Erranze femminili e paesaggi dell’Antropocene: il cinema contemporaneo delle donne in Italia

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Questo saggio analizza il cinema contemporaneo delle donne in Italia da una prospettiva ecofemminista. Registe di differenti generazioni come Mariangela Barbanente, Cecilia Mangini, Marina Spada, Francesca Comencini, Alice Rohrwacher, Roberta Torre, Wilma Labate, ed Eleonora Danco, ci propongono narrazioni erranti, con protagoniste che camminano per città italiane deserte. Spesso relegato ai margini della scena mediatica questo cinema urbano nomadico esprime un’istanza di appartenenza e di affermazione dell’autorialità femminile e allo stesso tempo ci invita a osservare e prendere coscienza di paesaggi dell’Antropocene, nei quali il degrado urbano e la scomparsa della natura si intersecano all’alienazione umana. I film presi in esame, infatti, ci raccontano non solo storie di erranze femminili, ma anche di un’Italia postindustriale, dell’essiccazione di fiumi, dell’accumulo dei rifiuti, e soprattutto della cementificazione del paesaggio. L’inusuale vuoto delle città attraversate dalle donne ci parla dell’assenza e allo stesso tempo del loro desiderio di appartenenza a comunità vitali.

This essay analyzes contemporary women's cinema in Italy from an ecofeminist perspective. Directors of different generations such as Mariangela Barbanente, Cecilia Mangini, Marina Spada, Francesca Comencini, Alice Rohrwacher, Roberta Torre, Wilma Labate, and Eleonora Danco, present us with a trope common to all: wandering narratives, populated by female protagonists walking through deserted Italian cities. Relegated to the margins of the cinematic scene, this nomadic, this urban, nomadic cinema expresses a claim for belonging, and an affirmation of female authorship. At the same time, it invites us to observe and become aware of Anthropocene landscapes, in which urban decay and the erasure of nature intersect with human alienation. The films examined, in fact, tell us not only stories of female wanderings, but also of a post-industrial Italy, the drying up of rivers, the accumulation of waste, and above all, the cementification of the landscape. The unusual emptiness of the cities traversed by women speaks to us of the absence of, and at the same time, their desire to belong to vital communities.

 

Nel dicembre del 2018, nell’ambito delle mie ricerche sul cinema delle donne in Italia, ho intervistato la regista Cecilia Mangini. Entrando in un bar-libreria romano vicino a Ponte Milvio, Mangini si è rivolta con tono gentile ma perentorio al barista, chiedendogli di abbassare la musica. Poi, senza nemmeno darmi il tempo di presentarmi, ha chiesto con un tono un po’ canzonatorio: «Un libro sul cinema delle donne?», come a dire, «e che cos’è?».[1]

Me l’aspettavo. Conoscendo lo scetticismo di molte registe italiane nei confronti della prospettiva di genere e la paura non ingiustificata di essere etichettate come ‘registe done’, ho risposto: «Lo so, per te il cinema è cinema, non è né maschile né femminile, è cinema e basta. Ma puoi negare che essere donna non abbia influenzato il tuo percorso come regista?».

Senza rispondere alla mia domanda, ha iniziato a raccontare dei suoi inizi, di come, per esempio, negli anni Quaranta aveva preso un treno per Roma con l’intenzione di fare domanda al Centro Sperimentale di Cinematografia. Ma sentendosi indirizzare al corso di montaggio o produzione piuttosto che a quello di regia, se n’era andata e aveva comprato una macchina fotografica, ed era poi diventata una fotografa di strada in tempi in cui per strada a suo dire c’erano solo ‘certe’ donne. Poi dalla fotografia era passata al cinema documentario militante. E il resto è storia del cinema, anche se per alcuni nient’altro che un capitolo marginale.

