Gesù Cristo per caso... Enrique Irazoqui fra casting e accelerazioni stilistiche

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Il saggio analizza uno dei capitoli più appassionanti della genesi del Vangelo secondo Matteo, ovvero la scelta dell’interprete del ruolo di Cristo. Oltre a ricostruire le diverse ipotesi che portarono all’incontro con Enrique Irazoqui, ci si sofferma sulla qualità dell’interpretazione del giovane studente catalano nel contesto di un’opera segnata da importanti novità sul piano delle riprese e dello stile.

The essay analyzes one of the most exciting chapters of the genesis of Il Vangelo secondo Matteo, namely the choice of the interpreter for the role of Christ. In addition to reconstructing the various hypotheses that led to the meeting with Enrique Irazoqui, the paper focuses on the quality of the interpretation of the young Catalan student in the context of a work marked by important innovations in terms of shooting and style.

 

Nella galleria di spettri e figure che ingombrano l’imagery pasoliniana un posto eccezionale è occupato dal sintagma di Cristo, emblema di una disposizione paradossale, quella fra santità ed eresia, con cui lo scrittore ha lottato fino alla fine, giungendo a incarnare la medesima istanza martirologica che aveva infiammato (sub specie Christi) la sua coscienza. La potenza del sembiante cristologico si rivela già nel corso della prima stagione artistica tra le pieghe delle Poesie a Casarsa, attraversate da un gioco dialettico tra il corpo di Cristo e lo specchio di Narciso, matrici archetipiche di una accorata ricerca identitaria dell’io poetico. Dentro le atmosfere dell’eden materno, sospese tra innocenza e colpevolezza, l’iterata presenza dell’immagine di Cristo è ancora aereo fantasma di litanie, ludica superficie di processioni e danze; tale leggerezza metamorfica, non priva di tensioni e spasmi, ben presto avrebbe lasciato il posto a un sentimento più cupo del vivere, testimoniato dall’ossessiva ripetizione del motivo della Passione e della Crocifissione. Basta sfogliare i titoli delle sezioni e dei componimenti dell’Usignolo della Chiesa cattolica per cogliere, infatti, un percorso cristologico inedito, non sequenziale, non letterale ma in un certo senso autobiografico e come autoinflitto, legato inestricabilmente al destino personale dell’autore, che ha bisogno di sublimare il proprio dolore attraverso l’identificazione con Cristo (cfr. Rimini 2006, Rizzarelli 2015). Quasi ad apertura della raccolta si incontra il componimento La Passione, un poemetto in cui con accorata partecipazione viene contemplato il calvario di Gesù, attraverso un calibrato impianto linguistico che alterna le voci e i soggetti dell’enunciazione. La dinamica interna del testo sembra mimare in alcuni passaggi la forma del dialogo drammatico: alla prima persona plurale, il «noi» dei fanciulli che guardano e ‘nominano’ la scena, si aggiunge la prima persona singolare, l’«io» che patisce e soffre.

 

Cristo nel corpo
sente spirare odore di morte.
Ah che ribrezzo
Sentirsi piangere!
Marie, Marie,
albe immortali
quanto dolore…
Io fui fanciullo
e oggi muoio.
[…]
Ah che ribrezzo
col caldo sangue
sporcarvi i corpi
color dell’alba!
Foste fanciulli
e per uccidermi
ah quanti giorni
d’allegri giochi
e d’innocenze (Pasolini 2003, pp. 388-389).

 

«Io fui fanciullo» / «foste fanciulli»: la comune appartenenza al tempo della giovinezza dà avvio alla crisi sacrificale per cui si consuma il martirio della croce secondo la logica scambievole della violenza, che prevede l’assegnazione dei ruoli e la designazione del capro espiatorio. Cristo condivide con i fanciulli la malizia dei primi sguardi, il desiderio dei corpi, un’istintiva sensualità che incrina l’innocenza dell’infanzia, proiettandola nel cono d’ombra della colpa. L’impianto strutturale e stilistico della poesia introduce una prima aporia nel sistema etico e ideologico pasoliniano, cioè l’intermittenza tra peccato e redenzione, tra immedesimazione e distacco contemplativo, da cui deriverà la forte ambivalenza della figura di Cristo, capace di dissimulare se stesso assumendo molteplici sembianze. I ‘poveri cristi’, come Tommasino, Accattone, Stracci, nasceranno infatti per gemmazione dal costato ferito del figlio di Dio, e in questo slittamento grammaticale (da nome proprio a nome comune) si compie la deriva martirologica della scrittura pasoliniana: l’unicità del Segnato sopravviverà nella ‘disperata vitalità’ dei diversi – proletari, omosessuali, negri ed Ebrei – e continuerà ad offrirsi come pietra dello scandalo.

