fronte a un filmato che ha l’aspetto formale di una clip amatoriale, ma che in realtà è costruito in modo molto accurato, con una successione di inquadrature e la variazione di numerosi punti di ripresa. A conferire autenticità al filmato non è solo una sintassi visiva apparentemente innocente, ma anche il commento della voce over, che questa volta – anziché insistere sul proprio posizionamento – decide di tacersi, utilizzando però un linguaggio altamente significativo: «Ecco la cronaca filmata di una vera tragedia avvenuta qualche tempo fa in Florida, trenta miglia a ovest di Miami. Abbiamo deciso di sospendere il commento per rispetto e di lasciarvi alle immagini».

Cronaca, realtà, silenzio della parola che viene sostituita non a caso da una musica dai forti accenti patetici. Tutti questi elementi contribuiscono a situare questo film, e i mondo nel complesso, in una posizione più problematica e moderna rispetto alla questione del rapporto fra l’immagine e il reale. È un tema su cui oggi più che mai è necessario interrogarsi e rispetto al quale il cinema inaugurato da Jacopetti potrebbe rivelarsi un imprevisto laboratorio di analisi.

 


1 Questa è per esempio l’opinione espressa dalla rivista Segnalazioni cinematografiche, che si sofferma sulla capacità del film di indagare «con impressionante realismo e con discutibili inclinazione al macabro e all’orrido, vari aspetti della vita e del costume del nostro tempo» (1962). Ugualmente sprezzante è il giudizio di altri periodici come Stampa sera, che il 5 aprile 1962 lo definisce un almanacco «di ciò che è più bizzarro, strano e urtante». Interessante, soprattutto in relazione al suo futuro ruolo nella redazione del commento di alcuni importanti mondo movies (nonché del testo-denuncia L’occhio selvaggio di Paolo Cavara), il giudizio di Moravia, che definisce «probabilmente patologica» l’inclinazione alla ricerca dell’orrido di Jacopetti. La recensione di Moravia è oggi raccolta in A. Moravia, Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990, Milano, Bompiani, 2010. Per una puntuale ricognizione degli interventi critici sui film di Jacopetti si rimanda al documentato (anche se spesso eccessivamente militante), volume di S. Loparco, Gualtiero Jacopetti. Graffi sul mondo, Piombino, Il foglio letterario, 2014.

2 Ciò si è tradotto, in generale, in un disinteressamento quasi totale a livello critico e accademico nei confronti del genere. In Italia ad oggi non esiste un volume riassuntivo che provi a ragionare, a più di cinquant’anni dall’uscita di Mondo cane, sul suo valore seminale e sull’eredità che ha lasciato nel nostro modo di guardare le immagini. L’unica introduzione al genere, utilissima per orientarsi in una selva di film spesso di difficilissima reperibilità, ma purtroppo inefficace come strumento critico, è A. Bruschini, A. Tentori, Nudi e crudeli. I mondo movies italiani, Milano, Bloodbuster, 2014.

3 Si allude, in particolare, all’opera di divulgazione portata avanti dalla rivista Nocturno (di cui saranno forniti in seguito i riferimenti bibliografici), che già nel 2000 era tornata a interrogarsi sui mondo movies con un ricco dossier di interventi, completato da preziose interviste ai protagonisti del genere.