Oggi, molto (non tutto) è cambiato. Da venti anni a questa parte in Italia un numero crescente di donne esordisce alla regia conquistando spazi un tempo dominati quasi unicamente dagli uomini. Tuttavia, anche se sempre più registe riescono a ottenere fondi per produrre la loro ‘opera prima’, e quelle che hanno cominciato decenni prima continuano a fare film o televisione, le donne rappresentano ancora meno del 10% dei registi italiani, una percentuale significativamente inferiore a quella di altri paesi europei.[2]

Uno studio del 2018, DEA (Donne E Audiovisivo), condotto dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha riportato «discriminazioni di genere nell’assunzione e nella retribuzione, condizioni di lavoro precarie, difficoltà nell’accedere a ruoli dirigenziali e posizioni prestigiose». Ciò significa che «un progetto diretto da una donna» scrive Ilaria De Pascalis «richiede un maggiore impegno per trovare finanziamenti molteplici, e probabilmente avrà un budget inferiore».[3]

Insomma, per tornare alla domanda sottintesa di Cecilia Mangini, il cinema delle donne spesso, come ai suoi tempi, è «minor cinema» (un cinema di minoranza) come ha proposto la studiosa americana Allison Butler prendendo in prestito il concetto di littérature mineure di Gilles Deleuze e Félix Guattari, ovvero una letteratura prodotta da una minoranza in una lingua dominante.[4] Come spiega Butler:

the distinctiveness of women’s filmmaking is not based on an essentialist understanding of gendered subjectivity, but on the position or positions of women in contemporary culture…neither included within nor excluded from cultural tradition, lacking a cohesive collective identity, but not absolutely differentiated from each other.[5]

Considerata la posizione liminale delle donne, non è un caso che esse prediligano narrazioni nomadiche, storie popolate da flâneuse, né che nei loro film si rintraccino segni di un senso di esclusione e non appartenenza.[6] E se, come ci insegna Michel de Certeau, la pratica di camminare nella città non è un muto atto ambulatorio ma una forma di discorso, allora cosa raccontano queste erranze femminili?[7]

Registe di differenti generazioni come Mariangela Barbanente, Cecilia Mangini, Marina Spada, Francesca Comencini, Alice Rohrwacher, Roberta Torre, Wilma Labate, Eleonora Danco, ci propongono storie itineranti, con protagoniste donne che camminano per le città italiane e contemplano panorami trasformati dalla crisi ecologica. Il deambulare che così spesso si manifesta nei film diretti da donne esemplifica il flusso del divenire in cui la soggettività femminile si costruisce e, al tempo stesso, simbolizza la ricerca femminile di una propria posizione nei confini di una società ancora in gran parte patriarcale. Lo sguardo delle protagoniste erranti replica quello della regista che, iscrivendosi nel testo filmico, afferma la propria autorialità (o esprime la propria ansia di autorialità) ma soprattutto rivolge il suo sguardo verso l’ambiente circostante e ce lo mostra.

Di questo cinema di minoranza, infatti, si può tracciare una geografia urbana da una prospettiva teorica ecofemminista secondo la quale la violenza di genere, quella razziale e quella verso le altre specie animali è interconnessa con il deterioramento dell’ambiente.[8] Come sottolinea Serenella Iovino in dialogo con altre studiose ecofemministe quali Karen Warren e Val Plumwood, il pensiero e la pratica ecofemminista smantellano dicotomie come umano/natura, natura/cultura, mente/corpo, scardinano una «master narrative» in cui «the master subject (whether human kind, man, or colonizer) tends to ʻdevourʼ every form of otherness (respectively, non-human, women, or the colonized)».[9]

Sebbene non si possa affermare che il cinema contemporaneo (delle donne) in Italia affronti tutte le preoccupazioni dell’ecofemminismo, così come le esperienze delle donne rappresentate non sono necessariamente rappresentative di tutte le donne, la lente critica dell’ecofemminismo può fornire strumenti per riconoscere il loro contributo alle battaglie per l’ambiente (anche attraverso il cinema), può promuovere l’acquisizione di consapevolezza delle posizioni marginali che spesso le donne occupano, e può potenzialmente permettere di leggere ‘altre’ storie sul mondo in cui viviamo.

