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Abstract: ITA | ENG

Giacomo Verde è narratore, artivista e tecno-artista. In particolare, opera come narratore all’interno del campo della performance teatrale, impiegando, nelle sue narrazioni, tecnologie low-tech per aprire un discorso etico e politico sul loro uso. In nessun caso però diventa uno ‘smanettone tecnologico’ ma mantiene i caratteri del performer teatrale per creare azioni artistiche che incidano significativamente nel tessuto sociale in cui opera. Obiettivo del saggio è condurre un’analisi sulla sua metodologia performativa, prendendo ad esempio alcune sue significative creazioni, per osservare che nel tempo trascorso dalle prime operazioni sino alle ultime Verde è in fondo rimasto il contastorie che negli anni Settanta si esibiva per le strade con la sua voce e la sua gestualità, una modalità performativa che accoglie le tecnologie come ulteriore strumento per dar vita al racconto teatrale.

Giacomo Verde is a narrator, artivist and techno-artist. In particular, he works as a narrator within the field of theatre performance, using low-tech in his tales to encourage an ethical and political debate on their use. In no case, however, he becomes a ‘techno freak’ but maintains the traits of a theatre performer to create artistic actions that significantly affect the social context in which he acts. The aim of this essay is to conduct an analysis of his performative methodology, considering some of his significant creations, to observe that in the time elapsed from the first works to the last ones Verde is the same storyteller who in the seventies performed on the streets with his voice and his gestures, a performance modality that uses technologies as a further medium to give life to the theatre tale.

 

 

 

1. Introduzione

Il 2 maggio 2020 ci lasciava, a seguito di una lunga malattia, Giacomo Verde, narratore, artivista e tecno-artista. L’anno precedente aveva presentatola sua ultima toccante creazione, Il piccolo diario dei malanni, ultimo tele-racconto a trent’anni esatti dal primo, Hansel e Gretel TV,del 1989, ma dai risvolti più intimi e biografici dei precedenti, un testamento artistico e umano che ripercorre la sua vita con sogni, paure, desideri e aspettative.

Dai primi lavori sino agli ultimi, si può cogliere il suo obiettivo artistico,fin da subito messo a fuoco e portato avanti con tenacia: Verde opera come narratore all’interno del campo della performance teatrale, usando nelle sue narrazioni tecnologie low tech, per aprire un discorso etico e politico sul loro impiego. In nessun caso però Verde diventa uno ‘smanettone tecnologico’ ma mantiene i caratteri del performer teatrale per creare azioni artistiche che incidano significativamente nel tessuto sociale in cui opera.[1]

Nelle prossime pagine si condurrà un’analisi sulla sua metodologia performativa, prendendo ad esempio alcune sue creazioni, per osservare quanto Verde, nel tempo trascorso dalle prime operazioni sino alle ultime, sia in fondo rimasto il contastorie che negli anni Settanta si esibiva per le strade con la sua voce e la sua gestualità, una modalità performativa che accoglie le tecnologie come ulteriore strumento per dar vita al racconto teatrale.

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«“Transmediale” è ormai un termine alla moda, anzi forse troppo alla moda» (p. 119), ma che cosa significa e quando possiamo correttamente utilizzarlo? A queste domande mira a rispondere il volume di Paolo Bertetti (Carocci, 2020) con un’analisi del fenomeno transmediale tra narrazione, entertainment e vita quotidiana.

Nella breve introduzione l’autore muove dalle origini dell’aggettivo ‘transmediale’ – la cui prima occorrenza si deve alla psicologa Marsha Kinder (1991) – per poi fornire al lettore, con le parole di Henry Jenkins, un’iniziale definizione di narrazione transmediale: «un processo dove elementi integrati di una narrazione vengono dispersi sistematicamente attraverso molteplici canali con lo scopo di creare un’esperienza di intrattenimento coordinata e unificata» e – aggiunge Bertetti – «in cui ogni testo offre un contributo peculiare all’intero complesso narrativo» (p. 7). La definizione di Jenkins si basa su un accurato studio di alcune produzioni mediali dell’entertainment americano, nate a cavallo fra i due secoli (soprattutto Matrix e The Blair Witch Project) e destinate a influenzare molte produzioni successive – si pensi al successo di Harry Potter e del più recente Game of Thrones – che hanno creato esperienze di consumo basate su una matrice narrativa comune, ma fruibile dall’utente su diversi media.

