Antonio Tabucchi, Racconti con figure

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Antonio Tabucchi, copertina Racconti con figureLa piana architettura che tiene insieme i Racconti con figure di Tabucchi, raccolta di scritti legati a riproduzioni di opere figurative, è organizzata secondo uno spartito musicale, forse nella convinzione borgesiana che la musica altro non sia «che una misteriosa forma del tempo» (p. 78). E di tempo – rincorso, fermato o perduto – è intrisa l’intera opera. Nei tre movimenti in cui è suddivisa la raccolta – Adagi, Andanti con brio, Ariette – l’immagine e la parola vestono ancora una volta, verrebbe da dire con Tabucchi, il dolore del tempo. Riuscendo però a oltrepassarlo, per sconfinare in autentiche dichiarazioni di poetica, che si avvalgono della pittura e della fotografia come gli artisti del frottage si servono delle superfici scabre per far emergere le figure desiderate. E tali figure sembrano indicazioni di possibili percorsi dentro uno spartito-atlante che svela le personali geografie dell’autore, costringendo a far mutare il giudizio del lettore, a seconda che egli legga l’opera seguendo un’a o l’altra delle ipotetiche mappe possibili. La tentazione è di andare oltre la suddivisione in movimenti musicali proposta dall’autore, in cerca di altre indicazioni che permettano di ‘visitare’ i racconti raggruppandoli secondo altri principi, seppure di carattere estrinseco: ad esempio l’anno di composizione, che rivela le diverse scansioni del pensiero dell’autore; oppure l’atto stesso della pubblicazione, discrimine tra racconti editi e inediti; o ancora la collocazione originaria del singolo scritto, che permette al lettore di distinguere i diversi toni di un racconto, di una prefazione ad un catalogo o della recensione su un quotidiano; persino il grado di amicizia che lega l’autore agli artisti può fungere da indicazione per il lettore-critico, costretto a destreggiarsi tra enunciati sentimentali e riflessioni.

Ma c’è una via, più saldamente ancorata alla terra a dispetto del suo metafisico apparire, che, se non maestra, di certo rivela e rafforza un aspetto disseminato nell’intera opera di Tabucchi, e qui vivido e dichiarato. È la via che separa gli scritti di cui l’immagine è fluttuante pretesto da quelli dove il compenetrarsi della scrittura e della visione appaiono assai simili alle sfere di dos Santos, «con la circonferenza dappertutto e il centro in nessun luogo» (p. 339). Per questa via, è possibile imbattersi nel cancello spalancato sul niente della foto di Münir Göle che diventa, dentro il racconto, necessario presupposto per introdurre la teoria spinoziana secondo cui le emozioni possono essere esplicate solo quando mutano in sentimenti. È sufficiente ritrovarsi dinanzi ad un’opera di archeologia interiore di Jean-Paul Philippe, perché la parola di Tabucchi si contragga fino alla forma della lirica e tracci linee di un mondo che esiste tutto nel soggetto, lasciando alla realtà il compiaciuto e pessoano compito di non essere mai ciò che sembra. Ci sono luoghi di questo paesaggio con figure in cui un Ritratto di Pereira di Vitali viene spedito, per insita necessità di una postrema convocazione, dallo stesso Pereira allo scrittore; altri luoghi dove i ritratti di Pericoli diventano parole scritte che raccontano un film fatto di istanti fotografici, in un gioco di incastro di forme utile allo scrittore per raccontare i suoi Kafka, Joyce, Pessoa.

Sono questi i momenti felici della raccolta: quando l’opera figurativa raggiunge lo sguardo del lettore senza che le parole dello scrittore vi facciano intorno giravolte compiaciute, ma stiano piuttosto dentro l’opera stessa, affinché parola e immagine concorrano alla medesima rappresentazione. È quando lo scrittore, novello Pierre Ménard, riscrive Drummond de Andrade per giungere al centro di una fotografia di Castello-Lopes. È quando si serve di una lettura ecfrastica di Vermeer compiuta da Proust per rendere un colore «metafora di ciò che avremmo potuto fare e non facemmo» (p. 298). Ma è soprattutto quando egli sente vera la visione dell’artista e ne potenzia la forza evocatrice, convinto che la visualità come la scrittura sia in grado «di farci da specchio per rimandarci la nostra immagine» (p. 335). Ciò è possibile, secondo quella che sembra essere la tesi portante dell’opera, poiché – come viene teorizzato osservando Pericoli che disegna le parole di Stevenson – esiste una transitabilità dei linguaggi dell’arte che Tabucchi mutua da Jankélévitch e situa al di sopra di ogni concezione postmoderna di esotica commistione, dandole piuttosto lo statuto borgesiano di sincronia, di sintesi del tempo in un solo punto e di centro assiale dello spazio dell’arte. Tale transitabilità trova una sua chiara esplicitazione nella lettera che lo scrittore scrive all’Académie des Sciences ‘per conto’ di Hippolyte Bayard più di un secolo e mezzo dopo: l’autoritratto del fotografo diventa pretesto perché la scrittura racconti l’arte della fotografia attraverso la metafora della musica, concordi – scrittura, fotografia, musica – nel cercare l’aleph reso eterno da uno ‘scatto’ che coglie «l’interstizio invisibile a occhio nudo, il silenzio già svuotato del prima e già colmo del dopo» (p. 114).

Per Tabucchi, laddove pittura, scrittura e fotografia non siano asservite al racconto che l’artista fa di se stesso, bensì narrino la vita come rappresentazione del mondo, chi guarda – spettatore o lettore – sente di essere parte di ciò che viene guardato, perché avverte l’intima necessità dell’artista di rappresentare l’essenza del tempo, sostituendo alle illusioni ottiche quelle temporali, perché, come ben sa il pittore del racconto Lontano, «è tutta una questione di prospettiva» (p. 53), la quale rende possibile persino ritrarre l’ora in cui chi è andato via è come se ci fosse, e un cancello-siepe che occlude lo sguardo e serra il cammino può essere dipinto o cantato come se aprisse all’infinito, non impedendo certo alla vita di fuggire, lasciandone però impressa l’immagine.