La donna in effigie. Iconografia e ritrattistica in Guido Gozzano

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Guido Gozzano was very interested in several artistic fields like photography, painting, graphics, and even cinema. Such an often neglected aspect deserves an inquiry suitable to emphasize the relevance of the relationship between literature and visual arts both in his life and works. Despite some enlightening contributions, the debate is still open, as contemporary studies in visual arts contribute to widen the field of research. This paper will focus on the importance of size portraits, especially of women, within the poet’s work. A deep connection between images and words is well detectable in his manuscripts, as drawings and writing share and contend for space on the page. Thanks to the discovery of new sources, we can trace more precisely the boundaries of an imaginary space in which ideas, memories and emotions have been condensed.

L’atelier letterario di Guido Gozzano

Il rapporto fra immagini e parole si articola in Gozzano attraverso molteplici modalità retoriche: dalla citazione fuggevole e tutto sommato marginale, a forme più interessanti di dinamizzazione delle immagini,[1] fino a tentativi di più organico e sostenuto impegno scrittorio, sia pure legati al carattere effimero della prosa giornalistica e d’occasione. In questo senso, particolare valore assume la dimensione del ritratto come spazio assai privilegiato per la declinazione del rapporto tra testo e immagine: un percorso scandito attraverso l’arco della personalissima e straordinaria galleria di personaggi femminili gozzaniani, che per la loro forza evocatrice e suggestiva, fin dal loro primo apparire, divennero il simbolo stesso della sua poesia. Gozzano può, dunque, essere considerato un ritrattista d’eccezione, capace di fermare in pochi versi tanto l’essenza quanto la forma dei propri modelli, grazie soprattutto a quell’attenzione smodata per i dettagli tanto dell’abbigliamento quanto dell’acconciatura. Non a caso Sanguineti in una delle sue Letture, trovava Gozzano «impegnato, come non di rado gli avviene, in gara con la pittura, intento a quell’esercizio di ritrattistica che è tra le sue passioni più vive, e che naturalmente lo attrae in maniera particolare quando si tratti, ed è il caso più frequente, di abbozzare un profilo di donna».[2]

Autografo in versi e in prosa della poesia Ornitoptera Pronomus (AG VIII A, 1)Un paragone, quello del critico genovese, che, lungi dall’essere un’interpretazione figurale, va colto in tutta la sua pregnanza, e cioè alla lettera. Poiché quell’esercizio di ritrattistica che è fra le passioni più vive di Gozzano, prima ancora che essere un mero esercizio verbale, affonda le sue radici nella naturale inclinazione del poeta per il disegno, della quale rimane una copiosa e significativa testimonianza.[3] L’insieme di questi documenti grafici è composto da una serie di schizzi, disegni, caricature e autocaricature (vergati, a volte, con impegno nervoso, altre, con ironica leggerezza), che con la loro eloquenza meglio e più della scrittura ci informano sul mondo figurativo di Gozzano.

A tal proposito risulta prezioso un ricordo di Mario Vugliano in una pagina a ragione ben nota, nella quale, l’amico e sodale del poeta, riporta le rimostranze di Balsamo Crivelli, allora bibliotecario della Società di Cultura, nei confronti di Gozzano per la sua irrefrenabile tendenza al griffonage:

Comune luogo di ritrovo con Gozzano e gli amici era la Società di Cultura […]. Quando vi entrava la banda Gozzano, addio pace studiosa là dentro. […] Tutti invocavano un po’ di silenzio. E gustavo Balsamo Crivelli, che era, se ben mi ricordo, il bibliotecario: «Prego, Gozzano, anche un po’ più di rispetto per i libri». Perché Gozzano vi pupazzettava sui margini vergini folli.[4]

D’altronde è lo stesso Gozzano, in una lettera indirizzata ad Amalia Guglielminetti, a chiarire la natura e la funzione di questi griffonnements, intesi come un’alternativa al duro lavoro della scrittura:

Il cielo è grigio, sempre piovigginoso. Io sono un po’ triste, un po’ amaro, ma non per questo. Sono triste per il distacco (che mi dà però all’anima un senso di liberazione salutare) e sono amaro per la mia completa sterilità lirica.
Ieri, l’altro ieri, sono stato ore e ore a tavolino, affastellando rime e pensieri e non facendo un verso passabile… E avrei tanti temi non ispregievoli da svolgere: ma sono di un’abulia metrica desolante. Tenterò, vedrò ancora…
Forse è l’idea della gita prossima a Torino che mi distrae ad ogni secondo e mi fa schizzare profili femminei al margine del foglio, o seguire pel cielo nebuloso i guizzi delle primissime rondini…[5]

I fogli sui quali Gozzano si sofferma a «schizzare profili femminei» nella primavera del 1908, stando alla datazione proposta da Calcaterra,[6] potrebbero essere quelli del famoso Albo dell’officina, un documento di eccezionale valore, che aprendo le porte del laboratorio letterario del poeta, ha permesso di accertare come la pagina gozzaniana, solo in apparenza facile e immediata, sia invece

il frutto di letture e rimandi talora insospettabili e sorprendenti. In altre parole, continue e diverse sono in lui le reminiscenze letterarie, prossime e lontane nel tempo e nello spazio, occultate ed esibite, sempre rese estranee alla fonte e innovate, ricreate, in un sapiente gioco di azione e reazione.[7]

Sono infatti ormai noti da tempo gli strumenti e i materiali del modus operandi di Gozzano: un complicato e travagliatissimo gioco fatto d’incastri, lacerti, stilemi, esercitato sulla tradizione letteraria italiana e, in parte minore, su quella francese. Un modello che egli largamente applica tanto in poesia quanto a tutti gli altri gradi della sua scrittura e che sottende

un costante e faticoso lavoro preparatorio fatto di pazienti trascrizioni, talora più volte ripetute con leggere varianti, di pagine poetiche da lui lette; in un secondo tempo a questo lavoro segue la fase di elaborazione e assimilazione, che conduce agli esiti originali e inconfondibili della sua poesia.[8]

Un travaglio che, almeno nella versione preparatoria, si popola anche della presenza di quegli schizzi e di quei profili femminili, delle fantasie, delle illusioni e delle ossessioni del suo mondo immaginifico. Quella del disegno è una pratica alla quale la mano di Gozzano sembra abbandonarsi in maniera automatica, quasi involontaria, senza un’apparente affinità con il testo specifico con il quale i disegni si incastrano, si sovrappongono, in un frenetico contendersi lo spazio bianco del foglio: «è una maniera (quella di Gozzano) per fissare rapidamente con uno schizzo veloce fantasmi incombenti e liberarsi di essi senza quello sforzo che la parola comporta».[9]

Tale è la straordinaria consonanza che unisce quei profili femminili, a cui egli si abbandona nei momenti meno impegnati della sua scrittura, ai versi che sembrano tradurne mirabilmente le fattezze, che risulta impossibile dubitare della rilevanza che essi assumono nel processo della creazione poetica. Se la mania grafica di Gozzano certo non rientra nell’ambito di studi del Doppelbegabung, almeno nella sua forma canonica, non sembra però inappropriato ricondurre tale pratica al cosiddetto «doppio talento criptico», il caso cioè di autori «che non riescono a concepire la loro scrittura se non accompagnandola con disegni, schizzi e immagini».[10] In altre parole, al pari dei materiali letterari e con pari dignità, i disegni presenti sui manoscritti possono considerarsi a buon diritto veri e propri strumenti della officina gozzaniana.

