Dal teatro di strada al teatrino video-oleografico. Giacomo Verde contastorie

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Giacomo Verde è narratore, artivista e tecno-artista. In particolare, opera come narratore all’interno del campo della performance teatrale, impiegando, nelle sue narrazioni, tecnologie low-tech per aprire un discorso etico e politico sul loro uso. In nessun caso però diventa uno ‘smanettone tecnologico’ ma mantiene i caratteri del performer teatrale per creare azioni artistiche che incidano significativamente nel tessuto sociale in cui opera. Obiettivo del saggio è condurre un’analisi sulla sua metodologia performativa, prendendo ad esempio alcune sue significative creazioni, per osservare che nel tempo trascorso dalle prime operazioni sino alle ultime Verde è in fondo rimasto il contastorie che negli anni Settanta si esibiva per le strade con la sua voce e la sua gestualità, una modalità performativa che accoglie le tecnologie come ulteriore strumento per dar vita al racconto teatrale.

Giacomo Verde is a narrator, artivist and techno-artist. In particular, he works as a narrator within the field of theatre performance, using low-tech in his tales to encourage an ethical and political debate on their use. In no case, however, he becomes a ‘techno freak’ but maintains the traits of a theatre performer to create artistic actions that significantly affect the social context in which he acts. The aim of this essay is to conduct an analysis of his performative methodology, considering some of his significant creations, to observe that in the time elapsed from the first works to the last ones Verde is the same storyteller who in the seventies performed on the streets with his voice and his gestures, a performance modality that uses technologies as a further medium to give life to the theatre tale.

 

 

 

1. Introduzione

Il 2 maggio 2020 ci lasciava, a seguito di una lunga malattia, Giacomo Verde, narratore, artivista e tecno-artista. L’anno precedente aveva presentatola sua ultima toccante creazione, Il piccolo diario dei malanni, ultimo tele-racconto a trent’anni esatti dal primo, Hansel e Gretel TV,del 1989, ma dai risvolti più intimi e biografici dei precedenti, un testamento artistico e umano che ripercorre la sua vita con sogni, paure, desideri e aspettative.

Dai primi lavori sino agli ultimi, si può cogliere il suo obiettivo artistico,fin da subito messo a fuoco e portato avanti con tenacia: Verde opera come narratore all’interno del campo della performance teatrale, usando nelle sue narrazioni tecnologie low tech, per aprire un discorso etico e politico sul loro impiego. In nessun caso però Verde diventa uno ‘smanettone tecnologico’ ma mantiene i caratteri del performer teatrale per creare azioni artistiche che incidano significativamente nel tessuto sociale in cui opera.[1]

Nelle prossime pagine si condurrà un’analisi sulla sua metodologia performativa, prendendo ad esempio alcune sue creazioni, per osservare quanto Verde, nel tempo trascorso dalle prime operazioni sino alle ultime, sia in fondo rimasto il contastorie che negli anni Settanta si esibiva per le strade con la sua voce e la sua gestualità, una modalità performativa che accoglie le tecnologie come ulteriore strumento per dar vita al racconto teatrale.

 

2. Un attore narratore: alcune premesse teoriche

Giacomo Verde non ama definirsi attore e soprattutto non ama esserlo nella maniera ‘tradizionale’ di concepire l’attore. A tal proposito, in occasione della performance Storie Mandaliche, scrive: «Ultimamente ho assistito a diverse ‘narrazioni’ […]. Bene... di tutte queste narrazioni quelle che funzionano di più […] sono quelle meno teatrali, oppure i momenti meno ‘costruiti’ degli spettacoli teatrali».[2]Non è, dunque, un attore secondo i dettami accademici. Per esempio, non utilizza un testo scritto o meglio lo utilizza in maniera libera:

 

È stata interessante anche una piccola chiacchierata che ho fatto con Massimo Schuster mentre cercava di ‘fare memoria’ del testo riscritto del Mahabarata... e certe parole non c’era verso di farle entrare... certe frasi così buone sulla carta che non giravano nella sua testa... E poi quando l’ho visto raccontare ho notato che in effetti era più incisivo quando esitava, come quando si cercano le parole giuste per dire, o quando usava un ritmo (il vecchio trucco dei contastorie siciliani)... quando era meno teatrale.[3]

 

Verde è, dunque, più propenso a utilizzare il testo come canovaccio per poi improvvisare ed essere più ‘incisivo’nell’incertezza che si crea con l’improvvisazione. Non si pone però contro la tecnica dell’attore tradizionale ma semplicemente non reputa che sia quella adatta a ciò che vuole fare sulla scena:«Come spesso dico: raccontare non è recitare. Spesso gli attori non sono buoni narratori. Io confido nel fatto di NON voler fare l’attore. Non ho mai voluto farlo e meno che mai dopo averne apprese le tecniche da attori importanti».[4]

In cosa consiste però il raccontare di Verde, la sua essenza di contastorie? Se rifiuta gli stilemi dell’attore tradizionale, si è comunque formato, in parte, nel mondo teatrale.[5] Come afferma Sandra Lischi: «La dimensione performativa è forse il suo tratto distintivo stabile in una produzione ricchissima e diversificata che va dal teatro, appunto, al web, dal videofonino alla scenografia elettronica, dal documentario di denuncia alla video-pittura alla installazione».[6]

Tale dimensione performativa sembra affondare in diverse esperienze che esulano dalla figura dell’attore accademico collegandosi a esperienze performative del passato:l’attore della Commedia dell’Arte, le tecniche narrative dei contastorie, gli spettacoli di lanterna magica.

L’attore della Commedia dell’Arte basa il suo mestiere sul canovaccio e su una raccolta di lazzi, su strutture preparate sulle quali improvvisa. Come afferma a tal proposito Fernando Mastropasqua:

 

Gruppi di pezzenti in maschera attraversano le strade impervie e malsicure d’Europa, improvvisando sui palchi delle fiere spettacoli comici […].Qualche straccio, un tavolato, una sporca tendina, costumi rubati al lavoro nei campi, maschere-volto dimezzate. Le parole erano quelle dell’uso comune, spesso in dialetto, dette all’impronta.[7]

 

Peculiarità di questa forma spettacolare è la maschera come carattere che diventa seconda anima dell’attore e la maschera come oggetto da indossare, per assumere sempre quei tratti di riconoscibilità, per cancellare il volto dell’attore e far emergere la sua seconda anima. La maschera-carattere fa a meno del testo scritto e recitato a memoria, piuttosto lavora su consuetudini condivise con gli spettatori, sulle quali può attuare variazioni dettate dall’improvvisazione durante la messa in scena:

 
Il rifiuto del testo scritto derivava dalla condizione di umanità dispersa e angariata. […] La maschera parla con l’immediatezza della vita, dove non si agisce su copione. […] La capacità di recitare a braccio era dovuta all’utilizzo di moduli prefissati, di tirate mandate a memoria, materiali raccolti in zibaldoni, che erano intercambiabili. Lo spettacolo era composto di quadri che si fissavano in moduli a se stanti, al fine di poter essere utilizzati in qualunque occasione, in una forma prefissata o con varianti. Il modulo si determinava in base al lazzo che lo animava.[8]
 

Verde opera secondo questa consuetudine, su un testo-canovaccio e su materiali rielaborati di volta in volta a partire dal modulo fondante la narrazione, scontrandosi, quando inevitabile, con l’eventuale fissità di un testo drammaturgico;Verde è maschera e per tale ragione fa a meno della recitazione e può parlare con l’immediatezza della vita.