In definitiva l’ecofemminismo mette a fuoco quella che a mio avviso è una delle più importanti espressioni del cinema femminista contemporaneo (non solo italiano), ovvero l’ecocinema inteso come un cinema che, in questo caso, pone al centro della narrazione la relazione tra le donne e l’ambiente nel quale abitano.[10] Il deambulare dei personaggi che popolano molti dei film diretti da donne porta sullo schermo paesaggi dell’ormai celebre Antropocene nel modo in cui è stato definito da Paul Crutzen e Eugene Stoermer: «the new geological epoch defined by overwhelming human activity».[11]

L'Antropocene, termine proposto per rinominare l’Olocene, ha generato intensi dibattiti nel campo delle Scienze Umane per l’Ambiente, ispirando un cambiamento immaginativo e dunque anche nuove pratiche artistiche. Come scrive Serenella Iovino:

The Anthropocene is both a landscape and a discourse, a dynamic composition of corporeal elements and sociopolitical narratives... Its landscape is made of continuous cities swallowed by their own metabolism; it is a land swathed by an asphalt-and-concrete crust, a territory covered in rubble or knitted by wires.[12]

Il paesaggio dell’Antropocene evocato da Iovino è piuttosto ricorrente nei film che ho preso in esame. Anche se spesso solo implicitamente, esso testimonia la storia di un’Italia postindustriale, dell’inquinamento dei mari, dell’essiccazione di fiumi, dell’accumulo dei rifiuti, e soprattutto della cementificazione del paesaggio. L’inusuale vuoto delle città attraversate dalle donne parla dell’assenza e allo stesso tempo del loro desiderio di appartenenza a comunità vitali. In definitiva, questo cinema urbano oltre ad affermare un’agency sociale e cinematografica femminile, ci porta in luoghi dove il degrado urbano e lo svanire della natura generano alienazione.

Per illustrare quanto affermato finora, farò una breve panoramica di film diretti da donne tra il 2000 e il 2022 che, con differenti modalità narrative ed estetiche, portano sullo schermo i paesaggi dell’Antropocene. Il documentario In viaggio con Cecilia (2013) diretto da Mariangela Barbanente e Cecilia Mangini presenta le due registe nel percorso verso le città di Taranto e Brindisi dove, durante il periodo del miracolo economico, la giovane Mangini aveva realizzato documentari che indagavano la traumatica transizione da un mondo rurale alla società industrializzata e svelavano, già allora, la convergenza tra la diseguaglianza sociale e il declino ambientale. In cortometraggi come Essere donne (1965), Tommaso (1965), Brindisi 65 (1966), Cecilia Mangini denuncia infatti la povertà, lo sfruttamento, l'analfabetismo e la mancanza di agency delle donne.

Quattro decenni dopo, i suoi film ci appaiono profetici, e svelano come l’industria, collassando, abbia lasciato queste città impoverite e fortemente inquinate. Arricchito dai frammenti dei documentari di Mangini e dal doppio dialogo tra le registe, e tra loro e gli abitanti di queste città pugliesi, In viaggio con Cecilia restituisce una nuova audience all’opera originale di Mangini, e allo stesso tempo dà voce anche a una comunità in lutto ma resiliente. E per ultimo, ma non meno importante, questo documentario riconosce il ruolo di primo piano della Mangini nella genealogia delle registe italiane.

 Una comunità in lutto. Screenshot da terzi, In viaggio con Cecilia (2013) di Mariangela Barbanente e Cecilia Mangini. ©GA&A Productions.

Apparentemente non inerenti a questioni ecologiche, anche i film di Marina Spada si prestano a una lettura ecocritica. Rifuggendo l’assolutismo di una visione patriarcale del mondo, i suoi fugaci racconti milanesi, Come l’ombra (2006), Poesia che mi guardi (2009) e Il mio domani (2012), anche loro popolati da donne erranti, esplorano una città lacunosa, discontinua nel tempo e nello spazio, cosparsa di vuoti urbani e rurali, e incerta tanto sul passato quanto sul futuro.[13] Anche queste narrazioni nomadiche portano sullo schermo paesaggi dell'Antropocene: quartieri operai trascurati, desolate aree postindustriali in procinto di gentrificazione, periferie in cui l'acqua è stata coperta dal cemento mentre veicolano una critica all’invisibilità e alla marginalità delle donne, rivendicandone l’appartenenza alla polis.