Se il primo lungo tratto dell’avventura cinematografica pasoliniana insiste proprio su questi ‘doppi’, folgoranti apparizioni di corpi e volti messi in risalto da quel principio di «sacralità tecnica» (Pasolini 2001, p. 2768) sul quale il regista imposta la trilogia romana, sarà poi il fatale confronto col dettato di Matteo a determinare un corto circuito semantico e visivo, che imprimerà un vero turning point alla produzione successiva.

nulla mi pare più contrario al mondo moderno […] di quel Cristo mite nel cuore, ma «mai» nella ragione, che non desiste un attimo dalla propria terribile libertà come volontà di verifica continua della propria religione, come disprezzo continuo per la contraddizione e per lo scandalo. Seguendo le «accelerazioni stilistiche» di Matteo alla lettera, la funzionalità barbarico-pratica del suo racconto, […] la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione (Pasolini 2001, pp. 673-674).

La «terribile libertà» del Cristo di Matteo viene accolta da Pasolini come modello di una vocazione sacrificale ‘rivoluzionaria’, fuori da ogni schema, che impone di «fare qualcosa» pur di corrispondere alla straordinaria «emozione estetica» (ibidem) suscitata dalla lettura della parola evangelica. La scelta di girare un film sul Vangelo di Matteo va considerata come il culmine di un processo creativo che si era già aperto al tema del sacro (cfr. Subini 2008) e che provava a infrangere l’ultimo tabù di una fede ‘scandalosa’, ovvero la rappresentazione diretta di Cristo in carne ed ossa.

 

1. Chercher le Christ

La scelta dell’interprete principale del film costituisce, non a caso, uno dei capitoli più affascinanti della genesi del Vangelo, per la tensione con cui Pasolini ha scandito le fasi della ricerca, con il susseguirsi di ipotesi via via smentite e poi risolte dalla straordinaria e ‘accecante’ epifania di Enrique Irazoqui, un giovane anarchico incontrato dall’autore per caso. Prima di questa fortunata casualità, molte erano state le congetture, fra cui addirittura quella di affidare la parte al poeta russo Evtušenko, al quale Pasolini indirizza una proposta esplicita e accorata:

Caro Evtushenko, non lo sai: ma è da un anno che penso a te. Per una ragione a dir poco sorprendente […] vorrei che tu facessi la parte di Cristo nel mio film sul Vangelo secondo Matteo. Tutto quello che ciò implica, non lo so perfettamente bene neanche io. Ne parleremo insieme: se questa “cosa sorprendente” e di così grande importanza per me, si realizzerà. […] Tu forse sai che io, non essendo un regista… serio, non cerco i miei interpreti tra gli attori; finora, per i miei films sottoproletari, li ho trovati, come si dice in Italia, “nella strada”. Per Cristo, un “uomo della strada” non poteva bastare: alla innocente espressività della natura, bisognava aggiungere la luce della ragione. E allora ho pensato ai poeti. E pensando ai poeti ho pensato per primo a te (Pasolini 1988, pp. 518-519).

L’immediatezza espressiva degli attori di strada, regola aurea del cinema pasoliniano non solo della prima ora, non basta a contenere l’eccedenza della figura di Cristo e così lo scrittore-regista arriva a concepire un primo scarto rispetto alle consuete operazioni di casting; la lettera a Evtushenko profila un’alternativa radicale ma credibile, sulla quale sembrano indirizzarsi tutte le sue energie. Questa ipotesi viene ribadita, infatti, nell’articolo-intervista intitolato per l’appunto Cerco il Cristo fra i poeti:

Come dovrebbe essere fisionomicamente il suo Cristo e quale attore potrebbe avvicinarglisi? Dove ha indirizzato le ricerche e come le svolge?
Ho un’idea di Cristo, è vero: ma pressoché inesprimibile. Potrebbe essere tutti, e infatti lo cerco dappertutto. L’ho cercato in Israele e in Sicilia, a Roma e a Milano… Ho pensato a poeti russi e a poeti americani… È forse tra i poeti che lo cerco (Pasolini 2001, p. 2840).