Il secondo elemento a cui può essere ricondotta la maniera di raccontare di Giacomo Verde è lo stile dei ‘contastorie’, diversi dai ‘cantastorie’ come fa notare Antonino Buttitta, perché «essi non cantano ma recitano, oppure narrano con una particolare cadenza».[9] Così Giuseppe Pitrè descrive i tratti del contastorie:

 

Il racconto di Rinaldo dev’esser recitato sempre a un modo, con le medesime pause, con la medesima cantilena, con una declamazione spesso concitata, più spesso affannosa, intenzionalmente oratoria; talora lenta, alcuna volta mutata d’improvviso in discorso familiare e rapido. Testa, braccia, gambe, tutto deve prender parte al racconto: la mimica essendo parte essenziale del lavoro del narratore. Sopra una specie di predella, […] il contastorie coi movimenti degli occhi, della bocca, delle braccia, de’ piedi conduce i suoi personaggi, li presenta, li fa parlare come ragion vuole.[10]

 

Da questa descrizione emerge un dato importante che è peculiarità di Verde: il racconto non è sostenuto e basato solo sulla voce ma su tutto il corpo, che diventa lo strumento per una sorta di rituale che segue uno schema stabilito e condiviso piuttosto che un copione scritto e declamato. Inoltre, come si vedrà, i personaggi delle fiabe di Verde seguono alla perfezione questo modello, prendono vita perché acquisiscono la vita che gli infonde tramite voce e gesti.

Questa forma di narrazione si lega sin da subito in Verde con una presenza tecnologica che accompagna le sue creazioni, determinando la stessa drammaturgia che viene costruita proprio in relazione a quelle specifiche tecnologie. Le sue tecnologie però non strizzano l’occhio alle sperimentazioni più innovative e costose ma si basano su un profilo low tech. Come afferma Anna Maria Monteverdi:

 

Le sue ‘oper’azioni’ sono da sempre variazioni sulla necessità di un uso politico e di una riappropriazione-diffusione capillare dei mezzi tecnologici […]. La medesima tensione politica sottende tutte le creazioni di Verde: è una ‘attitudine hacker’ che se non si esprime direttamente nei contenuti, si materializza nell’elaborazione di dispositivi low tech che esemplificano un uso dei media elettronici creativo ma a basso costo e alternativo a quello proposto dal mercato. […]Verde parla di una tecnonarrazione che possa rivitalizzare l’antica arte della narrazione orale con i nuovi strumenti comunicativi e faccia sentire lo spettatore necessario alla rappresentazione.[11]

 

Verde, dunque,utilizza le tecnologie low tech anche per dimostrare le loro alte potenzialità narrative, diversamente da come si possa pensare, creando un perfetto equilibro tra narrazione e dispositivo tecnologico. Tale equilibrio può rintracciarsi in una storica tecnologia, la lanterna magica, considerata antenato del cinematografo sebbene nella sua fruizione presentasse tutti i caratteri di una narrazione di stampo teatrale.

La lanterna magica è un dispositivo provvisto di sistema ottico e fonte luminosa, che proietta immagini dipinte su vetro su una superficie bianca. Nel corso dei secoli è utilizzato per fini scientifici, didattici e spettacolari, dando vita, in quest’ultimo caso, a uno spettacolo basato sulla proiezione di immagini e su un racconto creato dal lanternista, da colui che manovra il dispositivo, che viaggia portandolo in giro.

La studiosa Pesenti Campagnoni analizza la lanterna magica in relazione a un altro dispositivo ottico, la camera oscura, considerandoli come oppositivi nelle funzioni. Questa opposizione è rintracciata dalla studiosa anche nelle diverse forme spettacolari cui i due dispositivi hanno dato vita. Infatti, mentre la camera oscura serve a rappresentare la realtà circostante, la lanterna magica crea una realtà artificiale attraverso la proiezione di immagini spettacolari,[12] crea un racconto di finzione simile a quello teatrale.

Determinante per gli spettacoli di lanterna magica è la figura del lanternista, che non è solo il tecnico che aziona la macchina e cambia i vetrini per le proiezioni ma ricopre la funzione d’imbonitore: è un narratore che manipola metaforicamente le immagini, dando loro senso attraverso i suoi racconti.

Giacomo Verde, nelle sue narrazioni teatrali, è un lanternista-imbonitore, poiché non solo impiega delle macchine in scena ma con quelle macchine costruisce dei racconti che permettono agli elementi prodotti dalle macchine stesse, di assumere senso solo in relazione alle sue azioni performative e alle sue parole.L’esempio perfetto, in cui si può intravedere Giacomo Verde contastorie-lanternista è il tele-racconto, una delle sue prime invenzioni tecno-performative.

 

3. Dal teatro di strada al tele-racconto. La narrazione incontra la tecnologia

Nel 1989 Verde realizza il primo tele-racconto, Hansel e Gretel Tv, una nuova forma di racconto teatrale che utilizza una nuova procedura tecnologica. Per Verde però il tele-racconto è una tappa naturale di un percorso che inizia come narratore puro nelle strade: «Quando a metà anni Settanta ho deciso di fare il cantastorie e il teatro di strada ero mosso dall’esigenza di lavorare a diretto contatto con il pubblico, fuori dalle istituzioni teatrali, e alla ricerca di una cultura viva e popolare. Cercavo le radici del fare teatro».[13]Si dedica, dunque, per un certo periodo al teatro di strada. Per esempio,insieme a Sandro Berti, attore e musicista, dà vita a I Contastorie del T.I.C.. Con questa denominazione, i due prendono parte al Festival di Santarcangelo (1979),realizzando azioni di strada, tra cui La storia del prigioniero triste, intervento in cui alcuni caratteri della Commedia dell’Arte e le tecniche del contastorie si manifestano alla perfezione. La storia raccontata, infatti, si basa su un canovaccio dello stesso Verde e, seppur abbia un inizio e una fine più o meno fissati, è sviluppata di volta in volta in relazione agli spettatori, ricorrendo a delle scene ‘pronte’ che subiscono una continua reinvenzione attraverso il loro innesto con canti e altri materiali della tradizione popolare. Ben presto il percorso fin qui tracciato spinge Verde a una riflessione:

 

Dopo un po’ mi sono accorto che gli strumenti e gli argomenti della cultura popolare (i cantastorie, i saltimbanchi, le fiabe e i burattini) erano utili quasi solamente alla mia sopravvivenza. Infatti li usavo per sopravvivere in una ‘zona franca’ che mi permetteva di esprimere la mia differenza dai modelli culturali dominanti ma non di incontrare una cultura popolare vivente, e nemmeno di fare emancipazione culturale.[14]

 

Prende, dunque, coscienza che quanto sta facendo rappresenta più una sua esigenza ma non riesce a creare un nuovo modo di fare teatro. La cultura che sta per emergere è quella delle nuove tecnologie e dei linguaggi del video, cultura alla quale Verde inizia ad aderire,fondendola con il teatro di strada.

Una delle prime creazioni che usa la tecnologia video è Cattivo tempo (1983) ispirato al fumetto La notte del caimano di Loustal. Sulla scena due televisori fan vedere in video i pensieri dei personaggi mentre delle diapositive mostrano in retroproiezione le tavole del fumetto. Lo spettacolo però non consegue gli esiti sperati, perché la tecnologia utilizzata si rivela un ostacolo per il non perfetto funzionamento.