Si tenga presente che siamo di fronte al poeta che fu «il bimbo illuso dalle stampe in rame», il cui recupero, sempre sospeso «tra storia e favola, tra corrosione critica e sognante smemoratezza»,[11] ha lo stesso valore della riscrittura della parola altrui:

Nel reliquiario in cui idealmente Gozzano si aggira, recuperare il passato non significa tanto l’immediata fruizione delle stagioni perdute, quanto, e quasi l’opposto, la fuga dal consumarsi delle cose, l’approdo, sia pure in grazia di un’evasione ingannevole e breve, lucida e commossa, a un luogo, a un’immagine, in cui risulti negato, con il presente, il fluire stesso della vita, il perpetuo corrompersi della realtà.[12]

Insomma tanto la tradizione letteraria che la tradizione iconografica giocano la stessa partita, quella cioè di arginare il più possibile il presente in quanto luogo dequalificato e privo di valori autentici, di qui la necessità di affrontare «il reale, filtrandolo, cioè ripensandolo attraverso un classico o un libro prezioso, attraverso una precedente esperienza stilistica e umana non propria».[13]

«Un libro di pura arte e di pura bellezza»

La fitta trama letteraria fatta di citazioni più o meno scoperte, quasi al limite della provocazione e del plagio, è stata, ed è oggetto d’indagini accuratissime: un lavoro massiccio e non ancora concluso, dal momento che il mosaico della scrittura gozzaniana «ammette sempre con generosità nuove tessere»,[14] mentre lo stesso trattamento non è stato invece riservato alle arti visive nel senso più ampio del termine.

Frontespizio del volume di A. Dayot, La donna in effigie attraverso i secoli, 1901Così, come nel celebre racconto La lettera rubata di Edgar A. Poe, è stato ignorato da tutti un documento che, all’interno dell’analisi che stiamo conducendo, assume una straordinaria importanza, per la sua doppia valenza di fonte letteraria e fonte iconografica. Si tratta di un testo a stampa dal titolo, quanto mai suggestivo, La donna in effigie attraverso i secoli di Armand Dayot, tradotto da Ugo Fleres,[15] uno dei libri sopravvissuti della biblioteca del poeta, oggi custodito presso il Centro Studi di letteratura in Piemonte Guido Gozzano-Cesare Pavese dell’Università di Torino. I libri della biblioteca gozzaniana, unitamente ad alcuni manoscritti, hanno permesso in molti casi di ricostruire minutamente l’intricato percorso che dalla semplice lettura, passando attraverso l’interiorizzazione, conduce Gozzano al riuso in fase poetica dei compositi e disparati materiali di cui è tramata l’intera sua scrittura.

La donna in effigie è un libro di storia dell’arte, della quale il famoso critico francese propone una rilettura tutta giocata sul tema della bellezza femminile e del suo evolversi nelle varie epoche, dalla civiltà egizia fino alla fine dell’Ottocento:

Questo libro è al tempo stesso un libro di pura arte e un libro di bellezza, poiché l’immagine della donna vi appare come uno specchio scintillante, ove si riflettono lo spirito delle epoche, i caratteri delle razze, l’estetica delle scuole, l’ideale degli artisti.[16]

Nelle pagine del volume sono riprodotti numerosi ritratti pittorici, molti dei quali eseguiti di profilo, riconducibili alle tecniche artistiche più diverse: affreschi, busti scultorei, bassorilievi, incisioni su metalli, che per l’interesse alla ritrattistica di Gozzano si pongono come variegato ed eccezionale catalogo di immagini, sensazioni e suggestioni, e forse per questo ne sentiamo un’eco nella sua scrittura. Al contrario di altri testi come quelli di Dante, Petrarca, Leopardi, Carducci, D’Annunzio, che potremmo definire letture di lavoro, certamente questa si poneva come lettura di svago, non impegnativa ed infatti pochi e trascurabili sono i segni di lettura che invece abbondano altrove. Tuttavia, basta sfogliare il volume per accorgersi di quali e quante suggestioni, motivi, accenni, spunti potesse ritrovarvi il Gozzano ritrattista:

quel poeta della moda che egli è per eccellenza, il cantore di una grazia muliebre che sia letteralmente, se vogliamo adesso abusare di una sua espressione metaforica, «vestita di tempo», concretamente vincolata a un gusto, a un’epoca, e insomma datata e databile: un poeta attento a cogliere la linea essenziale nella foggia di una veste, sensibile al variare di un taglio, di un motivo, di una pettinatura.[17]

Per questo i ritratti, soprattutto femminili, di Gozzano si presentano come veri e propri Zeitgesichter, «visi legati ad un’epoca, e cioè casi in cui i modi di rappresentazione e di espressione, gli atteggiamenti determinano anche la fisionomia dei volti e permettono di collocarli nel tempo».[18] Sanguineti ha saputo cogliere l’esempio forse più emblematico di questa «donna vestita di tempo» in Cristina di Francia de La casa dei secoli. In questa prosa il poeta ci offre, attraverso un’originale sintesi iconografica, una raffinata descrizione dell’antica sovrana:

Nessuna stampa dell’epoca, nessuna tela la ritrae come doveva essere: è forse bene che il nostro sogno faccia di tutte le sue effigi una sola […]. Il volto è circondato da un’acconciatura di tulle nero, alla Holbein, che gli darebbe non so che espressione monacale se sotto non balenassero gli occhi chiari di amazzone, il profilo dritto, la bocca volontaria, la mascella forte: un volto che sembra la maschera dei guerrieri greci, come si sognavano nelle fantasie mitologiche d’allora, non il volto d’una Regina, d’una donna segnata dal destino al dolore e all’amore.[19]

