Fabrizio Montecchi, Donna di Porto Pim. Ballata per attore e ombre

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Donna di Porto Pim è il racconto che dà il titolo a un testo di Tabucchi dalla struttura singolare: un‘arabesco’, dove il cuore dell'opera (il testo omonimo), decentrato rispetto alla composizione d'insieme, pulsa in virtù dell'afflusso di molteplici frammenti che ne illuminano la sostanza.

Una luce ‘d'ombra’, nel caso della trasposizione scenica di Fabrizio Montecchi, al suo debutto il 4 ottobre al Teatro Gioia di Piacenza, il nuovo spazio gestito da Teatro Gioco Vita. L'ombra – territorio privilegiato della pluridecennale attività della compagnia – si rivela il mezzo più congruo a tradurre la dimensione pulsionale e notturna di questo canto d'amore, di balene e di morte.

Il regista fa tesoro della composizione per frammenti, orchestrandoli entro uno spettacolo estremamente coeso, alimentato da motivi diversi, intimamente connessi al racconto dell'io narrante, Tiziano Ferrari: unica presenza attorica che dà voce (e corpo) all'autore, ai personaggi, ed è allo stesso tempo manipolatore.

La ‘storia’ portante si costruisce per immagini della memoria, dove i motivi si sfiorano e a volte si sovrappongono per associazioni mentali, suggestioni di atmosfere. Le pratiche dell'ombra consentono di tradurre materialmente tali sovrapposizioni nella dimensione visiva. Una sorta di arcipelago, come le Azzorre in cui è ambientato il testo, dove la voce, il suono, i motivi musicali, le immagini, gli oggetti, realizzano la loro qualità di presenze sceniche e di luoghi della memoria affettiva, incontrando la propria corrispondenza in una presenza complice che li trasfigura; in nessun caso una traduzione letterale o prevedibile, ma la rivelazione di un grado di esistenza o di significazione più profondo.

L'impianto mostra oggetti scenici ‘necessari’ (tutti utilizzati nei procedimenti che generano le ombre), sapientemente costruiti, prevalentemente in legno, da Nicoletta Garioni; un legno consumato dall'acqua e dal tempo che ne fa dei relitti incagliati nello spazio della memoria e vivificati dalla materia organica: un arpione appeso; un tavolo che funzionerà da macchina scenica e motore di visioni luminose, cosparso di sabbia; un bicchiere rovesciato, alcune sedie in legno impagliate, la viola, un catino. Oggetti disposti in scena che via via entrano nell' ‘altra scena’ più intima delle visioni che li trasfigurano, come se l'ombra ne spostasse la collocazione temporale, li privasse della polvere restituendo loro un'esistenza lontana. Sul fondo due artigianali telai ospitano gli schermi. Posato a terra, un altro telaio incornicia una carta geografica: le Azzorre vi sono appena riconoscibili, lontane nel tempo, sbiadite dal mare e dal sole.

La scena iniziale è a luci piene, l'attore vi entra naturalmente, come di passaggio in questo ambiente disposto ad abitare – e ad animare – le sue differenti identità: lo scrittore, il marinaio, i personaggi evocati. Percorre lo spazio portando l'attenzione dello spettatore su oggetti ‘rivelatori’, instaurando con essi relazioni ambivalenti, come una premessa ai procedimenti di ‘trasfigurazione’ che improntano lo spettacolo: guarda la valigia, vi passa una mano percependone con il tatto la grana della polvere (condensando in un gesto il motivo del viaggio, e del viaggio nel tempo); tocca l'arpione, aggira il tavolo, prende una carta da gioco che fa cadere a terra; posa con delicatezza la viola sulla sedia, in una posizione antropomorfa che anticipa la sovrapposizione dello strumento con il corpo femminile. Ha fissato visivamente per lo spettatore i ‘cardini’ dell'azione, in senso figurato e letterale, come i cardini di porte e finestre che si aprono su di un ‘al di là’. Mostrando la carta delle Azzorre, che appenderà in alto al centro della scena facendone un terzo schermo di proiezione, allude a balene e a naufragi come a metafore, additando così al pubblico la valenza dei segni, verbali e visivi.