Così Verde ritorna nella strada ma non abbandonando il contatto con le tecnologie. Inizia l’esperienza dello Zampognaro Galattico, personaggio ispirato ai fumetti per il suo aspetto fisico, che con la zampogna e uno zaino provvisto di casse acustiche e batteria elettronica va in giro, nelle scuole, per le strade, nei locali per dar vita a un numero mai uguale a se stesso seppur basato, anche in questo caso, su una sorta di canovaccio. Sono anni di sperimentazione che lo vedono coinvolto in diversi progetti in cui l’uso del video diventa fondamentale. Nel 1987 partecipa al festival di video-teatro organizzato a Narni da Carlo Infante con l’intervento Colt.V.azione, realizzato insieme al gruppo di Gabrio Zappelli, una sorta di happening in cui in un palazzo popolare di Narni si distrugge un televisore, spargendone i semi che daranno vita a nuove piante televisive. Sarà però nel 1989 che il legame tra Verde contastorie di strada si intersecherà definitivamente con le nuove tecnologie,con quella procedura da lui stesso inventata che è il tele-racconto, un racconto che utilizza i linguaggi e i mezzi televisivi per costruire un racconto teatrale spesso svolto ‘all’improvviso’. Così Verde lo descrive:

 

Una telecamera riprende piccole storie di ‘oggetti’, animate da un narratore in tempo reale e ben visibile dagli spettatori. Un televisore le ritrasmette in diretta, come se fosse una potente lente di ingrandimento, ingigantendo le piccole azioni fino a dargli un senso estetico e narrativo altrimenti non percepibile. Si racconta una storia o una fiaba. Una storia televisiva che cancella la presunta freddezza del mezzo per inoltrarsi nello spazio ideale del racconto. Così nasce il Tele-racconto.[15]

 

Il primo tele-racconto è Hansel e Gretel TV, sviluppato nell’ambito del progetto Molti Hansel e Molte Gretel di Giallo Mare Minimal Teatro, che parte dalla nota fiaba sviluppata attraverso un inedito connubio tra gesti del performer, racconti del narratore, oggetti quotidiani e tecnologie video. In questo esperimento è perfettamente visibile la similitudine con i racconti della lanterna magica. Verde non è più solo il contastorie che costruisce la storia in relazione a un canovaccio e agli spettatori ma questi due aspetti si legano all’uso di un monitor collegato a una videocamera che instaura un rapporto con il narratore e con gli stessi spettatori. La tecnologia, in questo caso, diventa il terzo elemento che permette la costruzione del racconto.

La scena è semplice. Un monitor televisivo che funge anche da tavolino-supporto per gli oggetti e una telecamera puntata sul tavolino per riprenderli in macro. Verde, il narratore, sta dietro il monitor, utilizza quegli oggetti in combinazione con le sue mani che, ripresi dalla telecamera, sono trasmessi in tempo reale e ingranditi sul monitor. Così mezza noce diventa la strega cattiva, un cracker con su raffigurata una casetta diventa la casa di pan di zenzero da sgranocchiare, le dita rugose di Verde diventano gli alberi della foresta e una mentina diventa la luna. Gli oggetti non rappresentano nulla di ciò che vorrebbero raffigurare. È solo il connubio tra narrazione e tecnologia che permette, metaforicamente, la trasformazione di oggetti quotidiani in elementi della narrazione, proprio come i vetrini della lanterna magica che si animavano grazie al racconto dell’imbonitore. Il tele-racconto è, dunque, una moderna forma di lanterna magica, facilmente trasportabile, destinata a piccoli gruppi di spettatori, perché prevede quasi una riunione attorno al dispositivo stesso. L’anima è di sicuro il racconto. Verde si cala dentro i personaggi, altera la sua voce per interpretare i bambini o la strega in maniera volutamente esagerata e caratteristica, raccontando in maniera ritmata e scandita la storia, secondo le tecniche del contastorie.

Giacomo Verde, Hansel e Gretel Tv (1989), Archivio Giacomo Verde

Il tele-racconto rappresenta per Verde un modo di reinventare il linguaggio televisivo, liberandolo da ciò che aveva rappresentano fino a quel momento. Come, infatti, afferma:

 

L’immagine della cosa non è la cosa, ma è l’immagine della cosa e questo scarto fra realtà e sua rappresentazione non deve essere visto in luce negativa, bensì sotto forma di potenziale creativo, che ci permetta di illustrare e concretizzare il nostro immaginario attraverso una modalità di cui fino a quel momento siamo stati sprovvisti, che è appunto quella televisiva. Il problema sta nel fatto che nel sistema televisivo e dei media in generale, si tende ad utilizzare le immagini televisive come rappresentazione del reale e non dell’immaginario. Il tele-racconto fa vedere l’oggetto nella sua realtà, come si trasforma filtrato dalla telecamera attraverso un racconto.[16]

 

Con il meccanismo del tele-racconto, dunque, come afferma Balzola, «si crea una sfasatura percettiva e un’amplificazione espressiva dei dettagli reali, usando e svelando nello stesso tempo l’artificio tecnologico del video».[17]

Il tele-racconto è un altro modo di Verde di intervenire sulla televisione che si coniuga alla distruzione fisica del monitor TV come si è visto per il caso Colt.V.azione e che diventerà parte delle azioni di Giacomo in quegli interventi riuniti sotto il titolo A mettere mano-azione installativa di riciclaggio TV in cui si distruggono i televisori, insieme agli spettatori, per riutilizzare i pezzi in altre situazioni.

Due modi che Verde adotta per intaccare l’intoccabilità del televisore, per liberare il pubblico dalla passività di fruizione e tramutarlo in spettatori attivi, non più massa indistinta ma entità distinguibili, attraverso un’azione fisica da una parte e attraverso il coinvolgimento narrativo e immaginifico dall’altra. Due modi di agire contro il medium televisivo non per distruggerlo ma per liberarlo, che ripropone quelle prime sperimentazioni che Nam June Paik aveva condotto a partire dalla leggendaria Exposition of Music-Electronic Television (1963), considerata come evento di nascita della video arte. In quella mostra Paik distorceva il segnale della televisione trasmesso in tempo reale per alterarlo e ‘attaccare’ il televisore in quanto status symbol. Verde, con il tele-racconto, non altera un contenuto televisivo ma lo cancella totalmente,ricostruendolo da zero e ricostruendo il rapporto tra la televisione e lo spettatore, che diventa soggetto attivo nella costruzione finale del rapporto. Come, infatti, afferma Monteverdi, gli oggetti ripresi in macro non assumono senso per sé stessi ma devono essere associati «alla disponibilità immaginativa del pubblico ad ascoltare il ‘tele-raccontatore’», poiché solo se lo spettatore si dimostrava disponibile a liberare la propria immaginazione quegli oggetti «si trasfiguravano fino a diventare tutto quello che la storia aveva necessità di raccontare».[18]

Il meccanismo narrativo del tele-racconto diventa ben presto una metodologia utilizzata anche da altri artisti. Tra questi l’esperienza di Giallo Mare Minimal Teatro, di FIAT Teatro Settimo e del Teatro della Piccionaia.[19] In molti casi,Verde diventa regista di tele-racconti interpretati da altri, in altri casi la tecnica diventa una vera invenzione cui vari gruppi fanno ricorso indipendentemente dal coinvolgimento in prima persona dell’inventore.