Ne La donna in effigie, fra le molte riproduzioni, non ci sono ritratti di Cristina di Francia, ma ve ne sono molti del pittore tedesco esplicitamente chiamato in causa da Gozzano. Infatti in tutte queste figure femminili è presente il copricapo tipico con il quale Holbein ornava le sue modelle per evidenziarne l’ovale del volto e conferire alla figura un’aura di religiosità. Altre pagine del libro sono dedicate alle donne dipinte dal Rembrandt, bellissime nei loro abiti riccamente decorati, nelle acconciature perfette che i grandi cappelli velano appena, un particolare che ci riporta alla mente, irresistibilmente, una delle prime lettere di Gozzano alla Guglielminetti:

vi ho veduto poco, ma studiata molto: siete proprio bella (vi giuro che ho dispetto, quasi, a doverne così stupidamente convenire!). Vi ho studiata molto. Non ho mai capito ad esempio, se, sotto i grandi caschi piumati, alla Rembrandt, che voi prediligete, i vostri capelli siano spartiti alla foggia antica o no; ma ho benissimo impresse le ondulature che hanno alla tempia e la mollezza con che si raccolgono in nodo, dietro la nuca.[20]

Un fitta sezione del libro di Dayot è poi dedicata ai dipinti femminili dei grandi pittori fiamminghi, e non è forse improbabile che su queste mirabili immagini Gozzano si sia soffermato per cercare quel «tipo di beltà fiamminga» nella quale s’incarna il volto di Felicita. Come è noto, infatti, la preistoria de La signorina Felicita, ovvero la Felicità ha origine nel casuale incontro dell’autore con una «servetta di monte»,[21] durante il soggiorno montano a Ceresole Reale nell’estate del 1907. Il primo incerto e vago abbozzo di questa lirica si trova in una lettera indirizzata ad Amalia Guglielminetti:

Da parecchie settimane sono qui in una solitudine deliziosa e con dinnanzi uno scenario che ricorda il 2° atto della Figlia di Jorio… Non ho una Mila per compagna, ma una servente indigena e prosaicissima. Che non mi annoia però: alla sera, mentre io contemplo il tramonto sui picchi nevati di Levanne, ella parla. Io non l’ascolto: ma la sua voce mi giunge a quando a quando, attraverso il rombo della mia malinconia, e afferro brani di cose bellissime, di episodi che sfrutterò forse poeticamente: «La storia del Curato che fuggì con la figlia del Sindaco» oppure «della Marchesa che s’innamorò della guida; e furono sorpresi dal marito». E così via… Ma non pensate male, Amica Mia! È una onestissima fanciulla, figlia di Maria, ed io nutro per lei la più rispettosa ripugnanza: immaginate un corpo diciottenne, ma che in città, sdegnerebbe una vecchia ottuagenaria, immaginate un volto quadrato, scialbo, roseo, lentigginoso, senza pupille, senza ciglia, senza sopracciglia, e un viscidume di capelli gialli, tirati, tirati lisci aderenti e stretti alla nuca in un fascio di trecciole minute e su tutto il volto diffusi i segni dell’idiozia ereditaria…[22]

Nei mesi successivi Gozzano rifletterà a lungo sui temi e gli ambienti descritti alla Guglielminetti, così che qualche mese dopo, in un’altra lettera indirizzata all’amico e critico Giulio De Frenzi, i lavori preparatori per la sua lirica più famosa, a dispetto delle stesse parole del poeta, risultano già notevolmente sviluppati:

Ho fatto poco, anche perché sono innamorato: di una donna che non esiste naturalmente!
La Signorina Domestica: una deliziosa creatura senza busto e senza cipria, con un volto quadro e fresco, le mandibole forti e maschili, la bocca larga e sana, il naso camuso, sparso di efelidi leggiere, le iridi azzurre, punteggiate d’oro e d’inchiostro, senza sopracciglia, e i capelli castani, lisci, aderenti alla tempia, tirati e raccolti in un nodo piatto di trecciuole minute. Scusate la presentazione, caro amico, ma era necessario: ritroverete la mia Bella in una poesia: fra odore di cotogne, di caffè tostato, di carta bollata, d’inchiostro putrefatto; con a sfondo una tappezzeria a rombi di ghirlandette rococò, alternanti ognuna episodi della favola di Piramo e di Tisbe… Volevo farne una prosa, abbondante come un romanzo; ma non un romanzo bensì tanti brevi capitoli lirici, legati da una trama sentimentale deliziosa, una cosa morale onesta, sana come la protagonista.[23]

Come è possibile notare, la «servente di monte indigena e prosaicissima» è scomparsa del tutto («una donna che non esiste, naturalmente»), al suo posto compare invece la Signorina Domestica, i cui tratti fisici peculiari, rispetto al modello di partenza, si sono di molto ingentiliti, raffinandosi, «in quella che da donna repugnante è divenuta “deliziosa creatura provinciale” […] c’è di più, anzi di diverso, una luce che ferma, e rileva la bellezza un po’ scialba: l’azzurro delle iridi».[24] Tuttavia, non siamo ancora a Felicita, manca un ulteriore passaggio affinché il volto della protagonista possa svincolarsi completamente dalla realtà, dall’occasione biografica. Si tratta di un processo tipicamente gozzaniano, inteso «a riscattare in toto la convenzionalità dell’evento: quindi tendenzialmente a risolvere […] l’inautenticità della Vita nella menzogna riflessa della Letteratura».[25] Il passaggio si trova infatti in un’altra lettera alla Guglielminetti, assai simile a quella scritta per De Frenzi e, rispetto a quest’ultima, di pochissimo posteriore:

Sto meglio anche perché sono innamorato! Di una donna che non esiste, naturalmente!
La Signorina Domestica.
Una deliziosa creatura provinciale, senza cipria e senza busto, con un volto quadro e le mandibole maschie, con un nasetto camuso sparso di efelidi leggiere, due occhi chiari senza sopracciglia, come nei quadri fiamminghi; non ridete, amica!
[…] Volevo farne una prosa a brevi capitoli lirici, uniti da una trama sentimentale, onesta, pura sana, come la carne della protagonista: ma non farò probabilmente.[26]

Quest’ultima lettera aggiunge ancora un particolare tutt’altro che marginale: l’associazione cioè dell’immagine di Felicita al tipo di bellezza femminile rappresentato nella pittura olandese del Seicento («come nei quadri dei pittori fiamminghi»). Un’operazione che elevando la figura di Felicita agli scranni dell’arte la sospende in quella dimensione atemporale tipica della scrittura gozzaniana, la quale assolve il compito di «soddisfare il radicale bisogno che il poeta ha di possedere qualcosa che sia ormai passato, immobile. […] dominare ciò che ha ormai cessato di vivere e divenire, e ora si trova fermo, come morto e chiuso nell’inerte, e perciò quieto e rassicurante, disegno di una stampa».[27]