4 L. Miccichè, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Venezia, Marsilio, 2002, p. 128.

5 Ibidem.

6 Questo vale soprattutto per l’ambito italiano. A livello internazionale la fortuna dei mondo è stata sorprendente non solo a livello di pubblico ma anche e soprattutto per quanto concerne la produzione teorica. A fronte di una pubblicistica che, soprattutto recentemente, ha prodotto una nuova ondata di utili contributi in materia, ci limitiamo a segnalare: M. Brottman, ‘Mondo Horror: Carnivalizing the Taboo’, in S. Prince (ed.), The Horror Film, New Brunswick, Rutger University Press, 2004.; D. Bentin, ‘Mondo Barnum’, in G.D. Rhodes, J. P. Springer (ed.), Docufictions: Essays on the Intersection of Documentary and Fictional Filmmaking, Londra, McFarland&Company, 2005; M. Goodall, ‘Schockumentary Evidence: The Perverse Politics of the Mondo Film’, in S. Dennison, S. Hwee Lim (ed.), Remapping World Cinema: Identity, Culture and Politics in Film, Londra, Wallflower Press, 2006; M. Goodall, ‘Dolce e Selvaggio: The Italian Mondo Documentary Film’, in L. Bayman, S. Rigoletto (ed.), Popular Italian Cinema, New York, Palgrave McMillan, 2013; M. Goodall, Sweet & Savage: The World through the Shockumentary Film Lens, Londra, Headpres, 2006. Il discorso relativo a Mondo Cane scorre anche, sebbene solo raramente in maniera esplicita, nel recentissimo N. Jackson, S. Kimber, J. Walker, T. J. Watson (ed.), Snuff. Real death and screen media, Londra, Bloombsbury, 2016.

7 S. Loparco, Gualtiero Jacopetti.

8 S. Della Casa, ‘I generi di profondità’, in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. X, Venezia-Roma , Marsilio-Edizioni di Bianco e Nero, 2001, p. 297.

9 M. Dalla Gassa, ‘Tutto il mondo è paese. I mondo movies fra esotismi e socializzazione del piacere’, Cinergie, 5, 2014 <http://www.cinergie.it/?p=4288> [accessed 7 April 2016].

10 J. Butler, Frames of war. When is life grieavable?, London-Brooklyn, Verso, 2010, p. 70.

11 D. Aramu, ‘Tracce d’artificio. Viaggio alle origini del documentario sensazionalista tra rappresentazione e mistificazione della realtà’, in ‘Mondorama: da Jacopetti alle ultime evoluzioni del genere, una guida al documentario estremo italiano fra realtà e finzione’, Nocturno Book, 23, 2001, p. 5.

12 Al riguardo si vedano le interviste a Gualtiero Jacopetti e a altri testimoni dell’epoca (Franco Prosperi, Riz Ortolani etc.), contenute nel documentario Gualtiero Jacopetti. L’importanza di esser scomodo (Andrea Bettinetti, 2009).

13 Alludiamo qui in particolare al lavoro, peraltro ottimo e molto documentato, di F. Fogliato, Paolo Cavara. Gli occhi che raccontano il mondo, Piombino, Il foglio letterario, 2014.

14 F. Vitella, Il montaggio nella storia del cinema: tecniche, forme, funzioni, Venezia, Marsilio, 2009, p. 64.

15 Ibidem.

16 Al riguardo, cfr. J. Aumont, ‘Rileggere Ejzenštejn: il teorico, lo scrittore’, in S.M. Ejzenštejn, Il montaggio, a cura di P. Montani, Venezia, Marsilio, 1986 e F. Casetti, ‘L’immagine del montaggio’, in S.M. Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, a cura di P. Montani, Venezia, Marsilio, 1989. Per un’immagine non teleologica del montaggio come forma compositiva comune a diversi linguaggi è stato poi fondamentale B. Grespi, Cinema e montaggio, Roma, Carocci, 2010.

17 R. Curti, T. La Selva, Sex and Violence. Percorsi nel cinema estremo, Torino, Lindau, 2007, p. 295.

18 D. Aramu, ‘African voyeurs. Angelo e Alfredo Castiglioni raccontano la loro straordinaria esperienza nel documentario etnologico’, Mondorama, p. 40.

19 Cfr. G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989. Sui paratesti cinematografici si rimanda all’ormai classico studio R. De Berti, Dallo schermo alla carta: Romanzi, fotoromanzi, rotocalchi cinematografici. Il film e i suoi paratesti, Milano, Vita & Pensiero, 2000. Utili osservazioni sul valore del paratesto nel caso specifico dei mockumentary sono forniti da C. Formenti, Il mockumentary. La fiction si machera da documentario, Mimesis, Milano-Udine, 2013.

20 La riproduzione delle locandine citate in questo contributo si trova in A. Bruschini, A. Tentori, Nudi e crudeli.

21 G. Galliano, ‘Dentro la savana. Il sesso, la violenza e la finzione documentaristica nel cinema di Antonio Climati e Mario Morra’, Mondorama, pp. 47-48.