La sua invenzione, dunque, non è un caso fortuito o un episodio limitato alla singola esperienza ma diventa un nuovo metodo di narrazione teatrale dai tratti riconoscibili e dalle specifiche tecniche ben delineate. A proposito del tele-racconto nel 1990 Antonio Attisani scrive:

 

Il teleracconto è apparso al crocevia tra un imprevisto e il disgusto per il teatro. L’imprevisto è costituito dalla richiesta a Giacomo Verde di un video sulla favola di Hansel e Gretel. […] C’era troppo poco tempo e non gli veniva un’idea risolutiva. Così ha preparato in pochi giorni una versione della favola nella quale il racconto a viva voce era arricchito da un monitor nel quale si condensavano le immagini create da Verde stesso.[20]

 

Attisani riconosce già, a un anno circa dal primo tele-racconto, le sue potenzialità, sottolineando non solo i pregi ma anche il suo diffondersi come modalità di racconto teatrale narrativo. Allo stesso tempo,evidenzia anche un atteggiamento del teatro dominante che nega il suo status ‘teatrale’ma sottolinea altresì che tale negazione proviene anche da chi lo sostiene.[21]È questa una delle ragioni che porta Verde a definire il suo agire artistico con arte ultrascenica e non con teatro:

 

Nei primi anni ‘90 avevo deciso di smettere di fare teatro e avevo notato che esistevano tante esperienze di artisti legati al teatro che non venivano considerate ‘teatro’. Anche il tele-racconto in quegli anni non era considerato tale […]. Come si doveva considerare? Avevo allora scritto un documento […]in cui la definivo arte ultrascenica. La comunicazione artistica presentata voleva andare oltre la scena, mettere in campo tutti i media, superare la presentazione frontale della rappresentazione e la forma tradizionale di teatro.[22]

 

Dopo sei tele-racconti, il tele-racconto inizia a mutare e,in qualche caso, la narrazione fatta attraverso la parola viene meno. Nel 1992 Verde crea RI-: immagini d’eco, un racconto senza voce, realizzato mediante il connubio di immagini e musica, una sorta di metaracconto, un viaggio dentro lo schermo televisivo, poiché le immagini raccontano l’essenza delle immagini stesse. Infatti, la telecamera riprende un piccolo schermo televisivo che trasmette le immagini catturate in tempo reale da quella stessa telecamera. Questa esperienza rappresenta il passaggio naturale a una nuova invenzione di Verde, quella del video-fondale:

 

Ho, poi, continuato a realizzare immagini live come video-fondali per i reading di poesia di Lello Voce. La tecnica era quella utilizzata per il tele-racconto (del 1989): la ripresa in macro di oggetti, disegni o mani che entrano in scena, nella videoproiezione, seguendo il ritmo del reading e il significato del testo, usando pochissimi effetti speciali tra quelli incorporati nella videocamera. Io sono sempre in vista, sul palco, in modo che gli spettatori possano vedere come nascono le immagini e fare il confronto tra la percezione teatrale, reale, dell’azione e il risultato ottenuto nello schermo. Questa è una costante che ho sempre mantenuto nella creazione di video-fondali: rivelare e non nascondere la macchina e il suo funzionamento.[23]

Negli anni Novanta, dunque, sembra che Verde abbia abbandonato il suo essere contastorie. A prevalere è la tecnologia sebbene non venga meno l’aspetto performativo. Manca la parola ma Verde narra per immagini e non si nasconde alla vista degli spettatori, sta sul palcoscenico per mostrare come si realizzano le immagini dei fondali. L’atto di costruzione dell’immagine, dunque, diventa pienamente elemento della narrazione per demitizzare il ruolo dell’immagine nella società e darle un nuovo senso. Giacomo Verde contastorie è dunque scomparso per lasciar spazio esclusivamente al visual artist?

 

4. Dal tele-racconto al tecno-teatro: il cyber-narratore di Storie Mandaliche

Nel 1998 comincia l’avventura di Storie Mandaliche, il primo spettacolo italiano interattivo e ipertestuale, che per Verde segna il passaggio al tecno-racconto ma di nuovo in qualità di contastorie. Si tratta di un progetto che si allontana dal concetto di produzione di uno spettacolo teatrale e si sviluppa secondo un processo di work in progress, di laboratori che passo dopo passo aggiungono pezzi. Storie Mandaliche rappresenta appieno il significato di tecno-teatro, una nuova forma teatrale in cui la fase di sviluppo e progettazione non è la tappa per arrivare al confezionamento del prodotto finale ma è lo spettacolo stesso, un progetto in cui i nuovi linguaggi alterano l’iter canonico di produzione a partire da un testo teatrale e dove il testo perde la sua fissità e diventa fluido all’interno di un procedimento di creazione senza gerarchie tra gli elementi.

Dopo la telecamera che riprende oggetti e li trasmette in tempo reale, il contastorie compie una sorta di upgrade tecnologico e diventa cyber-narratore, poiché si avvale di video-fondali, che adesso sono anche interattivi, per raccontare sette storie collegate dalla natura ipertestuale della scrittura.

Per il progetto si crea un gruppo giovane che diventa una vera associazione, ZoneGemma, laboratorio teatrale nomade di cultura biotecnologica. L’estro creativo di Verde, infatti, riesce a coinvolgere nel progetto Andrea Balzola, per lo sviluppo di una nuova forma di drammaturgia definita dallo stesso autore ‘multimediale’ e di natura ipertestuale, Massimo Cittadini, computer artist che si occupa del Mandala System, Anna Maria Monteverdi, studiosa e critica, incaricata di tenere un diario di lavoro ma anche di fornire feedback creativi. Al gruppo si aggiungerà il compositore Maurizio Lupone, che curerà la parte sonora.

Le storie raccontate sono accomunate da una tematica comune: il Mandala. Come si può leggere nella pagina di Zone Gemma,

 

il termine ‘Mandala’ significa in sanscrito ‘cerchio magico’ o ‘mistico’ ed è, secondo Jung, il simbolo della meta del Sé come totalità psichica. Le rappresentazioni a forma mandalica sono archetipi universali e sorgono nell’attività onirica e immaginaria per lo più in situazioni caratterizzate da disorientamenti e perplessità, stati d’animo tipici di questo periodo segnato anche da mutazioni tecnologiche che mettono continuamente in discussione il senso della propria identità. Le ‘Storie Mandaliche’ che raccontiamo parlano appunto di questo: di esseri e sentimenti in trasformazione.[24]

 

Nasce così la prima versione di Storie Mandaliche a cui ne seguiranno altre due. La differenza principale che si rintraccia tra le tre versioni risiede nelle tecnologie e nell’assetto spaziale della messa in scena ma si avrà modo di vedere che la differente tecnologia influenza anche la narrazione e il ruolo del narratore.

L’ipertesto drammaturgico rappresenta il punto di partenza per comprendere i diversi tipi di narrazione che si incontrano nel progetto. In campo informatico, l’ipertesto è un testo che perde la sequenzialità della narrazione e acquista una modularità nella sua composizione. I vari elementi dell’ipertesto sono collegati da link secondo uno schema a rete in cui il lettore è libero di creare il proprio percorso di fruizione. L’andamento drammaturgico di Storie Mandaliche segue questa modalità di scrittura e di messa in scena. È, infatti, lo spettatore a decidere il punto di partenza che, dunque, non è prestabilito come in una narrazione sequenziale. Da questo punto di partenza è poi il narratore Verde che decide il percorso da attraversare nella rete ipertestuale del racconto in relazione alle reazioni degli spettatori, così come accadeva nei suoi spettacoli di contastorie.

