Nel panorama tradizionalmente maschile del fumetto italiano, negli ultimi decenni hanno acquisito uno spazio significativo anche le donne, autrici e disegnatrici di tavole e strips di successo.
Apripista della nuova generazione di matite femminili è certamente Vanna Vinci: nata a Cagliari nel 1964, esordisce nel mondo dei comics nel 1990 su Fumo di China, per approdare poi alla storica rivista bolognese Nova Express, e in seguito pubblicare le sue grapich novels per le migliori case editrici italiane e straniere (24 Ore Cultura, Bao Publishing, Rizzoli Lizard, Kodansha, Kappa Edizioni, etc.). Forte di uno stile altamente espressivo, dal tratto semplice e facilmente memorizzabile, Vinci è riuscita a conciliare i modelli nipponici con gli amati maestri Pratt, Crepax, Shulz e Searle, e a raggiungere nel tempo risultati solidi. L’originalità della sua ʻnarrativa disegnataʼ non sta soltanto nella tecnica visiva, ma anche nei temi trattati (la crescita, la malattia, la decadenza spirituale e fisica), e nella caratterizzazione dei personaggi (contradditori e sempre ben distanti dai luoghi comuni).
Dopo aver vinto nel 1999 il premio Yellow Kid come miglior disegnatrice di fumetti, nel 2005 il premio Gran Guinigi di Lucca Comics & Games, nel 2015 il premio Boscato, e dopo aver pubblicato una raccolta omnia delle strisce del suo personaggio più celebre, l’irresistibile e sulfurea bambina filosofica, Vinci è ormai affermata a livello internazionale come una delle autrici più brillanti della graphic novel contemporanea.
In quest’intervista appassionata ci parla della sua pratica artistica, del suo eclettico universo poetico e dei suoi progetti futuri.
D: Per quanto riguarda l’iter di lavorazione dei tuoi fumetti, hai dichiarato di dare molta importanza alla ricerca di materiali letterari e di iniziare sempre dal testo scritto. Il fumetto in fondo è il contenuto di una narrazione in cui il segno ospita la parola, per cui ti chiedo: quanto conta l’aspetto testuale nei tuoi lavori, e in che modo questo interagisce con l’immagine visiva?
R: L’aspetto del testo scritto per quanto mi riguarda è fondamentale. C’è da dire che non è detto che lo sia per tutti i fumetti, perché il fumetto è fondamentalmente sequenza e può anche essere muto. Certo, nel mio caso, lo scritto è il punto di partenza. Direi che vengono prima i testi, come dialoghi, didascalie, etc., del disegno, e anche della struttura della sequenza. Io inizio scrivendo e immaginando, non disegnando, e le immagini, le vignette e le sequenze, in gran parte seguono questo fluire di parole. Diciamo che creo la sequenza narrativa e i disegni seguendo la traccia, il filo delle parole.
D: La tua poetica sembra alternare due livelli espressivi molto diversi: da una parte il fumetto umoristico con il personaggio irriverente e cinico della bambina filosofica, dall’altra quello realistico con le graphic novel, ultimamente soprattutto biografiche. Poiché tra loro si notano un collegamento e uno scambio (espressi, ad esempio, dallo humor nero della bambina filosofica, o dagli accenti ironici del personaggio della marchesa Casati), come convivono questi due aspetti nella tua produzione artistica, e in te stessa in quanto autrice?
R: Ho iniziato a fare fumetti con una storia di vampiri un po’ autobiografica, e per anni ho lavorato su romanzi a fumetti che adesso si chiamano graphic novel. Certo si trattava di storie di fiction, con una componente autobiografica forte, ma abbastanza nascosta, anche perché io non sono mai stata interessata alla biografia vera e propria. Parlo di Sophia, Aida etc. Poi, a un certo punto, è nata la bambina filosofica. E posso dire che ha un po’ fatto tutto da sola. Proveniva da letture di fumetto umoristico che io ho prediletto sin da bambina. Penso a Pino Zac, Charles Schulz, Quino, ma anche a La tremenda Lulù di Yves Saint-Laurent, Marcellina il mostro di Lystad e Chess, ma soprattutto e prima di tutto, le bambine assassine del St. Trinian's di Ronald Searle.