Dai brani delle lettere appena citate ai versi della poesia che ritraggono Felicita il passo è breve, così che di lì a poco avremo l’immagine forse più celebre della sua poesia:

Sei quasi brutta, priva di lusinga
Nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga…
E rivedo la tua bocca vermiglia
Così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso di efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre d’un azzurro di stoviglia…[28]

Nel lungo e intricato percorso che conduce Gozzano alla creazione dell’immagine ultima di Felicita, la Donna in effigie si colloca come una fonte iconografica non trascurabile. A spingerci in questa direzione sono in particolare due passi del testo di Dayot che mostrano rilevanti affinità con le parole e i versi di Gozzano. Nel primo il critico francese definisce i caratteri peculiari della «donna olandese del secolo XVII»:

in Francia, in Germania, in Italia, in Inghilterra, i grandi pittori olandesi, grandi soprattutto nella figura umana, sia individualmente studiata, sia rappresentata in un ambiente famigliare, sorsero in tutti gli angoli del paese […], pittori incomparabili della figura umana, nella cui immensa produzione l’immagine della donna olandese del secolo XVII, bionda, rosea, dolce, placida, un po’ volgare, spicca con rara intensità di colore e di vita.[29]

Già qui è facile notare come l’elenco degli aggettivi utilizzati dal Dayot per definire il tipo muliebre della pittura fiamminga sia assolutamente sovrapponibile alle qualità di Felicita. Ma c’è di più; descrivendo alcune opere di Jacob Jordaens, Dayot si esprime in questi termini:

[la figura della] bella Caterina, di cui le floride carni e il sonoro riso hanno per eterno specchio il cristallo del bicchiere sempre pieno ch’ella ha in mano, è davvero ultrafiamminga.
Il Jordaens eseguì alcuni buoni ritratti di Caterina van Noort; e uno dei migliori appartiene al conte di Darnley ed è catalogato col nome di Fanciulla dal pappagallo. È un’opera incantevole, una dilettazione di giulivi colori, e anche una graziosissima immagine di donna […]. Ecco il Jordaens! Il catalogo che ha le sue ubbie, la chiama fanciullina: Girl with a parrot. Che fanciullina! Ella alzerebbe una botte di birra. Forse non piacerebbe nel salone del sobborgo di Saint-Germain; tutt’al più ne impazzirebbero i vecchi marchesi pallidi e magri. Ma che salute, che esuberanza, che vita! Che buona comare! Ecco quel che ci vorrebbe in campagna per portare, a braccia nude, le canestre di frutta sotto i pergolati, cogliere tra i pampini i grappoli purpurei, animare i giardini, allietar tutta la casa. La sua chioma è come un fascio di grano maturo; le sue guance hanno il vermiglio e la compattezza di una mela. Le vere Fiamminghe quando sono belle, hanno qualcosa del frutto proibito.[30]

Certo la Felicita di Gozzano non ha la floridezza corporea delle donne del Jordaens, ma tuttavia ne condivide moltissimi tratti, non solo fisici ma anche, per così dire, caratteriali e culturali. Innanzitutto il colore dei capelli («i bei capelli di color di sole» vs «la sua chioma è come un fascio di grano maturo»); il sorriso («la tua bocca vermiglia così larga nel ridere e nel bere» vs «il sonoro riso» che ha «per eterno specchio il cristallo del bicchiere sempre pieno ch’ella ha in mano»); la condizione di sanità fisica («onesta, pura, sana, come la carne della protagonista» vs «Ma che salute, che esuberanza, che vita! Che buona comare!») e la forza espressa nell’abitudine alle fatiche domestiche («Sposare vorremmo non quella che legge romanzi cresciuta / tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa… / Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese / in un’antichissima villa remota del Canavese… / Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca / dell’acqua, e vive con una semplicità di fantesca, / ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato/ e cuce e attende il bucato e vive secondo il suo nome»[31]vs «Ecco che ci vorrebbe in campagna per portare, a braccia nude, le canestre di frutta sotto i pergolati, cogliere tra i pampini i grappoli purpurei, animare i giardini, allietar tutta la casa»); il fascino dissimulato e recondito («Nei begli occhi fermi / rideva una blandizie femminina. / Tu civettavi con sottili scherni / tu volevi piacermi, Signorina: / e più di ogni conquista cittadina / mi lusingò quel tuo voler piacermi!» vs «Le vere Fiamminghe, quando son belle, hanno qualcosa del frutto proibito»). Si presti inoltre attenzione al commento del Dayot relativo al quadro del Jordaens intitolato Girl with a parrot: «Forse non piacerebbe nel salone di un sobborgo di Saint-Germain; tutt’al più né impazzirebbero i vecchi marchesi pallidi e magri». Tale commento sembra infatti condensarsi e svilupparsi nella seconda sestina della VII sezione del poema gozzaniano, nel dialogo intessuto fra l’avvocato e il farmacista, soprattutto nelle indiscrezioni di quest’ultimo sul conto della protagonista:

Ma c’è il notaio pazzo di quell’oca!
Ah! Quel notaio, creda: un capo ameno!
La Signorina è brutta, senza seno,
volgaruccia, Lei sa, come una cuoca…
E la dote… la dote è poca, poca:
diecimila, chi sa, forse meno…[32]

Qui i magri e pallidi marchesi si riducono di numero e, adeguandosi ai tempi, cedono il titolo nobiliare per acquisire la carica squisitamente borghese di notaio («Ma c’è il notaio pazzo di quell’oca! / Ah! Quel notaio, creda: un capo ameno!»). Infine anche l’aggettivo «volgaruccia», che Gozzano mette in bocca al farmacista, potrebbe conservare un’eco di quel «un po’ volgare» del critico francese.

Seguendo le diverse fasi dello straordinario itinerario creativo di Gozzano, Sanguineti così si esprime ha evidenziato come il poeta lavori

intorno a un determinato modello femminile, lo viene elaborando per gradi, in un lento gioco di correzioni e varianti, dalle diverse occasioni della realtà deduce, come in una serie di disegni preparatori, quei dati che potrà poi liberamente ricomporre nell’affresco definitivo.[33]

L’immagine mentale, astratta, quell’entità minima presente nel suo mondo immaginario, si fa visibile incarnandosi attraverso la pittura. Usando la nota definizione di Michtell, potremmo dire che l’image si è trasfusa in una picture.[34] Gozzano, una volta tratteggiati i caratteri fisiognomici della sua protagonista, cerca e trova un suo corrispettivo iconografico nei modelli femminili immortalati dai pittori fiamminghi. Il passaggio da image a picture non può però avvenire senza la presenza di un medium, che in questo caso specifico potrebbero essere proprio le pagine di La donna in effigie dedicate alla pittura olandese del XVI e XVII secolo.

