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«“Transmediale” è ormai un termine alla moda, anzi forse troppo alla moda» (p. 119), ma che cosa significa e quando possiamo correttamente utilizzarlo? A queste domande mira a rispondere il volume di Paolo Bertetti (Carocci, 2020) con un’analisi del fenomeno transmediale tra narrazione, entertainment e vita quotidiana.

Nella breve introduzione l’autore muove dalle origini dell’aggettivo ‘transmediale’ – la cui prima occorrenza si deve alla psicologa Marsha Kinder (1991) – per poi fornire al lettore, con le parole di Henry Jenkins, un’iniziale definizione di narrazione transmediale: «un processo dove elementi integrati di una narrazione vengono dispersi sistematicamente attraverso molteplici canali con lo scopo di creare un’esperienza di intrattenimento coordinata e unificata» e – aggiunge Bertetti – «in cui ogni testo offre un contributo peculiare all’intero complesso narrativo» (p. 7). La definizione di Jenkins si basa su un accurato studio di alcune produzioni mediali dell’entertainment americano, nate a cavallo fra i due secoli (soprattutto Matrix e The Blair Witch Project) e destinate a influenzare molte produzioni successive – si pensi al successo di Harry Potter e del più recente Game of Thrones – che hanno creato esperienze di consumo basate su una matrice narrativa comune, ma fruibile dall’utente su diversi media.

Il termine transmedialità appare al centro di «una vera e propria ‘galassia semantica’» (p. 19), indagata dall’autore per fare maggiore chiarezza nel disordine dei concetti con cui viene confusa la nozione: multimedialità, ipermedialità, intermedialità, crossmedialità, multipiattaforma. Gli studi di archeologia della transmedialità hanno mostrato come le origini dell’utilizzo di molteplici media per far circolare racconti, personaggi e mondi narrativi nel panorama dell’entertainment siano in realtà molto lontane nel tempo. Tuttavia, sarebbe erroneo rileggere tutto in ottica transmediale e si avverte la necessità di distinguere una narrazione transmediale da una semplice trasposizione o adattamento (p. 20). Bertetti pone perciò l’attenzione su due caratteristiche imprescindibili della narrazione transmediale: la coerenza e la non ridondanza dei contenuti. Riprendendo le posizioni di diversi studiosi (Jenkins, ma anche Schatz, Pratten), mostra come una narrazione, per essere ritenuta transmediale, debba mantenersi coerente in ogni medium e, soprattutto, allargare e integrare l’universo narrativo. In altri termini, mentre la mera reiterazione multimediale, i cui contenuti appaiano ridondanti e/o contraddittori, pertiene invece all’ambito del franchise tradizionale (p. 14), nel franchise transmediale si assiste a un’espansione narrativa: all’ampliamento del mondo narrativo «al di là dei confini della storia che si sta raccontando» (p. 32) e alla presenza di personaggi ben sviluppati, riconoscibili dal consumatore nonostante i cambiamenti che subiscono nei diversi testi e sulle differenti piattaforme mediali. Lo studioso si sofferma su tali questioni nel secondo capitolo del volume, la cui ultima parte è dedicata al caso esemplare del personaggio disneyano Pippo che, pur avendo una personalità «fluida e diversificata», resta sempre, per il lettore/fruitore, il «caro e vecchio Pippo» (p. 55).

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