 Claudia guarda Milano dalla Torre Branca. Screenshot da terzi,Come l’ombra (2006), di Marina Spada

I primi film di Francesca Comencini Mi piace lavorare (Mobbing) (2004) e Lo spazio bianco (2009) raccontano invece storie di sopravvivenza che hanno come teatro contesti urbani quali Roma e Napoli, città che sopravvivono e si trasformano, esattamente come i loro abitanti. In questi film la regista affronta l'esperienza della maternità single nella società contemporanea: il conflitto emotivo dell'ambivalenza materna, l'isolamento sociale in cui spesso viene vissuta la maternità e la lotta per conciliare maternità e lavoro retribuito.

Se letti alla luce delle riflessioni sul concetto di inclinazione di Adriana Cavarero e quello di care (cura), intesa sia come predisposizione che come pratica, questi film mettono in luce quanto l’atto di prendersi cura dell’altro sia vitale per la sopravvivenza di esseri umani e non umani, così come dei luoghi.[14]

 Napoli deserta. Screenshot da terzi, Lo spazio bianco (2009), di Francesca Comencini.

Anche storie di formazione al femminile presentano la stessa strategia narrativa dell’erranza urbana. Tre ragazzine camminano nelle città impoverite di Reggio Calabria, Napoli e Librino (vicino Catania) in Corpo celeste (2011) di Alice Rohrwacher, Domenica (2000) di Wilma Labate e I baci mai dati (2010) di Roberta Torre.

Nel passaggio tra infanzia e adolescenza le giovani protagoniste di questi film affrontano viaggi di introspezione mentre osservano spazi urbani in disfacimento. Simultaneamente, i loro sguardi mettono in luce il collasso di tutte quelle strutture come la famiglia, lo stato e la Chiesa che dovrebbero guidare una comunità.

Di questi film, Corpo celeste, la cui protagonista contempla un paesaggio quasi interamente cementificato e cammina per strade cosparse di rifiuti, è il film più esplicitamente ambientalista. Del resto, tutta la modesta ma potente filmografia di Alice Rohrwacher è costruita sullo studio della relazione tra gli esseri umani e non umani e il loro ambiente, urbano e rurale.

Diversi per generi e approcci narrativi, questi film rappresentano la città come un luogo tossico, tuttavia è significativo che il vagare di queste ragazze alla fine, approdi al mare. Non si tratta di una vera e propria fine, piuttosto queste conclusioni rappresentano delle aperture che segnalano possibilità per un futuro, incerto, ma pur sempre un futuro.

In questo senso è rappresentativo il finale di Corpo celeste. Il paesaggio marino che finalmente appare nella città è stato ridisegnato da ragazzini che hanno raccolto i rifiuti della città e li hanno disposti sulla spiaggia, quasi fossero delle opere d’arte. Marta, l’adolescente protagonista, guarda questo paesaggio con stupore, riconoscendo quella che Pasolini chiamò: «straziante, meravigliosa bellezza del creato».[15]

Quattro passi nell’Antropocene. Screenshot da terzi, Corpo Celeste (2011), di Alice Rohrwacher.

Quando si parla di erranza e difesa della bellezza non si può non parlare del magnifico N-Capace (2015) di Eleonora Danco. Sfumando i confini tra fiction, documentario e performance, N-Capace esplora i tormenti di un’artista inquieta, perseguitata dai ricordi d’infanzia. Il pellegrinaggio, per Danco, si compie in continuità spazio-temporale tra Roma e Terracina, la città e il mare. A compierlo è Anima in Pena che corre, si butta per terra, barcolla, e si aggira con fare inquisitorio.

Puntellato da quelle che Danco chiama «installazioni della memoria» e altre forme di esibizione nello spazio pubblico, questo film porta la performance d’autorialità a una esilarante esasperazione. Ma c’è di più, molto di più. Le sue performance sono gesti simbolici di riappropriazione di luoghi irrimediabilmente trasformati, proteste contro il deterioramento urbano o inviti a proteggere antiche bellezze. Danco-Anima in Pena, che scava e nella terra e nel suo animo per comprendere quella che lei chiama «l’indecifrabilità della vita»,[16] costruisce ciò che ho definito una ‘psicogeologia’ della città. Io stessa mi sono ritrovata a scavare dentro i paesaggi emotivi in cui la protagonista si colloca, dissotterrando i significati simbolici e materiali, ecologie urbane dentro e fuori dallo schermo.