Dall’immagine alla scrittura

Che Gozzano abbia tenuto in considerazione La donna in effigie nel medesimo periodo in cui elaborava poesie come L’ipotesi e La signorina Felicita, ovvero la Felicità, sembra essere confermato inoltre da un’altra circostanza per cui il libro di Dayot si pone come l’insospettabile fonte di un verso contenuto nella lirica Historia. Si tratta, più precisamente, del verso diciotto di questa composizione, la quale, secondo uno schema di indice desunto dagli autografi gozzaniani e relativo ai titoli dei componimenti che sarebbero confluiti ne I colloqui, risulta appunto cronologicamente riferibile agli anni 1907-1908.[35] Il passo del libro in cui è presente l’espressione successivamente utilizzata dal poeta si trova nelle pagine della prefazione, quelle in cui il francese traccia i lineamenti fisiognomici che caratterizzano l’ideale di bellezza femminile dell’antica Grecia:

un tipo unico domina tutta la rappresentazione della figura femminile nella Grecia antica, e per l’impeccabile maestà delle sue linee è quasi un riflesso della divinità. Sempre un medesimo insieme armonioso, quasi geometrico, avviluppa la linea flessibile e dolce del più puro ovale: fronte bassa e stretta, incorniciata da pesanti capelli crespi; naso dritto e lungo, un po’ grande, ma disegnato mirabilmente; bocca dalle labbra piene, quasi sempre chiuse; mento appena arrotondato; occhi ampi, bene incavati sotto il vasto arco ciliare, occhi dalla luce fredda nella serena impassibilità dei lineamenti.[36]

L’espressione «vasto arco ciliare» ritorna identica nel verso conclusivo della prima strofa di Historia, proprio per mettere in risalto un fondamentale tratto del viso della protagonista, l’antica compagna di classe che diventerà «signora in Gran Bretagna»:

Non la ricordi? Smorta,
con certe iridi chiare
dal vasto arco ciliare…[37]

Inoltre anche la descrizione del Dayot riferita agli «occhi dalla luce fredda nella serena impassibilità dei lineamenti» sembra avere qualche analogia con l’atteggiamento disilluso della protagonista nei versi che chiudono l’ultima parte della poesia:

e fu rivista un giorno
più bella nel vestito
cupo… Cercava intorno
col volto sbigottito,
con la pupilla assorta,
chi la volesse amare…[38]

Anche in questo caso ciò che ci preme rilevare non è il ruolo svolto dal libro di Dayot in qualità di possibile veicolo di innumerevoli pictures e la sua influenza sull’immaginario gozzaniano. Il poeta d’Agliè, attraverso una propensione all’assunzione di materiali letterali disparati tipica della sua scrittura, accoglierà stabilmente l’espressione del critico francese («vasto arco ciliare») assumendola come uno dei tratti peculiari dei suoi ritratti. Tanto che quest’ultima sarà preferita a una più antica locuzione rinvenibile in un passo della novella I benefici di Zaratrusta, pubblicata nel 1905 e da tutti riconosciuta come uno dei primi documenti della crisi di Gozzano nei confronti del dannunzianesimo. Ecco la descrizione del protagonista, il cui nome è Fiorenzo:

Doveva piacere molto alle donne. […] tutte, certo si compiacevano della sua bellezza e della sua eleganza. […] poiché nonostante il panama arrovesciato sul collo e sollevato sulla fronte come il berretto di un pagliaccio, e i capelli scriminati in due bande impiastricciate e il monocolo che alterava in modo atroce l’occhio destro e il bell’arco del sopracciglio, poiché nonostante tutti i vituperi del parrucchiere del calzolaio del sarto egli restava, tuttavia, il bell’adolescente di sette anni prima.[39]

La formula estrapolata dalle pagine del Dayot si ritrova anche in un brano contenuto in una lettera indirizzata alla Guglielminetti, in occasione della morte della sorella della poetessa avvenuta nel marzo del 1909, che egli conosceva bene e della quale rievoca dolcemente il ricordo per consolare l’amica di sempre:

Non credo nella Morte. Non si Muore. Non è morta. […] S’ode il suo passo nel vestibolo, Ella rientra freddolosa […], si toglie il cappello con un gesto rapido, rialza, ravviva a due mani la massa dei capelli, con un gesto lento. E resta rivolta verso la finestra, di profilo, con quel suo profilo assiro (rideva e Le piaceva tanto ch’io Le dicessi questo!) quel profilo dalla fronte breve, dal naso perfettamente arcuato, dal vasto arco cigliare, dal mento forte volontario![40]
Autografo della poesia I colloqui

In questa descrizione della sorella della poetessa va inoltre notato un altro particolare: quello della fronte, che nella descrizione di Dayot, con riferimento alla figura femminile dell’antica Grecia, è «bassa e stretta» e che Gozzano riassume in un unico aggettivo( «breve»).

La locuzione del critico francese, così acquisita e ormai pienamente gozzaniana, verrà utilizzata ancora in altri contesti, dove sempre centrale risulta la funzione della scrittura come medium attraverso cui evocare volti umani, ma facendo misurare, di volta in volta, una distanza sempre maggiore rispetto al contesto originario.

È questo il caso della novella L’altare del passato, dove addirittura l’espressione viene utilizzata da Gozzano per tracciare i lineamenti di un uomo, quelli del protagonista, un conte, che per una non troppo strana coincidenza, si chiama anch’esso Fiorenzo:

rivedo la sua mano alzata, mano pallida e perfetta di patrizio, dall’indice adorno di un grosso cammeo, la bella testa candida sfavillante in un raggio di sole obliquo, la bocca volontaria, l’occhio azzurro, giovanile, sotto il vasto arco cigliare.[41]

Ma è anche il caso, soprattutto per l’analisi che qui stiamo conducendo, della lirica Una risorta, uno dei testi capitali della ritrattistica gozzaniana, nella quale l’espressione trova emblematicamente posto nella quartina che, insieme a quella immediatamente successiva, descrive magistralmente l’atteggiamento, l’abbigliamento e l’acconciatura della protagonista, alias Amalia Guglielminetti:

Mi stava ad ascoltare
con le due mani al mento
maschio, lo sguardo intento
tra il vasto arco cigliare,
così svelta di forme
nella guaina rosa,
nella nera chioma ondosa
chiusa nel casco enorme.[42]