Il testo, seppur scritto nella sua natura ipertestuale e adattato per la scena, si scontra con le tecniche narrative di Verde, con quel metodo che utilizza un canovaccio, una traccia della trama, su cui costruire il racconto. Ciò di cui c’è bisogno è un punto di incontro tra la narrazione scritta e la narrazione da ‘performare’. Si sono già citate le parole di Verde,scritte proprio in occasione di Storie Mandaliche, sul non voler essere un attore e allora qual è la soluzione? Continuare a essere un contastorie, seppur si dispieghi un complesso apparato tecnologico e un racconto scritto ma comunque ipertestuale, il che garantisce una libertà che un testo drammaturgico tradizionale non consente. Scrive, infatti, Verde:

 

Confido nel fatto di riuscire a trovare delle motivazioni ‘sincere e urgenti’ che vanno oltre e nascono prima del fare ‘un bel tecno-spettacolo’. Confido nel fatto di non riuscire ad avere una buona memoria del testo: il che mi mette in una condizione di rischio molto vitale. Penso che saranno solo le parole davvero necessarie che mi rimarranno in testa e ‘nel corpo’.[25]

E a distanza di anni Andrea Balzola ricorda quelle difficoltà dettate da diverse motivazioni che si concatenavano:

 

Il passaggio dal testo scritto alla sua messinscena teatrale e multimediale naturalmente non fu semplice né tantomeno lineare, per trovare la forma finale del copione lavorai a lungo insieme a Giacomo, con molteplici riscritture e assestamenti. Di fatto il rapporto di Giacomo con la parola era molto diverso dal mio, quasi opposto, lui partiva dall’immagine e dalla performance dal vivo, aveva spesso usato testi nei suoi progetti artistici e performativi, ma sempre in chiave di spunto e canovaccio libero e frammentario su cui improvvisare. Il confronto con una struttura definita e complessa del testo drammaturgico lo metteva in difficoltà, sia sul piano della memorizzazione non essendo lui un attore professionista ma un performer, sia sul piano della libertà d’improvvisazione, ed anch’io mi ritrovavo su un territorio nuovo, atipico per il teatro, di continua rimessa in discussione delle modalità espressive, di una ricerca avventurosa per creare un intreccio dei linguaggi multimediali, dove la parola poteva guidare il percorso ma non doveva prevaricare sull’immagine, sul suono, sulle modalità affabulatorie di Giacomo.[26]

Fino a quel momento, Balzola aveva collaborato con personaggi come Luca Ronconi, Marisa Fabbri in veste di drammaturgo. Anche per lui quel metodo di scrittura ipertestuale è qualcosa di nuovo. La novità della scrittura deve poi incontrarsi con le modalità narrative ‘libere’ di Verde e soprattutto con i video-fondali, che non devono essere un ornamento scenografico ma elemento drammaturgico di natura visiva, per cui la parola scritta deve essere uno degli elementi e non l’elemento che domina e ordina gli altri. Tutte le prospettive del teatro tradizionale vengono meno. Com’è ordinata, dunque, la scena? Nella prima versione,

 

la narrazione teatrale ha come unico elemento scenografico una piramide di legno a tronco rovesciato, come la montagna sacra della tradizione induista, intorno al quale il narratore agisce e racconta ripreso dalla telecamera posizionata a terra e con il pubblico seduto nel perimetro mandalico. […] Lo spettatore teatrale, collocato dentro il cerchio, entra dentro la narrazione, nel crocevia di tutte le storie con le immagini e i suoni in continua trasformazione grazie al programma informatico Mandala System.[27]

Il Mandala System, sviluppato in Canada dal Vivid Group e gestito per Storie Mandaliche da Massimo Cittadini, è il sistema che permette al narratore di agire in relazione ai video-fondali interattivi,congiungendo le riprese di oggetti reali con oggetti digitali generati al computer. È collegato al software MAX/MSP che consente anche l’interattività della componente audio ed è, inoltre,adattato al racconto ipertestuale di Balzola e alle necessità narrative di Verde. Come racconta Monteverdi:

 

Massimo Cittadini lavora con un Amiga 3000 (sistema operativo ufficialmente ‘morto’ nel 1993), l’unico in grado di gestire la scheda hardware. I personaggi, a causa della bassa risoluzione del sistema, erano astratti e disegnati in maniera molto primaria (diventando quasi vere forme ‘archetipiche’!); ma questo limite è diventato il punto di forza e la caratteristica della prima versione di Storie Mandaliche: i personaggi erano connotati da pochissimi elementi e colori senza sfumature.[28]

Il racconto del cyber-narratore, dunque, si lega a delle immagini proiettate alle sue spalle che rispondono ai suoi gesti, modificandosi e generando anche suoni in tempo reale secondo l’andamento della narrazione gestita da Verde. Come spiega Monteverdi,

 

la videocamera riprende in diretta il corpo o la mano del narratore che viene digitalizzata in tempo reale e la sagoma della figura ripresa, appare sovrapposta alle immagini e agli oggetti generati, invece, dal computer. Se la mano o il corpo ripreso dalla telecamera ‘tocca’ (virtualmente) qualcuno degli oggetti, crea eventi di tipo visivo e sonoro, generando in diretta situazioni in continua trasformazione trasmesse nello schermo o nei quattro monitor angolari.[29]

Come funziona, invece, il ruolo di narratore in questa prima versione? L’assetto con il Mandala System ha i suoi pro e i suoi contro in relazione alle tecniche di narrazione di Verde. Per far sì che i suoi gesti siano tracciati dalla videocamera e possano quindi interagire e fondersi con i fondali in questa realtà virtuale 2D, Verde può compiere delle azioni limitate, perché non può allontanarsi troppo dalla piramide, penail non funzionamento del sistema interattivo. Alla limitata possibilità di movimenti nello spazio, fa da contraltare una libertà, nella parola, seppur non totale come nel teatro di strada e nel tele-racconto, che è permessa dalla drammaturgia ipertestuale, che essendo comunque scritta è diversa dal canovaccio e per tale ragione più rigida. Il piano in cui Verde è totalmente libero è quello visivo, poiché il narratore manipola a proprio piacimento, e in relazione alla storia che sta raccontando, le immagini dei video-fondali, essi stessi parte di questa grande costruzione drammaturgica. Il narratore diventa, dunque, secondo la stessa definizione di Verde, cyber contastorie proprio in relazione alla possibilità di manipolare in tempo reale le immagini in videoproiezione.{sansone_verde_s_fig2|Giacomo Verde in Storie Mandaliche (1998), Archivio Giacomo Verde}

La seconda versione di Storie Mandaliche abbandona il Mandala System, passando alla tecnologia Flash MX per le animazioni dei video-fondali. Il Mandala System inizia a stare stretto a causa della continua metamorfosi della dimensione narrativa ma anche per la gestione della componente grafica e sonora. La nuova tecnologia permette la facile implementazione dei materiali visivi. Per lo sviluppo della nuova componente grafica il gruppo coinvolge Lucia Paolini. Il lavoro parte dalla dimensione visiva della prima versione che è elaborata e arricchita anche dalla creazione di nuovi materiali visivi. Viene meno però il livello di interattività intesa in senso stretto. I video-fondali, infatti, non reagiscono più ai gesti del narratore. Ciò che fa Verde è gestire e richiamare, attraverso click del mouse, i vari elementi grafici in relazione alle diverse storie che sta raccontando. Il passaggio alla nuova tecnologia modifica tutti gli aspetti narrativi.