 Anima in Pena. Screenshot da terzi, N-Capace (2014), di Eleonora Danco.

Le donne, almeno per come sono rappresentate in molti di questi film, sono spesso solitarie ed estraniate dal mondo. Hanno sofferto delle perdite, lottano per conciliare un lavoro retribuito e la maternità, o anche semplicemente per accettarne la responsabilità, oppure danno voce a comunità che resistono, compiono gesti di ospitalità, trovano la forza per combattere abusi, imparano a prendersi cura dell’altro e difendono spiritualmente la bellezza. Camminano per contemplare morti ma anche per ridare vita ai luoghi.

Le viste panoramiche che così spesso appaiono in questi film mostrano paesaggi pesantemente edificati, strade piene di spazzatura o assurdamente sanificate per la macchina da presa. Le piazze che normalmente dovrebbero apparire affollate sono vuote e piuttosto angoscianti. Questi vuoti sono creati dall’assenza di una comunità che ha perso i suoi membri non solo a causa di una disgregazione sociale ma anche a causa delle malattie prodotte dall’inquinamento, o dalla pandemia che abbiamo appena attraversato. In questi vuoti sentiamo la mancanza di madri amorevoli, l’isolamento degli individui e la loro invisibilità, le molte incertezze su passato e futuro.

Dobbiamo guardare questi paesaggi per essere coscienti dell’avanzamento dell’Antropocene e per accettare l’invito a re-immaginare queste piazze, strade e vicoli vuoti non solo come scenari «pre-trauma», come direbbe Ann E. Kaplan, o paesaggi luttuosi, ma anche come spazi per un’azione possibile, dove le comunità potrebbero nascere e crescere floridamente.[17]

Questi film, varie incarnazioni di un ecocinema italiano, non possono da soli riparare ecosistemi, ma possono sicuramente influenzare il modo in cui gli individui e le società vivono localmente e globalmente. Come ho già affermato, parliamo di una produzione cinematografica di minoranza che, sebbene profondamente ancorata alla tradizione cinematografica nazionale, trascende il suo carattere nazionale nell’occuparsi delle condizioni delle donne nella società contemporanea e nel trattare questioni ambientali in senso lato.

Dunque, far luce su questo ecocinema (femminile) può contribuire a far sì che esso abbia un impatto globale. I film, come scrive Sophie Mayer, «enter our imagination, our intimate and political fantasies, they shape our interactions, our conversations, possibly our revolutions… They are the storks that deliver us, and we can be the storks that deliver them».[18]

Consegnare ai lettori-spettatori film periferici che rischiano di rimanere invisibili è uno dei compiti vitali degli studiosi di ecocritica, un’impresa collettiva alla quale la mia ricerca dà solo un modesto contributo. Mentre il cinema italiano continua ad affrontare la crisi ecologica e il corpus di ecofilm cresce sperando di raggiungere un pubblico più ampio, il mio lavoro il nostro lavoro continua. Si tratta di un progetto femminista che accoglie quello che la geografa Doreen Massey definisce «a gender-disturbing message: ‘Keep moving!’».[19]

 


1 Questo saggio consiste in un estratto con significativi adattamenti dal mio libro Wandering Women. Per un’analisi approfondita dei film citati si veda: L. Di Bianco, Wandering Women. Urban Ecologies of Italian Feminist Filmmaking, Bloomington, Indiana University Press, 2023. L’intervista a Cecilia Mangini è stata condotta dall’autrice, a Roma, il 22 dicembre 2018.