Davvero in queste due quartine non è rimasto più nulla del contesto originario da cui l’espressione proviene. Il dettaglio si è completamente decantato, assumendo anzi una nuova sfumatura di stampo schiettamente Art Nouveau che emerge anche dal nuovo spazio nel quale viene a trovarsi. Come ha infatti mostrato Bossaglia, rilevando un’interessante ed originale analogia tra questo ritratto di parole e il dipinto Il silenzio di Giorgio Kienerk, questa descrizione «si sovrappone in modo perfetto a un tipo di raffigurazione femminile ricorrente nell’iconografia liberty: la donna dai tratti delicati ma forti, con i capelli acconciati in una foggia raccolta ma morbida, che poggia assorta il mento sulle mani».[43] La pittura liberty, e più ancora la grafica e la cartellonistica, che di questo stile, soprattutto in ambito italiano, sono la declinazione più convincente,[44] rappresentano infatti l’altro grande polo iconografico a cui l’immaginazione di Gozzano attinge a piene mani per la creazione dei suoi modelli femminili. Basterà qui evocare alcune figure fra le più emblematiche di questo tipo di raffigurazioni, pienamente ascrivibile all’orizzonte figurativo della muliebrità Art Nouveau, come la Graziella della Due strade («forte bella vivace bruna /[…] la gran chioma disfatta nel tocco da fantino»), la misteriosa pattinatrice di Invernale («sfatta le chiome / e bella ardita palpitante») ed ancora la Jeanette della prosa Un vergiliato sotto la neve («svelta figura moderna»).

Sulla natura scrittura di Gozzano, in riferimento alle molteplici reminiscenze letteraria che in essa vi si condensano, sono state giustamente richiamate le parole di Giorgio Calcagno:

togliere una parola o una frase dal suo contesto e riprodurla in un contesto diverso vale a darle un altro significato: perché quella parola ai nostri occhi prende una duplice luce. La prima ci viene dal ricordo originale, sedimentato nella nostra cultura. La seconda dalla sua ricollocazione nell’ambito di un discorso nuovo: specie se artificio nell’artificio […] questo discorso è intessuto di altre citazioni, che si scambiano la loro ambivalenza.[45]

Nel caso dell’opera gozzaniana tali parole assumono il medesimo valore anche quando ad essere oggetto della rielaborazione e della riscrittura sono proprio le immagini, intese non come meri accessori, ma come parte integrante della scrittura poetica. Qui d’altronde interessava sottolineare non tanto la fonte in quanto tale, piuttosto che la fonte si trovi in un libro d’arte altamente suggestivo e che ben si coniuga con il mondo immaginifico di Gozzano, nel quale le arti figurative occupano un posto forse marginale, ma non per questo privo di ripercussioni, a volte anche incisive, sulla sua scrittura.

Feticismo e ritrattistica

La ricca e variegata galleria di ritratti gozzaniani accoglie, dunque, nel medesimo spazio, modelli di bellezza femminile assai dissimili e quasi opposti, ai quali, sul piano delle immagini, corrispondono diverse e contrastanti tradizioni iconografiche. Tale dicotomia è emblematicamente incarnata da due figure di rilievo come Felicita e la protagonista di Una risorta. Da una parte il tipo di «beltà fiamminga» colta in una dimensione quotidiana e dimessa («Sei quasi brutta, priva di lusinga / nelle tue vesti quasi campagnole»), «cifrata entro un circuito di sensazioni ed affetti famigliari […] semplici e più alla buona».[46] Dall’altra, una «mondana / grazia profanatrice» che rimanda ad un topos dell’iconografia liberty «costituito dal modello della femmina languida, voluttuosa, felina, sino ai limiti dell’aggressività vampiresca»[47] (solo per inciso si rammenti la sensazione di attrazione/repulsione del poeta nei confronti dell’amante: «riseppi le sagaci / labbra e commista ai baci / l’asprezza dei canini»).[48] La convivenza di modelli così distanti e apparentemente inconciliabili, in Gozzano, è resa possibile attraverso le ossessioni profonde del suo inconscio e dunque del suo mondo immaginifico. Le donne gozzaniane, al di là della mise e dei travestimenti, di cui la lirica L’esperimento sembra svelare le dinamiche di gioco sottilmente perverso,[49] perpetuano in fondo un identico tipo di bellezza femminile: quella «mulier fortis» già a suo tempo individuata da Pancrazi,[50] le cui caratteristiche fisionomiche («la bocca larga», la «mascella forte», «il profilo dritto») si saldano con atteggiamenti psicologici richiamanti sempre qualcosa di mascolino, di virile. Un tipo di bellezza che, celebrata in versi e in prosa, trova un eloquente e affascinante riscontro sulle carte autografe e sui libri del poeta, le cui pagine, al pari dei manoscritti, sono «spesso e volentieri accompagnate e garantite dai consueti ritratti di donna»,[51] che appunto ricalcano, pur nel mutare delle acconciature un medesimo tipo di donna frequentemente caratterizzato da tratti spiccatamente androgeni.

Come è facile notare, anche da questi pochi esempi, la tecnica ritrattistica di Gozzano si basa su una sorta di schematismo, un preciso catalogo di formule ed espressioni che, con pochi adattamenti si ripetono in molti dei suoi personaggi sia maschili che femminili. Una tecnica che procede per dettagli e che privilegia innanzi tutto solo alcuni tratti del viso o dell’abbigliamento, «per cui ai suoi occhi una figura si concreta, in primo luogo, attraverso le sue vesti e i suoi ornamenti, risolvendosi sempre, sia essa antica o moderna, in un sontuoso ritratto o in uno svelto figurino».[52] Giuseppe Savoca, sulla base delle concordanze delle poesie di Gozzano, ha dimostrato come una tale visione del corpo femminile, che insiste sul dettaglio a discapito dell’unità io-corpo, sia fondata su un complesso non risolto nei confronti della madre:

Egli vede la donna ridotta a parti, a zone erogene. Capigliature, mani, occhi, piedi, e soprattutto, bocche e denti, ma anche i vestiti e le acconciature, attirano il suo desiderio ponendosi come zone corporee privilegiate da una sessualità infantile e pregenitale.[53]

Un tipo di eros dominato da un rapporto fortemente inclinato per la parte anziché per il tutto, nel quale i tratti del corpo dei suoi personaggi femminili, come l’insieme dei suoi attributi, fra cui ovviamente anche gli abiti e le acconciature, sono i sostituti «di un altro tempo dell’amore, di un altro corpo d’amore».[54] Siamo insomma nell’ambito più classico del feticismo freudiano, per cui alla paura della castrazione, generata dalla visione del corpo nudo della madre privo dell’organo genitale maschile, vengono appunto opposte strategie di compensazione attuate attraverso sostituzioni simboliche.[55]