Il sistema, non utilizzando più tecnologie di motion tracking per catturare i gesti del narratore e modificare di conseguenza l’aspetto visivo, libera Verde dalla limitata possibilità di muoversi sulla scena. Se con il Mandala System doveva rimanere nell’intorno della piramide per interagire con la videocamera, adesso può occupare liberamente lo spazio scenico dopo aver richiamato l’immagine visiva che gli occorre. Nella prima versione, dunque, la performance da narratore dipendeva dal sistema tecnologico. In questa versione, invece, è il narratore ad avere totalmente in pugno il controllo della tecnologia. Le animazioni in Flash, dunque,agevolavano la sua narrazione. Deve solo andare avanti e indietro con un click,seguendo l’andamento della storia. Rispettando, quindi, nei limiti del possibile la grafica, Verde è più libero. Non può accadere niente che lui non possa controllare e per questo motivo può giocare liberamente con gli spettatori. Questo aspetto condiziona anche il rapporto che intrattiene con la drammaturgia di Balzola. La maggior libertà sulla scena, lo porta quasi spontaneamente a trattare in modo altrettanto libero il testo drammaturgico. Verde recupera in toto il suo status di contastorie e questo aspetto rischia di trasformare la drammaturgia in un canovaccio. Nelle prime prove con il nuovo sistema, infatti, si allontana molto dal testo nella sua versione scritta e quindi si apre un bivio: difendere la scrittura dell’autore ma limitando la natura di Verde contastorie o permettere al contastorie di creare un proprio ipertesto sempre diverso sull’ipertesto scritto. La soluzione è una mediazione tra le due strade, per preservare la ‘spontaneità’ della performance di Verde senza intaccare il testo di Balzola. La parola scritta e la parola ‘contata’, infatti, assumono più importanza che nella prima versione, perché adesso i video-fondali assumono realmente un senso solo in relazione a come la parola li gestisce, mentre prima l’interattività poteva donare loro una autonomia narrativa. Per realizzare la versione stabile, Verde è protagonista di una tournée domestica di Storie Mandaliche, una versione priva di qualsiasi supporto tecnologico, in cui recupera l’anima del contastorie e testa l’efficacia del testo in relazione alle sue azioni performative. È forse qui che riesce a trovare la mediazione tra l’autorialità del testo e la propria libertà espressiva.

Giacomo Verde in Storie Mandaliche 2.0 (2003), foto R. Buratta, Archivio Giacomo Verde

La versione 3.0 di Storie Mandaliche cambia fondamentalmente nell’assetto scenico. La versione 2.0 era costruita secondo una visione frontale della scena mentre la 3.0è a pianta centrale con quattro schermi che circondano spettatori e narratore che continua a gestire le animazioni proiettate. Il suono, inoltre, è spazializzato, il che contribuisce a creare una immersione dello spettatore dentro la scena ancora più profonda. Verde, in questa occasione, è al centro della scena, su una piattaforma circolare e mobile da cui dà vita alla narrazione che sostanzialmente segue l’assetto già impiegato per la versione precedente.

Ciò che ha reso possibile un’operazione come Storie Mandaliche è stato il passaggio dalla narrazione alla ‘tekno-narrazione’, che rende ancora più forte il legame che si instaura tra chi racconta e chi ascolta proprio per il tramite di nuovi strumenti comunicativi.[30]

 

5. Dal teatrino video-olografico al ‘tele-racconto’

Nel 2016 Verde crea lo spettacolo L’albero della felicità, tratto dalla fiaba polacca Il melo incantato e prodotto da Aldes. Torna, dunque, alle fiabe e per raccontarle impiega le nuove tecnologie. Il monitor e la videocamera del 1989 diventano video-ologrammi. Anche in questo caso continua a essere fedele al suo credo tecno-artistico, la tecnologia low tech, per dimostrare che non è la tecnologia più innovativa a rendere lo spettacolo interessante.

La tecnica olografica di Verde, infatti, affonda nei trucchi degli spettacoli dell’Ottocento piuttosto che nei contemporanei sviluppi delle costose e articolate tecniche olografiche. In particolare, riprende la tecnica del Pepper’s Ghost messa in pratica nel XIX secolo da John Pepper, che si basa su un trucco del XVI secolo di Giovanni Battista della Porta, trasformandolo in una tecnica teatrale illusoria per produrre l’apparizione di fantasmi in scena, attori reali dalle parvenze fantasmatiche. Nel sottopalco del teatro si crea una stanza nascosta dove sta l’attore. La sua sagoma, quando deve apparire come fantasma, è illuminata da una forte luce. Sopra la stanza, nella parte visibile del palco,è posta una lastra di vetro inclinata e non visibile al pubblico. La lastra riflette l’attore illuminato, provocando l’effetto fantasmatico della sagoma.

Gli ologrammi de L’albero della felicità si ispirano a questo espediente. Verde utilizza una scatola nera con un monitor rivolto verso l’alto (il corrispondente dell’attore del Pepper’s Ghost) collegato a un computer che trasmette le immagini in 3D dei personaggi della fiaba. Sulla scatola vi è uno schermo trasparente inclinato che riflette le immagini in 3D trasmesse dal monitor sottostante, dando vita all’apparizione dei personaggi. Come afferma Monteverdi:

 

Le figure generate con il programma di computer graphic Daz 3D Studio sembrano prelevate dalle illustrazioni delle fiabe antiche, mescolate ai personaggi dei videogame creati per questo teatrino olografico. Sempre fedele all’artigianalità del manufatto tecnologico, Verde studia la possibilità di far apparire ‘magicamente’ i personaggi evocati dalla storia, esattamente di fronte allo spettatore quasi con una loro corporeità palpabile, senza supporto di proiezione come fondale.[31]

 

Dietro la lastra trasparente Verde, come un alchimista, sembra evocare dal nulla i personaggi della fiaba con cui dialoga a tu per tu o ai quali dà la voce, ne replica i movimenti, entra in simbiosi con loro, il suo volto è parte del racconto stesso. Dietro alle immagini 3D torna a essere nuovamente il contastorie di strada. Della fiaba non ha un testo fissato da decantare ma conosce le dinamiche e le elabora ogni volta in tempo reale, in simbiosi con i personaggi 3D, che sono utilizzati in maniera diametralmente opposta dall’impiego comune. Non sono personaggi di un lungometraggio 3D ma pezzi di una narrazione teatrale, di un teatro di figura in cui le figure sono digitali ma la narrazione rimane di stampo teatrale. Solo l’interazione in tempo reale col loro burattinaio può dar lorola vita. Chiusa la scatola, rimosso il vetro trasparente, rimangono solo dei caratteri in 3D muti su uno sfondo nero.

Giacomo Verde, L’albero della felicità (2016), Archivio Giacomo Verde

De L’albero della felicità esistono anche due versioni ridotte, intitolate La piccola storia del melo incantato, che cambiano nella durata (la narrazione si riduce)e subiscono anche una miniaturizzazione e modifica della scena. A modificarsi però è nuovamente la narrazione, il come Verde gestisce la storia in relazione al diverso contesto scenico. La scatola nera, infatti, scompare e lo spettacolo prende vita attorno a un tavolo, assumendo una conformazione a pianta centrale. Sul tavolo vi è sempre un piccolo monitor rivolto verso l’alto che trasmette le animazioni 3D che questa volta prendono vita, sotto forma di video-ologrammi, dentro una piccola piramide capovolta e trasparente. Ritorna dunque uno degli elementi scenici e tecnici di Verde, la piramide presente in Storie Mandaliche.