Durante i frenetici sopralluoghi per il Vangelo, Pasolini si dedica anche alla scrittura della sezione Alba meridionale per la raccolta Poesia in forma di rosa, in cui rimangono tracce di questa ricerca appassionata, oltre che della confusione delle pulsioni del soggetto-narciso, sempre più coinvolto in atti di abiezione vissuti come disperato amore per la vita («sesso a Gerusalemme, religione a Gerusalemme: / insieme, in un severo-balneare evo barbarico, / libidine a Gerusalemme, pietà a Gerusalemme, / una vecchia città di provincia sotto il sole», Pasolini 2003, p. 1229). La scandalosa declinazione dell’eros mercenario si alterna alla ricerca delle locations per il film, in un’atmosfera ambigua per la mescolanza di corpi e luoghi simbolicamente trasfigurati dalla memoria poetica dell’autore. A segnare ancor di più l’ambivalenza di questo viaggio interviene il senso di una perdita, che è ancora e sempre quella di Cristo.

 

Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto
in ogni mio intuire. Ed è volgare,
questo non essere completo, è volgare,
mai fu così volgare come in questa ansia,
questo «non avere Cristo» – una faccia
che sia strumento di un lavoro non tutto
perduto nel puro intuire in solitudine,
amore con se stessi senza altro interesse
che l’amore, lo stile, quello che confonde
il sole, il sole vero, il sole ferocemente antico,
– sui dorsi d’elefante dei castelli barbarici,
sulle casupole del Meridione – col sole
della pellicola, pastoso sgranato grigio,
biancore da macero, e controtipato, controtipato (ivi, p. 1235).

 

In questi appunti en poète per un film da farsi Pasolini ribadisce l’ansia stilistica per un volto che sappia finalmente incarnare il mistero della redenzione e liberare la tensione figurativa per il nuovo progetto cinematografico. Bisognerà attendere ancora un anno prima di risolvere la questione e sarà un’«ispirazione improvvisa» a sciogliere tutte le riserve, come Pasolini racconta a Jon Halliday:

In base a quali criteri ha scelto il personaggio di Cristo?
Ebbi un’ispirazione improvvisa, fondata sugli elementi della mia psicologia e sul mio modo di vedere le persone. Passai più di un anno guardandomi in giro alla ricerca di qualcuno per fare Cristo, e avevo quasi deciso di servirmi di un attore tedesco. E poi un giorno tornai agli uffici della casa produttrice e trovai questo giovane spagnolo, Enrique Irazoqui, che era lì in attesa di parlarmi, e non appena lo vidi, prima ancora che avesse modo di aprir bocca, gli dissi: «Scusi, le andrebbe di lavorare in un mio film?». […] Era una persona seria, e così mi disse: «No». Ma a poco a poco riuscii a fargli cambiare idea (Pasolini 1999, p. 1332).

La veridicità dell’aneddoto è confermata dallo stesso Irazoqui, più volte sollecitato a rievocare i contorni di quell’incontro decisivo:

Sig. Irazoqui come conobbe Pasolini? Accettò subito la sua proposta di interpretare Gesù Cristo nel Vangelo secondo Matteo?
In quel tempo io ero un militante antifranchista, appartenente al Sindacato universitario clandestino e appartenevo allo stesso tempo al partito comunista (clandestino). Decidemmo di andare a fare un viaggio in Italia per conoscere eminenti personalità da invitare […] sia a tenere lezioni che sposassero la nostra causa sia per chiedere un aiuto finanziario per le nostre battaglie. […] Un giorno fui convinto ad andare a conoscere un poeta di cui non avevo mai sentito parlare, tale Pier Paolo Pasolini. Lui mi squadrò e dopo tempo seppi che in quel momento esatto decise che dovevo essere io e solo io l’interprete di Cristo per il Vangelo. […] Quando lui mi propose di interpretare Gesù Cristo io immediatamente rifiutai. Non mi interessava nulla, avevo altre cose ben più importanti a cui pensare, come fare la rivoluzione e realizzare la fratellanza tra i popoli. Pasolini allora cercò di farmi convincere dai suoi amici, tra cui Elsa Morante e Giorgio Manacorda (figlio dello storico). Manacorda mi convinse dicendomi che con la paga, che avrei ricevuto per il ruolo cinematografico, avrei avuto una cospicua somma da destinare al mio sindacato e così accettai. C’è una lettera che si trova anche in internet di Pasolini indirizzata a Pietro Nenni, in cui il poeta rivela al politico che io accettai perché la paga andava integralmente destinata al sindacato e non a me stesso (Irazoqui in Pignataro 2016). 