Fra i dettagli del corpo, i feticci, su cui la scrittura di Gozzano si sofferma maggiormente, un posto assai rilevante è occupato dalle capigliature. Non a caso si tratta di uno dei luoghi canonici del feticismo di tutti i tempi, da sempre coinvolto in una dimensione sacra attraverso le pratiche magico-religiose, e, nel contempo, considerato quale rifiuto, scarto organico, materia informe dall’effetto perturbante e che genera disgusto.[56] Questa doppia azione di attrazione/repulsione esercitata dal potere fascinatorio delle chiome, in Gozzano, è esemplarmente rilevabile in una poesia come Il sogno cattivo:

Se guardo questo pettine sottile
di tartaruga e d’oro, che raffigura –
opera egregia di cesellatura –
un germoglio di vischio in nuovo stile,
risogno un sogno atroce. Dal monile
divampa quella gran capellatura
vostra, fiammante nella massa oscura…
E pur non vedo il volto giovanile.
Solo vedo che il pettine produce
sempre capelli biondo-bruni e scorgo
un cielo fatto delle loro trame:
un cielo senza vento e senza luce!
E poi un mare… e poi cado in un gorgo
tutto di bande color di rame.[57]

Un sonetto che, da una parte, è una dichiarazione inconscia del feticismo del poeta, come si evince dal riferimento fin troppo esplicito al mostro della testa di Medusa, e dunque dei suoi corollari simbolici chiaramente interpretabili in chiave psicanalitica.[58] Dall’altra, costituisce un prezioso documento dell’estetismo liberty di Gozzano, evidente nell’accurata descrizione di un oggetto tipico dell’arte decorativa Art Nouveau, tanto che, secondo la Bossaglia, «par di vedere uno degli squisiti pettini di Lalique, o per stare a Torino, di Giorgio Ceragioli».[59] Le potenzialità artistiche del feticcio della capigliatura, inteso come oggetto/soggetto delle più diverse pratiche artistiche e antropologiche, risiedono nella ambivalente natura:

Diversamente da altri organi o parti del corpo che risultano, benché feticizzati, prigionieri di una forma, la chioma assume perciò, proprio perché informe, il valore di matrice virtuale di tutte le possibili forme dell’organico, di feticcio del corpo carne (stoffa) pronta a essere plasmata in una anatomia.[60]

A voler sottolineare ulteriormente il fascino esercitato delle chiome sull’immaginario poetico gozzaniano in funzione di elemento figurativo, basterà qui passare velocemente in rassegna la straordinaria quantità di aggettivi che, nella sua scrittura, si concentrano intorno a questo tema: «uniche, ondose, dense, nivee, nere, rosse, parigine, lisce, ricciutelle, disfatte, grandi, vaste».[61] Un corpus che potrebbe essere facilmente infittito allargando lo spoglio oltre le poesie, alle prose del poeta d’Agliè, che certamente meriterebbero una più ampia, e, speriamo proficua, attenzione. Pertanto se è vero che i modelli femminili di Gozzano inseguono segretamente un unico tipo di corpo-donna, tale ossessione piuttosto che un limite è anzi una molla della sua fantasia. Ciò costringe l’autore a una continua rivisitazione e reinvenzione di quel modello unico, in un’infinita gamma di variazioni sul tema che coinvolge in pieno tanto le parole, proprie e altrui, quanto le immagini (disegno, grafica, pittura, fotografia) nelle loro molteplici forme.

Autografo della poesia Torino (AG VIII A, 1)

Ciò che qui interessa è mettere in evidenza una delle possibile sfumature attraverso cui si articola il rapporto tra letteratura e arti figurative in un poeta liminare come Guido Gozzano. Un rapporto rispetto al quale il feticismo, inteso come «fenomeno strettamente legato alla visualità, e che praticamente impone il confronto con le altre arti»,[62] può svelare nuovi scenari di ricerca. Ancor di più se valutato in una prospettiva storica, ossia tenendo conto di un momento come quello del passaggio fra Otto e Novecento, «un’epoca particolarmente ricca di oggetti-feticcio».[63] In quest’ottica lo sguardo feticistico di Gozzano diventa sempre meno una perversione personale e sempre più un fenomeno culturale, attraverso cui il poeta riuscì a dialogare con la sua epoca e con le arti che ne furono espressione.


1 Cfr. M. Cometa, Letteratura e arti figurative: un catalogo, in M. Fusillo e M. Porcaro (a cura di), Atti del convegno di studi di letteratura comparata, L’Aquila, febbraio 2004, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2006, pp. 15-29.

2 E. Sanguineti, «La casa dei secoli», in Id., Guido Gozzano. Indagini e letture, Torino, Einaudi 1966, p. 44.

3 Cfr. M. Masoero, Catalogo dei manoscritti di Guido Gozzano, Firenze, Olschki, 1983.

4 M. Vugliano, Gozzano studente, in G. Gozzano, Cara Torino. Poesie e prose scelte, con saggi e testimonianze, Torino, Viglongo, 1975, p. 258.

5 G. Gozzano, Lettere d’amore di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, a cura di S. Asciamprener, Milano, Garzanti, 1951, lettera del 17 Aprile 1908, p. 99.

6 Cfr. C. Calcaterra, Albo dell’officina, in G. Gozzano, Opere, a cura di C. Calcaterra e A. De Marchi, Milano, Garzanti, 1948, pp. 1242-1249.

7 M. Masoero, Prima della citazione. Guido Gozzano lettore, in ‘E ‘n guisa d’eco i detti e le parole’. Studi in onore di Giorgio Barberi Squarotti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005, p. 1041.

8 G. Finocchiaro Chimirri, Introduzione, in G. Gozzano, Un vergiliato sotto la neve. Scritti sull’Esposizione Universale di Torino 1911, a cura di G. Finocchiaro Chimirri, Catania, Maimone, 1984, p. 56-57.

9 Ivi, p. 58.

10 M. Cometa, Letteratura e arti figurative: un catalogo, cit., p. 18.

11 L. Mondo, Storia e natura in Guido Gozzano, Milano, Silva Editore, 1969, p. 109.

12 E. Sanguineti, «La casa dei secoli», cit., p. 47.

13 A. Piromalli, Ideologia e arte in Guido Gozzano, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 11.

14 F. Livi, L’amore delle belle immagini: Gozzano e la cultura francese, in Guido Gozzano. I giorni, le opere, Atti del convegno nazionale di studi (Torino, 26-28 Ottobre 1983), Firenze, Olschki, 1985, p. 12.

