Humanhood, Zero

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Humanhood, Zero

 

Non-essere come condizione imprescindibile perché vi sia essere. Nucleo di concentrazione di un’energia incontenibile che precede e permette la generazione. Cominciamento dell’azione come svolgimento senza alcuna reversibilità possibile. Enorme occhio dello sguardo che contemporaneamente esplora e viene modificato. Ancora, dispositivo di mutamenti capaci di ridisegnare di volta in volta la scena in modo irripetibile. È tutto questo insieme, lo ‘Zero’ che dà il titolo al duetto di Júlia Robert e Rudi Cole, fondatori nel 2016 della compagnia britannica Humanhood, che fin da subito ha sviluppato un originalissimo percorso che coniuga la ricerca sulla danza a quella sulla fisica, l’astrofisica e sul misticismo orientale e che in pochi anni ha visto aumentare notevolmente l’interesse del pubblico e della critica nei suoi confronti, tanto nel Regno Unito quanto all’estero. Tutto questo, dicevamo, materializzato al centro della scena in una circonferenza perfetta di polvere bianca.

Sigillo dell’opera – nero su bianco sul programma di sala e in voce fuori campo sul finale della performance – è la citazione dal fisico teorico Nassim Haramein: «Le informazioni nell’universo possono essere comunicanti in modo istantaneo. Quindi quando muovi il tuo mignolo, tutto nell’universo sa che hai mosso quel dito, e aggiusta per esso». Fisica e danza fuse insieme nell’idea dell’informazione come gesto, dunque, che nel suo anche infinitesimale compiersi modifica istantaneamente il circostante. Un incessante tradursi e trasferirsi di energia che si riversa da un corpo all’altro, microscopico o mastodontico che sia, da un movimento all’altro, sia esso infinitesimale o planetario, tutto senza soluzione di continuità, in un collegamento universale che comprende ogni cosa, dalla nascita del mondo a ciascun istante presente.

E la prima informazione, il primissimo gesto che genera tutti i successivi, la tappa zero, appunto, dei sessanta minuti di tracciato rappresentati da Zero, non appartiene ai danzatori. Come se il momento dell’avvio della danza fosse già un ‘uno’, l’istante zero che genera quell’uno è affidata al pubblico: gli spettatori, entrando in sala uno dopo l’altro, raggiungono i propri posti a sedere solo dopo aver attraversato la scena e circumnavigato quella circonferenza bianca che racchiude al proprio interno Robert e Cole. Un ciclo, un turbine umano composto ma costante che fa da iniziale ‘soffio vitale’, da innesco alla creazione scenica: è a partire da questo che il movimento dei due inizia a sorgere, in un flusso che li condurrà ininterrottamente fino a fine performance. Così come lo ‘zero’ permette la messa in essere di ogni sequenza successiva permanendo nella propria condizione di non-essere, lo spettatore, che ‘non è’ l’opera, fa sì che, in essa, ogni cosa possa accadere, ponendone le condizioni di possibilità e d’esistenza e pur tuttavia rimanendo inerte e immobile, sebbene enormemente sollecitato dalla creazione stessa.

Così, mentre i corpi dei due danzatori vengono quasi destituiti dal ruolo di centralità che la danza esigerebbe per essi e riorganizzati quali elementi tra gli altri della macchina teatrale, protagonisti di Zero sembrano diventare la trasfigurazione scenica dei sensi attivati nello spettatore – la vista e l’udito – e la loro perlustrazione materiale del flusso ininterrotto di movimento e di divenire che costituisce il reale, la vita, e che qui si fa esemplificazione attraverso il processo performativo.

 

Humanhood, Zero

 

Esemplificazione dichiarata fin da subito, attraverso l’immagine della nascita del gesto coreografico di Zero come venuta al mondo di un corpo, forse ‘del’ corpo per eccellenza, quello del danzatore, illuminato da fioche luci di taglio che immergono gli arti in un’indefinitezza che li disarticola e li destruttura quasi come in un brodo primordiale. Ma un attimo dopo, a quella sorta di alba del mondo e del movimento che i tagli disegnavano subentra la luce di un faro a piombo che proietta con nettezza chirurgica un’enorme circonferenza di luce, uno ‘zero luminoso’ che sembra configurarsi, al contempo, come un grande occhio, i cui strati e disegni dell’iride corrispondono a quelli della polvere bianca in cerchio, cui la luce è perfettamente sovrapposta. Lo sguardo dello spettatore sulla performance e dell’uomo sul mondo prende forma, in una dimensione ancora intatta, pura, univoca.