Giacomo Verde, bozzetto de L’albero della felicità e bozzetto deLa piccola storia del melo incantato (2016), Archivio Giacomo Verde

Delle due versioni una è da teatro di strada,progettata per un massimo di sessanta spettatori disposti ai quattro lati del tavolo e una è più intima, una versione da salotto, da teatro da camera, dove il monitor diventa un tablet, la piramide si rimpicciolisce e si possono ospitare tre spettatori per ogni lato del tavolo. Il teatro, dunque,si fa tascabile e trasportabile e anche la casa di un amico diventa per Verde l’occasione per sperimentare i suoi racconti, verificare le reazioni in un ambiente ‘protetto’ e trasportare le eventuali correzioni anche nelle versioni più istituzionali. Una procedura che Verde contastorie persegue da sempre, come si è visto anche in Storie Mandaliche. In queste due versioni, Verde abbandona la tipica frontalità teatrale e inizia ad aggirarsi,mentre racconta, tra gli spettatori. È nuovamente il contastorie che tra i suoi aggeggi utili alla narrazione usa quelli digitali. Non sono le tecnologie che usano una dimensione teatrale-performativa per dare sfoggio di sé stesse ma è quella dimensione teatrale-performativa che utilizza quelle tecnologie come elementi per costruirsi.

Giacomo Verde, La piccola storia del melo incantato (2016), fotoDIANE|Ilaria Scarpa_Luca Telleschi

E si arriva al 2019, a un ritorno del tele-racconto‘puro’, a trent’anni esatti dal primo, all’ultima creazione di Verde prima della sua scomparsa prematura.

Un tavolo con una lampada, una videocamera che riprende il tavolo e ciò che vi si pone sotto, uno schermo di proiezione che mostra le riprese in macro di ciò che riprende. Il narratore che dietro il tavolo manovra la videocamera e parla con gli spettatori e con loro costruisce la narrazione. Questa è la scena de Il piccolo diario dei malanni. La storia però non è più quella di una fiaba ma la realtà, quella fatta di cadute e risalite, di acciacchi, di momenti belli e brutti, di quella malattia, grave, tumore alla prostata, che lo affliggerà. Il racconto però è lontano da ogni retorica del dolore e del pietismo e diventa parte di quella modalità affabulatoria e sorniona che caratterizza Verde. Già l’inizio fa capire agli spettatori che il tono della performance è lontano da quello che ci si potrebbe aspettare: un’agendina, ‘brandizzata’ dal nome di una casa farmaceutica, regalatagli dal fratello, informatore medico. Cosa fare con quell’agenda? Scrivere un diario tramite appunti e disegnini, chiedere agli amici dei malanni avuti da piccoli, quando la malattia era ‘divertimento’ perché si saltava la scuola e poi quella malattia cattiva, che può anche portare alla morte ma cercando di viverla sempre sdrammatizzando, così come fa Verde per tutta la narrazione («Non mi ero mai accorto di quanto fosse bello fare la pipì»).

Giacomo Verde, Il piccolo diario dei malanni (2019), Archivio Giacomo Verde

Non ci sono oggetti che diventano qualcos’altro come in Hansel e Gretel ma solo quell’agendina posta di fronte alla videocamera che riprende i disegni di Verde e prende vita grazie alle sue parole. Un racconto semplice che si sviluppa anche in aperto dibattito con gli spettatori. «Quanti modi ci sono per mangiare una mela?» chiede nel prologo, unico momento, prima dell’intenso finale in cui Verde chiude lo spettacolo danzando, in cui la videocamera non riprende l’agendina. Un prologo in cui Giacomo spiega che tra i vari modi di tagliare una mela ce n’è uno che permette di rivelare un simbolo nascosto, una stella a cinque punte, «simbolo di vita, simbolo dell’uomo e simbolo dell’immortalità», quella mela che permette di far entrare nell’agenda anche La piccola storia del melo incantato con il suo albero di mele magiche che guariscono da ogni malattia, quella mela che a un certo punto dello spettacolo verrà mangiata dal narratore, desiderio e speranza della guarigione. Un anno dopo però Giacomo Verde muore. Quella mela non ha salvato la sua vita ma la sua immortalità è quella che resta in chi lo ha conosciuto e in chi non lo ha conosciuto e lo conoscerà attraverso ciò che ha creato. Giacomo Verde, il cyber-contastorie, ci lascia il suo meraviglioso archivio, ancora da studiare, da scoprire, da catalogare e sistemare, un archivio fatto di disegni, oggetti, riprese di ogni tipo della sua vastissima attività, un archivio che, come un piccolo melo incantato, è pronto a dare i suoi frutti a chi li vorrà cogliere.

 


1 Per una biografia artistica di Giacomo Verde cfr. <http://www.verdegiac.org>; G. Verde, Artivismo tecnologico. Scritti e interviste su arte, politica, teatro e tecnologie, Pisa, BFS Edizioni, 2007; S. Vassallo (a cura di), Giacomo Verde videoartista, Pisa, ETS, 2018; Connessioni Remote, 1, maggio 2020, ‘Giacomo Verde tecnoartista’ <https://riviste.unimi.it/index.php/connessioniremote/issue/view/1557> [accessed 30.03.2021]; 93% Materiali per una politica non verbale, 17 (Giugno 2020), ‘Omaggio a Giacomo Verde’ <https://novantatrepercento.it/archivio/> [accessed 30.03.2021]. Una possibile bibliografia in cui si parla di Giacomo Verde: M. Ambrosini, G. Maina, E. Marcheschi (a cura di), Il film in tasca. Videofonino, cinema e televisione, Pisa, Felici, 2009; A. Balzola, A. M. Monteverdi, Le arti multimediali digitali, Milano, Garzanti, 2004; A. Balzola, La scena tecnologica. Dal video in scena al teatro interattivo, Roma, Dino Audino, 2011; T. Bazzichelli, Networking. La rete come Arte, Milano, Ed. Costa & Nolan, 2006; M. Borelli, N. Savarese, Te@tri nella rete: arti e tecniche dello spettacolo nell’era dei nuovi media, Roma, Carocci, 2004; G. Callegari, Educablob - Laboratorio della comunicazione audiovisiva, Trento, Erickson, 2003; S. Cargioli, Sensi che vedono: introduzione all’arte della videoinstallazione, Pisa, Nistri-Lischi, 2002; A. Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, Padova, Franco Muzio, 1996; L. Gemini, L’incertezza creativa: i percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, Milano, Franco Angeli, 2003; C. Infante, Imparare giocando. Interattività tra teatro e ipermedia, Torino, Bollati Boringhieri, 2000; A. M. Monteverdi, La maschera volubile, Corazzano, Titivillus, 2001; Ead., Nuovi media, nuovo teatro, Milano, Franco Angeli, 2011; Ead., Leggere uno spettacolo multimediale, Roma, Dino Audino, 2020; A. Pizzo, Teatro e mondo digitale: attori, scena e pubblico, Venezia, Marsilio, 2003; Id., Neodrammatico digitale. Scena multimediale e racconto interattivo, Torino, Accademia University Press, 2013; C. Presotto, L’Isola e i teatri, Roma, Bulzoni, 2001; E. Quinz, Digital Performance, Paris, Anomalie Digital Arts, 2002; M. G. Tolomeo, P. Sega Serra, La coscienza luccicante. Dalla videoarte all’arte interattiva, Roma, Gangemi, 1998; S. Vassallo, A. Di Brino (a cura di), Arte tra azione e contemplazione. L’interattività nelle ricerche artistiche, Pisa, ETS, 2004. Il canale YouTube di Giacomo Verde <https://www.youtube.com/c/verdegiac/videos> e il canale YouTube della rivista Connessioni Remote contengono diversi materiali video dei suoi spettacoli. La ripresa de Il piccolo diario dei malanni è visibile sul canale YouTube del Teatro di Roma: <https://www.youtube.com/watch?v=VY4Kc1Gy8T4> [accessed 30.03.2021].

2 G. Verde, ‘Raccontare non è recitare. Un mail durante le prove di Storie Mandaliche’, testo originariamente pubblicato in A. Balzola, A. M. Monteverdi, Storie Mandaliche, Pisa, Nischi-Lischi, 2004, adesso in Connessioni Remote, 1, maggio 2020, p. 56.