 

La lettera a cui fa riferimento Irazoqui è per certi aspetti l’ultimo atto di una vicenda appassionante, testimonianza della circolarità di rapporti e sinergie creative che Pasolini andava intrecciando e che l’avventura cinematografica contribuì a potenziare:

Egregio e caro Nenni, voglio chiederLe scusa per la visita di stamattina (così importante per me, ma così irrisoria davanti ai suoi impegni di questi giorni), e ringraziarLa per la Sua grande gentilezza.
Non resisto ora alla tentazione di dirLe una cosa che forse La commuoverà. Sa come ho trovato l’interprete di Cristo? Ero ridotto alla disperazione, solo pochi giorni fa, perché l’attore tedesco (ebreo) che avevo scelto, non mi convinceva più: non era il viso assoluto che cercavo. Mi ero rivolto allora a Luis Goytisolo (di cui finalmente avevo visto una fotografia, con una faccia, come si dice, straordinaria), e Goytisolo era, ed è, propenso ad accettare. Ma ecco che ricevo la più innocente delle telefonate, la più remota al caso: Giorgio Manacorda (il figlio di Gastone), che da tempo è mio amico, perché scrive dei versi molto belli – belli perché più politici che poetici – mi chiede di presentarmi un suo amico, un giovane universitario spagnolo, impegnato nella lotta clandestina, che voleva parlarmi e conoscermi.
Cristo era lui: tutto preso dal suo unico ossessivo sentimento, la lotta per la libertà, povero ragazzo, non percepiva neanche le mie parole, con cui timidamente cercavo di proporgli di lavorare con me (vergognandomi della sproporzione tra l’umile, ma immenso, idealismo per cui era venuto a trovarmi, e ciò che invece gli offrivo). Non poteva capirmi. Il suo posto era a Barcellona, con i suoi compagni. Sa perché infine si è deciso ad accettare? Perché i soldi che avrebbe guadagnato, li avrebbe dati alla sua Causa.
Non so perché Le ho detto queste cose, e così male. È la prima volta che ne parlo (nessuno, eccetto il produttore, ne sa niente) (Pasolini 2022).

 

La confessione a Nenni scioglie l’incertezza creativa legata alla ricerca del Cristo ‘in carne e ossa’ e rilancia la piena aderenza di Irazoqui al modello immaginato da Pasolini: non una figura tradizionale, ma una sorta di pastiche visivo, con «caratteri arcaico-bizantini o spagnoli barocchi, oltre alla evidente implicazione di El Greco» (Pasolini 1991, p. 107). L’«umile, ma immenso idealismo» del giovane studente si accompagna a un physique du rôle che lo avvicina all’enigmatica espressività dei soggetti ritratti dal pittore cretese («Aveva lo stesso volto bello e fiero, umano e distaccato dei Cristi dipinti da El Greco» - ibidem) e tale connubio diventerà una delle chiavi di lettura dell’intero film.

 

2. «The angriest Jesus shown on screen»

I ritmi delle riprese furono sempre concitati, Irazoqui ricorda che si andava avanti anche per dodici ore di fila, ma non mancavano le pause ‘ricreative’, con partite di calcio fuori dalle mura di Matera. Tra le icastiche memorie del set ci sono alcuni dettagli degni di nota, che riguardano il rapporto con Pasolini e con la gente del sud Italia.

 

Pasolini era un regista che interagiva molto con le persone, con gli attori e con tutta la troupe cinematografica. Quando doveva far soffrire la madre-Madonna sotto la croce le gridava “Pensa a Guido!”, riferendosi al fratello ucciso nella strage di Porzus. Invece quando io dovevo discutere con i farisei e con i romani mi suggeriva di “pensare ai franchisti”, sapendo che, per un giovane antifranchista e marxista come me, questo sprono sarebbe stato di grande aiuto (Irazoqui in Pignataro 2016).

