Donna di Porto Pim è il racconto che dà il titolo a un testo di Tabucchi dalla struttura singolare: un‘arabesco’, dove il cuore dell'opera (il testo omonimo), decentrato rispetto alla composizione d'insieme, pulsa in virtù dell'afflusso di molteplici frammenti che ne illuminano la sostanza.

Una luce ‘d'ombra’, nel caso della trasposizione scenica di Fabrizio Montecchi, al suo debutto il 4 ottobre al Teatro Gioia di Piacenza, il nuovo spazio gestito da Teatro Gioco Vita. L'ombra – territorio privilegiato della pluridecennale attività della compagnia – si rivela il mezzo più congruo a tradurre la dimensione pulsionale e notturna di questo canto d'amore, di balene e di morte.

Il regista fa tesoro della composizione per frammenti, orchestrandoli entro uno spettacolo estremamente coeso, alimentato da motivi diversi, intimamente connessi al racconto dell'io narrante, Tiziano Ferrari: unica presenza attorica che dà voce (e corpo) all'autore, ai personaggi, ed è allo stesso tempo manipolatore.

La ‘storia’ portante si costruisce per immagini della memoria, dove i motivi si sfiorano e a volte si sovrappongono per associazioni mentali, suggestioni di atmosfere. Le pratiche dell'ombra consentono di tradurre materialmente tali sovrapposizioni nella dimensione visiva. Una sorta di arcipelago, come le Azzorre in cui è ambientato il testo, dove la voce, il suono, i motivi musicali, le immagini, gli oggetti, realizzano la loro qualità di presenze sceniche e di luoghi della memoria affettiva, incontrando la propria corrispondenza in una presenza complice che li trasfigura; in nessun caso una traduzione letterale o prevedibile, ma la rivelazione di un grado di esistenza o di significazione più profondo.

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La piana architettura che tiene insieme i Racconti con figure di Tabucchi, raccolta di scritti legati a riproduzioni di opere figurative, è organizzata secondo uno spartito musicale, forse nella convinzione borgesiana che la musica altro non sia «che una misteriosa forma del tempo» (p. 78). E di tempo – rincorso, fermato o perduto – è intrisa l’intera opera. Nei tre movimenti in cui è suddivisa la raccolta – Adagi, Andanti con brio, Ariette – l’immagine e la parola vestono ancora una volta, verrebbe da dire con Tabucchi, il dolore del tempo. Riuscendo però a oltrepassarlo, per sconfinare in autentiche dichiarazioni di poetica, che si avvalgono della pittura e della fotografia come gli artisti del frottage si servono delle superfici scabre per far emergere le figure desiderate. E tali figure sembrano indicazioni di possibili percorsi dentro uno spartito-atlante che svela le personali geografie dell’autore, costringendo a far mutare il giudizio del lettore, a seconda che egli legga l’opera seguendo un’a o l’altra delle ipotetiche mappe possibili. La tentazione è di andare oltre la suddivisione in movimenti musicali proposta dall’autore, in cerca di altre indicazioni che permettano di ‘visitare’ i racconti raggruppandoli secondo altri principi, seppure di carattere estrinseco: ad esempio l’anno di composizione, che rivela le diverse scansioni del pensiero dell’autore; oppure l’atto stesso della pubblicazione, discrimine tra racconti editi e inediti; o ancora la collocazione originaria del singolo scritto, che permette al lettore di distinguere i diversi toni di un racconto, di una prefazione ad un catalogo o della recensione su un quotidiano; persino il grado di amicizia che lega l’autore agli artisti può fungere da indicazione per il lettore-critico, costretto a destreggiarsi tra enunciati sentimentali e riflessioni.

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