3 Ivi, p. 57.

4 Ibidem.

5 Nel 1980 il Centro di Ricerca Teatrale di Pontedera organizza, sotto la direzione di Paolo Pierazzini e Dario Marconcini, il ‘Progetto Stanislavskij: l’eresia del teatro’ per i dissidenti del Terzo Teatro, particolarmente fecondo in quel periodo. Il progetto prevede una particolare sperimentazione per la formazione dell’attore: fondere le tecniche di base del metodo Stanislavskij con alcune tecniche provenienti dal training su cui si basa il Terzo Teatro. Giacomo Verde rientra tra coloro che superano il provino e sono ammessi al progetto. Inizia a studiare con docenti come Jerzy Sthur del Teatro Stary di Cracovia, Marisa Fabbri, Ryszard Cieslak, Maurizio Buscarino, Aldo Sisillo e affronta diverse discipline. Scrive Verde circa questa esperienza: «Alla fine sento sterile tutto questo studio sul teatro di parola (la prosa, la tradizione). Non riesco a capire come rendere le tensioni, le idee, i sentimenti del mondo in cui vivo attraverso quel tipo di messa in scena, seppur rimodernizzata. La recitazione naturalista, sofferta, attenta al minimo spostamento del sopracciglio mi appare sempre più ridicola e fuorviante: un circo dei sentimenti, una scuola di ipocrisia. Così tutto quello che pensavo di negativo sul teatro di prosa, basandomi sulla mia esperienza di spettatore e sugli scritti teorici di altri (Artaud o Brecht), mi fu riconfermato dall’esperienza diretta. Lasciai il Progetto qualche mese prima della sua conclusione ufficiale e iniziai a lavorare ad un mio nuovo spettacolo» (G. Verde, ‘Anni Ottanta: frantumando generi’, testo originariamente pubblicato in AA.VV., Arte Immateriale Arte Vivente, Ravenna, Essegi, 1994, adesso in Connessioni Remote, pp. 71-72).

6 S. Lischi, ‘Dal vivo: il gesto di Giacomo Verde’, in S. Vassallo (a cura di), Giacomo Verde videoartista, p. 14.

7 F. Mastropasqua, Un teatro di pezzenti. Vaghi pensieri sulla commedia dell’arte, Prinp, 2019, pp. 9-11.

8 Ivi, p. 13.

9A. Buttitta, Cantastorie in Sicilia. Premessa e Testi, Palermo, Banco di Sicilia, 1960, p. 5. Si ringrazia la Biblioteca di Antropologia dell’Università degli Studi di Palermo per la cortesia e la gentilezza dimostrata nella consultazione di questa fonte in questo particolare momento di fruizione delle attività di ricerca a distanza.

10 G. Pitrè, Usi e costumi. Credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Palermo, Libreria L. Pedone-Lauriel di C. Clausen, 1899, I, p. 178.

11 A. M. Monteverdi, ‘Per un teatro tecnologico’, in A. Balzola, A. M. Monteverdi, Le arti multimediali digitali, p. 339.

12 Cfr. D. Pesenti Campagnoni, Quando il cinema non c’era, Torino, UTET Università, 2007, p. 27.

13 G. Verde, Artivismo tecnologico,p. 101.

14 Ibidem.

15 G. Verde, ‘Cos’è il tele-racconto’, in AA.VV., Scritti sul tele-racconto, a cura di G. Verde, inedito, 1989-1992, p. 3, pubblicato per la prima volta in Connessioni Remote, Allegato 2 (Dossier Tele-racconto).

16 G. Verde in T. Bazzichelli, Intervista a Giacomo Verde, 1998 <http://www.strano.net/bazzichelli/pdf/Giacomo_Verde_intervista.pdf> [accessed 30.03.2021] e in Connessioni Remote <https://riviste.unimi.it/index.php/connessioniremote/article/view/13626/12737> [accessed 30.03.2021].

17 A. Balzola, La scena tecnologica,p. 17.

18 A. Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro, p. 183.

19 Il secondo tele-racconto è Lieto il fine, la cui storia è tratta da La Sirenetta di Andersen, su un testo sviluppato da Verde insieme a Vania Pucci di Giallo Mare Minimal Teatro. In questo caso Verde cura la regia e la parte tecnica mentre il ruolo di narratore è ricoperto da Vania Pucci. Dello stesso periodo anche In-colore, tratto da Le cosmicomiche di Italo Calvino realizzato con Adriana Zamboni e Lucio Diana del FIAT Teatro Settimo. Anche in questo caso Verde non è narratore ma si occupa della regia. Per quanto riguarda la collaborazione con il Teatro della Piccionaia si segnala il tele-racconto Fiori rossi sulla pelle. E fu così che la guerra finì (1996), di Carlo Presotto, Giacomo Verde e Paola Rossi che parte da una rilettura e una ‘tele-teatralizzazione’ del libro Fu così che la guerra finì ideato e illustrato dai bambini della scuola elementare di Zindis nel 1993 per riflettere sui valori che possono ripararci dalle guerre (di quegli anni la Guerra dei Balcani). Il tele-racconto assume qui un valore aggiunto poiché la televisione, in quegli anni, aveva raccontato la guerra e adesso serve per raccontare un altro modo di affrontare un conflitto. Per un approfondimento dei tele-racconto di Giallo Mare Minimal Teatro cfr. AA.VV., Scritti sul tele-racconto. Per i tele-racconto di C. Presotto e del Teatro della Piccionaia cfr. L. Bombana, Carlo Presotto e il Tele-Racconto 1993/1999, estratto dal saggio La necessità di un tempo inutile, Vicenza, Ergon, 2005, disponibile su <https://www.academia.edu/45519131/Carlo_Presotto_ed_il_teleracconto_1993_1999?fbclid=IwAR2GXQ1BIn3DFC6dBt576mUUSODYz4S63klsdycV6VVK_mlvfjkVnSC4d9c> [accessed 30.03.2021].

20 A. Attisani, ‘La maschera elettronica’, in AA.VV., Scritti sul tele-racconto, p. 9.

21 Ibidem.

22 G. Verde in T. Bazzichelli, Intervista a Giacomo Verde.

23 G. Verde, ‘Video-fondali e vjing low tech’, in A. M. Monteverdi, Leggere uno spettacolo multimediale, p. 111.

24 Descrizione tratta dalla pagina ZoneGemma <http://www.x-8x8-x.net/zonegemma/xear/storiemandaliche/index.htm> [accessed 30.03.2021].

25 G. Verde, ‘Raccontare non è recitare’, p. 58.

26 A. Balzola, ‘Un viaggio mandalico con Giacomo Verde. Genealogia di Storie Mandaliche il primo spettacolo interattivo ipertestuale in Italia’, in Connessioni Remote, p. 93.

27 A. M. Monteverdi, ‘Storie Mandaliche’, testo originariamente pubblicato in Ateatro.it, 10 agosto 2003, adesso in Connessioni Remote, p. 51.

28A. M. Monteverdi, ‘Creare una storia, creare un mondo’, in A. Balzola, A. M. Monteverdi, Storie Mandaliche, pp. 15-16.

29 A. M. Monteverdi, ‘Storie Mandaliche’, p. 51.

30 Cfr. G. Verde, ‘Per un teknoteatro’, in A. Balzola, A. M. Monteverdi, Storie Mandaliche, p. 91.

31 A. M. Monteverdi, Leggere uno spettacolo multimediale, p. 34.