Il termine transmedialità appare al centro di «una vera e propria ‘galassia semantica’» (p. 19), indagata dall’autore per fare maggiore chiarezza nel disordine dei concetti con cui viene confusa la nozione: multimedialità, ipermedialità, intermedialità, crossmedialità, multipiattaforma. Gli studi di archeologia della transmedialità hanno mostrato come le origini dell’utilizzo di molteplici media per far circolare racconti, personaggi e mondi narrativi nel panorama dell’entertainment siano in realtà molto lontane nel tempo. Tuttavia, sarebbe erroneo rileggere tutto in ottica transmediale e si avverte la necessità di distinguere una narrazione transmediale da una semplice trasposizione o adattamento (p. 20). Bertetti pone perciò l’attenzione su due caratteristiche imprescindibili della narrazione transmediale: la coerenza e la non ridondanza dei contenuti. Riprendendo le posizioni di diversi studiosi (Jenkins, ma anche Schatz, Pratten), mostra come una narrazione, per essere ritenuta transmediale, debba mantenersi coerente in ogni medium e, soprattutto, allargare e integrare l’universo narrativo. In altri termini, mentre la mera reiterazione multimediale, i cui contenuti appaiano ridondanti e/o contraddittori, pertiene invece all’ambito del franchise tradizionale (p. 14), nel franchise transmediale si assiste a un’espansione narrativa: all’ampliamento del mondo narrativo «al di là dei confini della storia che si sta raccontando» (p. 32) e alla presenza di personaggi ben sviluppati, riconoscibili dal consumatore nonostante i cambiamenti che subiscono nei diversi testi e sulle differenti piattaforme mediali. Lo studioso si sofferma su tali questioni nel secondo capitolo del volume, la cui ultima parte è dedicata al caso esemplare del personaggio disneyano Pippo che, pur avendo una personalità «fluida e diversificata», resta sempre, per il lettore/fruitore, il «caro e vecchio Pippo» (p. 55).

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1. Stories, a universal feature?

«Innombrables sont les récits du monde» (There are countless forms of narrative in the world), said Roland Barthes in one of the founding essays of modern narratology.[1]

Yet the ubiquity of stories, storytelling and story worlds does not mean that any cultural practice is automatically open to narrative. Neither does it involve that narratological approach of stories can follow a universal methodology, as was certainly the dream of those who elaborated narratology as a scientific paradigm in the 1960s. In the following pages, I would like to address some of the issues raised by the narrative reading of photography, which seems to have become a kind of default option for the interpretation of photography in general, as if all pictures had suddenly become narrative (a bias that has sometimes jeopardized my own reflection on the topic).[2]

For clarity’s sake, I want to specify without further delay that my own take on photography is based here on the classic production and publication format of the medium, namely the single, individual picture. Photographic genres or subgenres such as the picture story (in journalism), the photo novel (in popular and media culture), or the photo sequence (in visual and fine arts), for instance, will not be examined. Although the importance of these forms and practices is crucial for a correct understanding of photography in its diversity and complexity, the intrinsic sequentiality of these genres and subgenres sets them somewhat apart. As a matter of fact, one should avoid the danger of making a confusion between the narrative analysis of photography itself, provided there is such a thing as photography ‘in itself’, and the narrative analysis of sequential, that is multi-images photography, where the narrative dimension may depend on the mere fact that the viewer is confronted with a string, a chain, a succession of images, which may therefore become narrativized regardless of their own form and content. In other words: sequential photography is a type of photography that deserves a specific form of analysis (as shown for instance by the example of nonnarrative readings of the photo novel).[3] However, it cannot as such be used as an argument in favor of the narrative dimension of photography in general.

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Come il cinema, la storia orale è il risultato di una combinazione di teoria e prassi. La metodologia della storia orale apre, potenzialmente, nuove strade di ricerca per gli studi cinematografici e divistici, ed è stata applicata con grandissimo successo, ad esempio, nell’ Italian Cinema Audiences Project. In questo intervento cercheremo di individuare (e anche di problematizzare) la storia orale sia come metodo generale che nella sua applicazione specifica al cinema, muovendoci nel contesto italiano, sottolineando l’aspetto della performatività e riflettendo sulla combinazione di teoria e prassi nel nostro lavoro come direttrici della Bronx Italian American History Initiative alla Fordham University.

Fondata nel 2016, la Bronx Italian American History Initiative (BIAHI) è un progetto di storia orale interdisciplinare e collaborativa che ricerca e ripercorre la storia degli italiani e degli italo-americani nel Bronx del ventesimo secolo. Co-direttrici del progetto sono la dott.ssa Kathleen La Penta (Modern Languages and Literatures) e la dott.ssa Jacqueline Reich (Communication and Media Studies), con l’appoggio e la collaborazione del Dott. Mark Naison (African and African American Studies) [fig. 1].

BIAHI ha come obiettivo la scoperta delle narrazioni personali degli abitanti del Bronx tramite la creazione di un archivio digitale di video-interviste che verranno catalogate e codificate sistematicamente e messe in rete. Scopo del progetto è documentare e mappare i luoghi nei quali gli immigrati italiani si stabilirono, vissero e lavorarono, e indagare come essi interagivano con altri gruppi etnici nel momento in cui il loro status razziale si trasformava. La collaborazione con il Bronx African American History Project, diretto dal Dott. Naison, aiuterà a collocare l’esito della ricerca, cioè le testimonianze in forma di video-interviste, in un tessuto di multi-etnicità e quindi a sviluppare una comprensione approfondita delle relazioni tra i quartieri del Bronx dove abitavano gruppi diversi come gli ebrei, gli irlandesi, gli italiani, i Latino e gli afro-americani.

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