 

La scelta di escludere il suono in presa diretta consentiva al regista-scrittore di guidare da vicino i suoi attori, di stare loro addosso, approfittando di ogni ciak per dirigere e incanalare le loro espressioni. Il cast del Vangelo era del resto abitato da volti noti, amici scrittori e amiche scrittrici che si affidavano alle sue intuizioni, consegnando all’obiettivo della macchina da presa pose e gesti ora misurati ora enfatici, in perfetto accordo con la sua visione. Gesù/Irazoqui doveva sembrare estremamente credibile dal momento che, come ricorda lo stesso attore, lo fermavano in molti a Barletta o a Matera, chiedendogli di fare un miracolo e soprattutto lo apostrofavano con fermezza quando lo sorprendevano con la sigaretta in bocca («Cristo non fuma!»).

Ma a cosa si deve esattamente la attendibilità di Irazoqui come interprete? Qual è la traccia che consegna alla lunga scia delle maschere di Cristo? Per rispondere a tali quesiti occorre innanzitutto richiamare gli sforzi autoriflessivi dello stesso Pasolini, perché è indubbio che Irazoqui funzioni come figura cristologica grazie al forte investimento stilistico del regista.

 

Un Cristo ieratico non era un Cristo; una panoramica solenne, maestosa, su degli Apostoli che ascoltano Cristo perdeva di significato, mentre poteva avere valore sulle facce dei giovinnottastri romani che stavano ad ascoltare neghittosamente Accattone. E allora, in pochi giorni, in poche notti di insonnia, ho dovuto rivoluzionare il mio modo di vedere tecnicamente e stilisticamente il film, passando a una tecnica completamente diversa, al così detto magma (Pasolini 1991, p. 105).

 

L’abbandono della ‘tecnica sacrale’ sperimentata in Accattone e l’approdo al «magma» rappresentano una svolta decisiva, l’unica concreta possibilità di dare sostanza alla «discontinuità genetica» della narrazione di Matteo e di superare la patina tradizionale delle prime sequenze girate; grazie a questo cambio di rotta il Vangelo abbandona i cliché figurativi propri del genere e rilancia l’idea di un cinema intimamente poetico, capace di sprigionare una diversa sensibilità religiosa, un potente umanesimo visivo.

Nel quadro di una rinnovata tensione compositiva, al Cristo di Irazoqui tocca un risalto espressivo notevole, che Pasolini rivela fin dalle prime inquadrature [figg. 1-2] – a quasi mezz’ora dall’inizio del racconto – accentuando alcune peculiari marche stilistiche (l’insistenza verso primi e primissimi piani, l’uso espressivo della macchina a spalla, netti giochi chiaroscurali), volte a esaltare i tratti fisiognomici specifici dell’attore (l’energia rude e vigorosa del suo volto, la profondità dello sguardo). Se ci si spinge a considerare più da vicino i segni di performance di Irazoqui emerge innanzitutto lo scarto tra la sua acerba fisicità e la dizione fluida e severa della voce di Enrico Maria Salerno, il doppiatore scelto da Pasolini; mantenendo fede alla sua ‘estetica del montaggio’, il regista determina volontariamente un forte attrito fra il sintagma corporeo dell’interprete, segnato da una gestualità furente, e la voce stentorea di Enrico Maria Salerno, colto e capace di ampie sfumature tonali. L’effetto straniante di questo contrasto produce una frizione interna al personaggio che si manifesta nella sproporzione tra la presenza radicalmente umana del figlio di Dio e l’origine ‘divina’, o perlomeno ‘trascendente’, del Verbo.