Infila un lungo cappotto scuro ed è Lucas, il baleniere diventato musicista per passione; d'ora in poi parlerà allo scrittore che ha raccolto la sua storia (e che tornerà a impersonare solo nella chiusa dello spettacolo, simmetricamente a quanto avviene in apertura).

Seduto di schiena (l'ombra fitta della figura occupa uno degli schermi), inizia a dare voce e forme al racconto. L'associazione che lo porta dal presente alla memoria scatta sul motivo di un lungo collo di donna, «dalla forza che ha un viso di affiorare in un altro» (come le ombre affiorano da altre forme). Parzialmente sovrapposta alla sua, si delinea in ombra la figura di lei, immobile e resa viva dalle sfumature dei grigi, fragile rispetto all'ombra possente di lui.

Al racconto della sua vita da marinaio cacciatore di balene (la vocazione familiare) si intreccia quello dell'intensa e tragica storia d'amore. Questo doppio binario presente a livello drammaturgico viene reso percepibile dall'azione dell'attore/manipolatore, che muta incessantemente la propria relazione con gli oggetti e con lo spazio, rendendo ‘attivo’ rispetto alla percezione dello spettatore ora il suo statuto di interprete (di personaggio), ora di manipolatore, ora di presenza in forma d'ombra, costantemente intessuta del materiale scenico, delle altre ombre create sugli schermi, della voce e delle parole. Gli effetti luministici sono concepiti in modo calibratissimo in corrispondenza di tale partitura, tallonando gli scarti spazio-temporali.

Lo statuto dell'oggetto si moltiplica, le identità si sfaccettano e si sovrappongono, rivelano aspetti nascosti: per esempio una magnifica corteccia diventa nell'ombra murena, animata dal movimento del braccio dell'attore; il paesaggio rassicurante della casa familiare diviene nell'ombra la casa misteriosa dell'amata, sprofondata nell'oscurità del mare e poi incastonata, piccolissima, lontana nella memoria e oggetto del desiderio, al centro di un occhio di balena ingrandito.

Montecchi mantiene quasi integralmente il testo. Oltre ad inserire, nel momento della cocente delusione amorosa, una poesia di Pessoa, interpola il racconto con un brano appartenente ad un altro ‘frammento’ del volume, una cruda descrizione della caccia alle balene che ha il sapore di una arcaica necessità. L'attore afferra con forza l'arpione e, affidandosi alla parola e al gesto, illustra con vigore le modalità della caccia e dell'uccisione di un cetaceo. Il prosieguo di questo inserto quasi ‘documentario’ viene collocato nel momento clou dell'uccisione della donna, facendoci percepire l'esito della storia in tutta la sua forza senza descriverlo (ammirevole la soluzione di non mostrare una goccia di sangue, se non in un momento immediatamente successivo, quando l'attore si terge le mani nell'acqua del catino che arrossa). Una sorta di mise en abyme che palesa i due motivi chiave della vita di Lucas: la caccia alle balene e il canto, segno della passione per Yeborath. I due oggetti fatali, l'arpione e la viola, sono gli strumenti del suo destino, l'uno sostituto dell'altro. Così il finale, dove le corde si annodano inesorabilmente, sbalza in tutta la sua ineluttabilità.

Donna di Porto Pim è uno spettacolo anche ‘programmaticamente’ importante, che esce dal territorio del teatro destinato ad un pubblico infantile e dimostra la necessità di riconoscere al Teatro d'Ombre il valore di un linguaggio originale e prezioso della scena contemporanea.

Dal racconto Donna di porto Pim di Antonio Tabucchi

progetto: Tiziano Ferrari e Fabrizio Montecchi

con Tiziano Ferrari

adattamento, regia e scene: Fabrizio Montecchi

oggetti e sagome: Nicoletta Garioni

luci: Davide Rigodanza

musiche: Alessandro Nidi

assistente alla regia: Lucia Menegazzo

produzione Teatro Gioco Vita –Teatro Stabile di Innovazione,

Festival “L’altra scena”, Théâtre de Bourg en Bresse