 

Humanhood, Zero

 

Mentre Rudi Cole rimane immobile nel buio profondo del centro, del buco nero della pupilla di questo grande occhio, Júlia Robert si muove danzando lungo la circonferenza di polvere e luce, e ogni suo minimo movimento ridefinisce in modo irreversibile il disegno stesso di quella gigantesca iride, come materializzazione concreta dell’incessante modificarsi dello sguardo nell’attraversamento del reale, una sorta di osservazione al microscopio di come, a partire da un ordine iniziale, i gesti-informazioni che muovono e smuovono la realtà stratificano e rendono sempre più complessa l’osservazione. Al corpo in movimento di Robert si aggiunge poco dopo quello di Cole, in uno svolgimento della performance che si configura pian piano e in modo sempre più frenetico, dal momento che non vi sarebbe opera senza i sensi di chi la indaga, così come non esisterebbe un’idea del reale senza quelli di chi lo percepisce, anche e soprattutto come interrogazione sul modo in cui lo sguardo e l’ascolto perlustrano quelle tracce e ne restano irrimediabilmente e incessantemente trasformati.

Una modificazione e una stratificazione che esigono ben presto il passaggio a un rapido combinarsi di sguardi molteplici che integrino e si sostituiscano all’occhio-sguardo singolo, che pare non più sufficiente a cogliere la complessità del disegno che i corpi dei danzatori continuano a tracciare nella verticalità dell’aria e nell’orizzontalità della superficie del palcoscenico. Fari in rapidissima sequenza illuminano adesso i danzatori in punti di incidenza sempre differenti, anche per pochi istanti, componendo una scena che all’univocità dello sguardo sull’ordine dato dalla circonferenza iniziale, sostituisce l’esigenza di una composizione di sguardi differenti che si fondino insieme per sondare una realtà sempre più articolata ed eterogenea: in un momento di svolta dell’opera, in una scena momentaneamente svuotata dei due corpi in movimento, l’occhio unico e centrale dell’inizio tenterà di osservare ancora una volta il mondo dalla propria prospettiva, di ristabilire un ordine, ma l’evidenza della sua definitiva dissipazione esponenziale, dell’impossibilità di ritrovare quel cerchio di polvere che lo componeva e delimitava, porterà al suo definitivo disattivarsi in funzione di luci e sguardi sempre più ampi, generali, diversificati, che possano abbracciare un disegno che ha ormai sfaldato quello zero originario in un tappeto di polvere disseminata, calpestata, segnata in modo sempre più incisivo e dispersa in modo sempre più ampio.

Humanhood, Zero

E mentre l’occhio e lo sguardo si fanno luce e fari della scena, grazie al lavoro del light designer Horne Horneman, l’orecchio e l’ascolto divengono il magma immersivo creato da Iain Armstrong, un beat ipnotico in multitraccia surround che contribuisce a fondere in un unico nucleo di energia indistinguibile la dinamicità dei corpi dei danzatori e l’immobilità di quelli degli spettatori, l’esperienza dei primi e l’interrogazione dei secondi, mentre la danza cessa di farsi espressione per incarnare la conversione dell’iniziale energia potenziale in gesto, movimento, azione funzionale alle modificazioni delle tracce lasciate sulla scena.

 

Humanhood, Zero

 

Il termine dell’opera vede Robert e Cole riprendere la stessa posizione in cui gli spettatori li hanno trovati al loro ingresso in sala, e la medesima sequenza di movimenti del principio. Ma tutto, intorno a loro, è cambiato irrimediabilmente: quello che prima era un ordinato zero di polvere bianca è adesso un caotico campo solcato e disgregato, tutto ciò che il primo conteneva in potenza s’è già sprigionato nelle sue più varie possibilità e le forze che hanno attraversato e animato la performance hanno modificato l’ambiente, la scena, chi l’ha attraversata e chi ne ha fatto esperienza. La danza è ancora tutta lì, congelata in segni, indizi, impronte, tracce apparentemente irrecuperabili, ma capaci di porre con evidenza materiale le questioni centrali dell’opera d’arte, del suo rapporto con il tempo e con lo spazio e dell’enigmatica e oscura eredità che essa rappresenta.

 

 

Visto il 28 Ottobre 2019, Scenario Pubblico (Catania), Rassegna Maturità | Scenariodanza 2019/20

 

direzione artistica, coreografia e performance Rudi Cole & Júlia Robert; musicisti Gyda Valtysdottir, Xhosa Cole, Azizi Cole e Shahzad Ismaily; drammaturgia Lou Cope; luci Horne Horneman; suono e composizioni Iain Armstrong; costumi Mark Howard; direzione Shanelle Clemenson; produzione Humanhood; coproduzione mac Birmingham; supportato da Arts Council of England; con la collaborazione di ACE Dance and Music, DanceXchange, Birmingham University, William Chaplin.