2 Un rapporto del 2015 della European Women's Audiovisual Network (EWA Network) indica che tra il 2006 e il 2013 in Austria, Croazia, Francia, Germania, Svezia e Regno Unito il 21% dei film è diretto da donne. Cfr. I. De Pascalis, ‘La ricerca DEA-Donne e Audiovisivo’ in L. Buffoni (a cura di), We want cinema. Sguardi di donne nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2018, p. 262.

3 Ibidem.

4 Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka: Toward a Minor Literature [1985], trad. in. di D. Poland, London and Minneapolis, University of Minnesota Press, 1986.

5 A. Butler, Women’s Cinema: The Contested Screen, New York, Wallflower, 2002, p. 22.

6 In questo contesto uso il termine «nomadico» come lo intende Rosi Braidotti nel suo Nomadic Subjects, riferendosi al processo di diventare soggetto affermando «the will to know, the desire to say, the desire to speak». Nella situazione cinematografica si tratta del desiderio di essere soggetto dello sguardo, e dare forma a un modo nuovo di vedere. Cfr. R. Braidotti, Nomadic Subjects: Embodiment and Sexual Dierence in Contemporary Feminist Theory, New York, Columbia University Press, 1994, p. 5.

7 M. de Certeau, ‘Spatial Practices’, in S. F. Rendal (tr. ing. di), The Practice of Everyday Life. Berkeley, Los Angeles, London, University of California Press, 1984, pp. 91-112.

8 Forte di una natura interdisciplinare, questa strategia interpretativa espande i confini della teoria e dell’analisi filmica alla storia dell’ambiente, la filosofia postumana, gli animal studies, e persino alla geologia, mettendo l’opera filmica in stretta relazione con il mondo da cui le storie emergono.

9 S. Iovino, ‘Ecocriticism and a Non-Anthropocentric Humanism: Reflections on Local Natures and Global Responsibilities, in L. Volkmann, N. Grimm, I. Detmers, K. Thomson (a cura di) Local Natures, Global Responsibilities: Ecocritical Perspectives on the New English Literatures, Amsterdam, Rodopi, 2010, p. 36.

10 Il termine ecocinema comprende una grande varietà di film di vari generi (dal documentario ambientalista al melodramma, alla commedia) che in maniera più o meno esplicita manifestano preoccupazioni ambientali. Cfr. L. Di Bianco, ʻEcocinema Ars et Praxis: Alice Rohrwacher’s Lazzaro Feliceʼ, Italian Ecomedia Studies. Italianist Film, v. 40, n. 2, July 2020, pp. 151-164.

11 R. Grusin, Anthropocene Feminism, Minneapolis e London, University of Minnesota Press, 2017, p. VII.

12 S. Iovino, ʻSedimenting Stories: Italo Calvino and the Extraordinary Strata of the Anthropoceneʼ, in S. Iovino, E. Cesaretti, E. Past (a cura di), Italy and the Environmental Humanities: Landscapes, Natures, Ecologies, University of Virginia Press, 2018, pp. 68-69.

13 I diari di lavorazione della regista – pieni di collage, disegni, foto, mappe e fotogrammi dai film che l’hanno ispirata, mescolati alle sue stesse note di regia – dimostrano che il suo sguardo si nutre di cinema, poesia, fotografia mentre recupera la memoria del lavoro di altre donne che (nonostante posizioni sociali privilegiate) hanno vissuto ai margini della società del loro tempo, come la poetessa Antonia Pozzi.

14 Cfr. A. Cavarero, Inclinations, Inclinations: Critique of Rectitude, Stanford, Stanford University Press, 2016.

15 «Straziante meravigliosa bellezza del creato» è l’ultima battuta pronunciata da Iago (interpretato da Totò), nel finale di Che cosa sono le nuvole diretto da Pier Paolo Pasolini, episodio di Capriccio all’italiana (1968).

16 Dall’intervista a E. Danco condotta dall’autrice, a New York, il 10 giugno 2015.

17 Cfr. A.E. Kaplan, Climate Trauma: Foreseeing the Future in Dystopian Film and Fiction, New Brunswick, Rutgers University Press, 2016.

18 S. Mayer, Political Animals, London e New York, I.B. Tauris, 2015, p. 389.

19 D. Massey, Space, Place, and Gender, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1994, p. 11.