L’adozione di una «tecnica assolutamente caotica» (ibidem) fa sì che il regista riesca a tradurre la frammentarietà episodica della scrittura evangelica attraverso l’accostamento serrato di scene e sequenze legate solo da dissolvenze, anche se poi la costruzione paratattica è contraddetta da un montaggio ‘nervoso’, che spezza ogni illusione naturalistica. Ciò che colpisce è, allora, l’alternanza e la sovrapposizione tra la muta esistenza delle cose e l’irrompere della Parola di Cristo, della forza oltranzistica della sua ‘buona novella’, che lacera la cortina di silenzio entro cui è avvolta gran parte del racconto, per incitare all’azione, all’imperativo morale del ‘fare’. La fermezza della predicazione di Irazoqui è sottolineata dai tagli delle inquadrature, dal rapporto asimmetrico con lo sfondo e con le altre figure, in un sistema diegetico in cui conta soprattutto la luce dello sguardo, la vibrazione degli occhi a contatto con la bellezza del creato. È esemplare in tal senso la sequenza delle tentazioni [figg. 3-4], che vede la figura di Irazoqui immersa nella vastità del deserto vulcanico, stretta in un campo lunghissimo che sembra azzerare la sua forza; ma è solo un attimo, in pochi piani Gesù è di nuovo al centro del quadro, inginocchiato a pregare ma deciso a non arrendersi alle lusinghe del demonio. I modi di rappresentazione di Cristo possono apparire semplici, o schematici, eppure l’intensità dreyeriana dei primissimi piani non consente pause allo spettatore, trascinato con forza dentro una sinfonia visiva sempre più azzardata, come nel caso del Discorso della montagna. Tutto l’episodio obbedisce ai canoni di una mirabile astrazione figurativa, affidata a una sensibilità fotografica e pittorica straordinaria, in cui davvero lo stile interviene a sublimare la violenza espressiva della predicazione [figg. 5-6]. L’intera sequenza si compone di dodici scene ‘incollate’ attraverso dissolvenze in chiusura, tranne che nel passaggio dalla terza alla quarta e dalla quarta alla quinta in cui sono inseriti due stacchi molto netti della macchina da presa; lo stile di Pasolini si orienta verso una resa fortemente simbolica dei quadri, saturati dall’immagine in primo e primissimo piano di Cristo: siamo al vertice di quella «esagitazione formale, drammatica e barocca» (Pasolini 2001, p. 611) che Pasolini aveva già previsto in sceneggiatura e che qui trova momenti di grande evidenza. Stretto dentro i margini dell’inquadratura, il volto di Irazoqui mima con ardore il dettato delle Beatitudini, assecondando la tensione ‘metereologica’ dello sfondo in una suite figurativa radicale. La visualizzazione della parola di Cristo passa attraverso il filtro di una corporeità sovraesposta, segnata da bruschi passaggi di luce e tenebre, sferzata da raffiche di vento e pioggia, che restituiscono plasticamente l’ambiguità costituzionale del Messia di Matteo.

La rinuncia al campo/controcampo rende straniante la predicazione, dal momento che viene escluso dallo spettro della visione l’interlocutore di Gesù, quella schiera di fedeli a cui pure è rivolto il suo sguardo ma che resta ai margini della rappresentazione; appare evidente però, seguendo i movimenti degli occhi di Irazoqui, come oltre la linea della folla si apra lo spazio dello spettatore a cui certamente è destinato il messaggio evangelico, ipotesi confermata dalla presenza di uno sguardo in macchina dell’attore a chiusura dell’undicesima scena [fig. 7]. Lungi dall’essere poco efficace e stancamente ripetitiva, la sequenza appare invece plasticamente risolta e tematicamente indispensabile per l’insistenza quasi ossessiva con cui è mostrata l’energia barbarica di Cristo, capace di contrastare l’inerzia dei fedeli. Il messaggio affidato alla perentoria dizione di Irazoqui sembra quindi essere chiaro: non c’è salvezza senza sacrificio, niente può compiersi senza il crisma della croce.

Concepito come un «Cristo stalinista» (Pasolini 1991, p. 106), il personaggio interpretato da Irazoqui trova nella ‘rabbia’ il sentimento dominante («E io ci mettevo tutta la mia rabbia politica e umana», Irazoqui 2020), espressione di una fierezza barbarica, innocente, al di là del tempo e della logica [fig. 8]. Lungi dal sentirsi come «a Hollywood con i suoi Cristi depilati e romantici» (ibidem), Irazoqui sul set pasoliniano vive un’esperienza ineffabile, decisiva, in grado di produrre reazioni leggendarie, come quella di Fortini che non riesce a sopportare per intero la visione del film, travolto da un’emozione incontenibile. Concedendo all’obiettivo di Pasolini ogni possibile angolo di ripresa (di spalle, di scorcio, di profilo), e ogni lunghezza (dal primissimo piano al totale), quel giovane studente spagnolo, divenuto attore per caso, si ritrova quasi senza accorgersene a incarnare la «bellezza assoluta», quella «senza aggettivi» (ibidem) che Pasolini diceva di aver scovato nel Vangelo di Matteo. Di fronte alla verità della sua presenza viva tra le cuciture del montaggio tutto tace, e non si può che dare ragione a Ferdinando Camon quando scrive: «Che sia stato comunista non conta più. Che sia stato antifranchista nemmeno. Che sia stato Gesù, questo conta» (Camon 2020).

 

 

Bibliografia

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