15 A. Dayot, La donna in effigie attraverso i secoli, trad. it. di U. Fleres, Torino, Roux Frassati & C., 1900. Il testo secondo la catalogazione fatta dal Centro di Studi di letteratura in Piemonte Guido Gozzano-Cesare Pavese, è contraddistinto dalla sigla BIBL. GOZZ. 122.

16 A. Dayot, La donna in effigie attraverso i secoli, cit., p. 1.

17 E. Sanguineti, «La casa dei secoli», cit., pp. 44- 45.

18 A. Beyer, Il volto: descritto, dipinto, letto, in R. Coglitore (a cura di), Cultura visuale. Paradigmi a confronto, Palermo, :duepunti, 2008, p. 33.

19 G. Gozzano, La casa dei secoli, in Id., Opere, cit., p. 450.

20 G. Gozzano, Lettere d’amore di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, cit., lettera del 10 Giugno 1907, p. 37.

21 F. Antonicelli, Come nacque la «Signorina Felicita», in Id., Capitoli Gozzaniani. Scritti editi ed inediti, a cura di M. Mari, Firenze, Olschki, 1983, p. 37.

22 G. Gozzano, Lettere d’amore di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, cit., lettera del 3 Agosto 1907, p. 47.

23 G. Gozzano, Epistolario, in Id., Poesie e prose, a cura di A. De Marchi, Milano, Garzanti, 1961, lettera del 23 settembre 1908, pp. 1320-1321. La data della lettera presente in questa edizione delle opere di Guido Gozzano e da ritenersi per più motivi totalmente erronea, come hanno puntualmente rivelato molti studiosi infatti l’anno di composizione è certamente il 1907. Valga per tutti l’accuratissima ricostruzione fattane da Andrea Rocca, Nota critica ai testi, in G. Gozzano, Tutte le poesie, a cura di A. Rocca, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1980, p. 672.

24 F. Antonicelli, Come nacque la «Signorina Felicita», cit., p. 39.

25 A. Rocca, Nota critica ai testi, in G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., p. 661

26 G. Gozzano, Lettere d’amore di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, cit., pp. 60-61, lettera del 12 novembre 1907 (il corsivo è mio).

27 G. Savoca, I crepuscolari e Guido Gozzano, in La letteratura italiana storia e testi, Il Novecento, 9, I, Roma-Bari, Laterza, 1976, p. 340.

28 G. Gozzano, La signorina Felicita ovvero la Felicità, in Id., Opere, cit., p. 107.

29 A. Dayot, La donna in effigie, cit., p. 108 (il corsivo è mio).

30 Ivi, p. 148.

31 G. Gozzano, L’ipotesi, in Id., Opere, cit., p. 853. Come è noto questa lirica intrattiene stringenti legami tematici con La signorina Felicita ovvero la Felicità e ne condivide il medesimo humus genetico; Gozzano stesso la definisce un «passaggio logico» per introdurre il poema della signorina Felicita. Cfr. C. Calcaterra, Note di Carlo Calcaterra al testo delle singole opere, in G. Gozzano, Opere, cit., p. 1233.

32 G. Gozzano, La signorina Felicita ovvero la Felicità, in Id., Opere, cit., p. 117.

33 E. Sanguineti, Preistoria di Felicita, in Id., Guido Gozzano. Indagini e letture, cit., p. 106.

34 Cfr. W.J.T. Mitchell, Picturial Turn. Saggi di cultura visuale, in M. Cometa (a cura di), Palermo, :duepunti, 2009, pp. 9-11.

35 Cfr. A. Rocca, Nota critica ai testi, in G. Gozzano, Tutte le poesie, cit., pp.665-667

36 A. Dayot, La donna in effigie, cit., p. 8 (il corsivo è mio).

37 G. Gozzano, Historia, in Id., Opere, cit., p. 868.

38 Ivi, pp. 869-870.

39 G. Gozzano, I benefici di Zaratrusta, in Id., Opere, cit., pp. 836-837.

40 G. Gozzano, Lettere d’amore di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, cit., lettera del 11 Marzo 1909, p. 131.

41 G. Gozzano, L’altare del passato, in Id., Opere, cit., p. 311.

42 G. Gozzano, Una risorta, in Id., Opere, cit., p. 141.

43 R. Bossaglia, Gozzano e il Liberty in Guido Gozzano. I giorni, le opere, cit., p. 264.

44 Cfr. P. Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana: dal XV al XX secolo, Bologna, Zanichelli, 1988, pp. 197-208.

45 G. Calcagno, L’enciclica di Sergio Quinto, in S. Quinzio, La croce e il mare. Poesie 1943- 1947, a cura di G. Calcagno, Torino, Aragno, 2002, p. 137.

46 P.M. Prosio, Da Palazzo Madama al Valentino. Torino e Gozzano, Torino, Centro Studi Piemontesi, 2000, p. 11.

47 R. Bossaglia, Gozzano e il Liberty, cit., p. 263.

48 G. Gozzano, Una Risorta, in Id., Opere, cit., p. 142.

49 Cfr. E. Sanguineti, «La casa dei secoli», cit., p. 44-45.

50 P. Pancrazi, Guido Gozzano senza i crepuscolari, in Id., Scrittori italiani del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1934, p. 8.

51 M. Masoero, Prima della citazione. Gozzano lettore, cit., p. 1041.

52 E. Sanguineti, «Un vergiliato sotto la neve», in Guido Gozzano. Indagini e letture, cit., p. 52.

53 G. Savoca, Parole del corpo nella poesia di Gozzano, in Id., Tra testo e fantasma, Roma, Bonacci, 1985, p. 53.

54 Ivi, p. 52.

55 Cfr. S. Freud, Feticismo, in Id., Opere, 10, Torino, Bollati-Boringhieri, 1966-1980, pp. 491-497.

56 Cfr. A. Violi, Capigliature. Passaggi del corpo nell’immaginario dei capelli, Milano, Mondadori, 2008, pp. 1-7.

57 G. Gozzano, Il sogno cattivo, in Id., Opere, cit., p. 49.

58 Cfr. G. Savoca, Parole del corpo della poesia di Gozzano, cit., pp. 54-55.

59 R. Bossaglia, Gozzano e il Liberty, cit., p. 264.

60 A. Violi, Capigliature, cit., p. 62.

61 G. Savoca, Parole del corpo nella poesia di Gozzano, cit., p. 56.

62 M. Fusillo, Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 9.

63 Ibidem.