Quando ho cominciato a lavorare sulle strisce e le vignette della bambina ero molto insicura, e tuttora lo sono. Molto hanno contato i consigli e il supporto di Daniele Brolli e Giovanni Mattioli. Nonostante questo stato costante di dubbio, posso sinceramente dichiarare che la bambina filosofica è un po’ la mia autobiografia. Per il resto, questo tipo di humor, che è tipico mio, fa parte del mio carattere, della mia educazione e della mia famiglia, rientra di forza anche negli altri fumetti, che tutto sono fuorché umoristici. Per questo il lato sarcastico, sardonico e anche demenziale scaturisce qui e lì anche in tutte le altre storie. E risulta una sorta di filtro, di setaccio, una cifra che si infiltra e caratterizza un po’ tutto quello che scrivo. Quindi compare a tratti in Sophia e nelle altre storie di fiction, come del resto anche nelle biografie. In questo caso, parlando della Casati, che ormai è il mio nume tutelare, non si può certo dire che non avesse degli aspetti ironici e sopra le righe. Escludo avesse però un senso dell'autoironia... Ma ci ho messo del mio, e ho cercato di filtrare la vita e il carattere di questa donna strabiliante con un occhio disincantato e sarcastico. Stando sempre molto attenta che il personaggio non si svilisse in una macchietta o diventasse grottesco. Stesso discorso anche per la monolitica Tamara de Lempicka, che ho deciso dovesse parlare in prima persona. Se la Casati esiste perché raccontata da chi l’ha conosciuta, o solo vista, Tamara ha parlato e straparlato di se stessa. La soluzione, infatti, era lasciarla parlare, e riportare anche bugie, stravolgimenti, esagerazioni, lasciando che fosse lei stessa ad alterare e riportare sarcasticamente i vari avvenimenti della sua vita senza scrupoli.
Ecco, diciamo che sì, c’è un modo dissacrante, individualista e un po’ punk in tutti questi personaggi... Certo, se la bambina, Tamara e la marchesa a tratti si possono assomigliare, in quanto esseri fuori dalle regole, lontane dai luoghi comuni e allergiche a un certo buon senso, le ultime due si guarderebbero bene da invitare a cena un elemento poco educato e imbarazzante come la bambina.
D: Dalla bambina filosofica alla marchesa Casati, da Tamara de Lempicka a Frida Kahlo, le tue figure femminili spesso sono fuori dagli schemi e allergiche alle convenzioni sociali. Pensi che il sistema di rappresentazione altamente grafico del fumetto sia particolarmente congeniale alla ʻmessa in figuraʼ di questa insofferenza e ribellione o, detto in altri termini, che i comics possiedano un certo ʻpotere sovversivoʼ?
R: Il fumetto possiede secondo me un potere narrativo particolare, connesso con la sua caratteristica di linguaggio a sé. Il fumetto, con poche vignette e a volte pochi tratti, ha il potere di ricostruire storie, personaggi, universi, ambienti. Ma a differenza del cinema, la durata, il tempo e anche il luogo di fruizione sono personali e legati al lettore, come per i libri scritti. Come nel cinema, anche nel fumetto le immagini sono di una rilevanza formidabile perché costituiscono il tessuto stesso della narrazione. Quindi sì, credo che il fumetto sia un bel linguaggio per raccontare storie, persone, fatti e luoghi. Certo il fumetto, soprattutto quello non mainstream, cioè popolare, ha una libertà maggiore anche rispetto al cinema. È un linguaggio che prevede pochissime risorse, e anche poco spazio; le regole tutto sommato se le impone l’autore stesso, quindi credo ci possa essere una grande libertà. E forse per questo si possono raccontare anche storie e personaggi che al cinema non si vedrebbero mai, o che in letteratura potrebbero risultare incredibili e forse paradossali. Non so se il fumetto abbia un potere sovversivo, ma se così fosse... be’, mi sembrerebbe galattico!
D: Poiché al centro delle tue storie troviamo sempre ragazze o giovani donne, si potrebbe pensare che il tuo habitus mentale e culturale sia molto vicino alla sensibilità femminile; in realtà le tue protagoniste hanno caratteri e comportamenti che rinviano maggiormente agli stereotipi maschili (sono figure forti, indipendenti, etc.), e viceversa i tuoi personaggi maschili presentano spesso connotati femminili. Alla luce di questa loro tendenza alla fluidità di genere, è possibile leggere in chiave queer i tuoi personaggi?
R: Ho sempre raccontato di personaggi femminili in momenti di grande cambiamento, di dubbio e di sbandamento. E lo stesso vale per i personaggi maschili. Per citare Salinger, non amo i personaggi splendidi e dalle idee chiare. In poche parole, i miei protagonisti non sono eroi o antieroi come in molti fumetti, si tratta piuttosto di persone che non sanno bene chi sono e cosa devono fare, si tratta di gente non proprio in equilibrio... Da donna mi sento più vicina ai personaggi femminili, faccio meno fatica a raccontarli nel profondo, perché è il profondo che mi interessa raccontare, non l’avventura. «Queer»: non so bene nemmeno cosa vuol dire... Boh... Io, per cultura e educazione, sono abbastanza disinteressata ai generi, alle catalogazioni, alle definizioni; cioè credo che siamo tutti di genere umano e tutti cangianti e variabili, e anche insoliti e a volte incomprensibili anche a noi stessi. Così penso e voglio che siano i miei personaggi. Del resto citerò una frase galattica di Alice Cooper rilasciata in un’intervista per una rivista di diversi anni fa, in cui la parola queer e il genere non erano di moda come ora: «In ognuno c’è una parte femminile e una maschile. Il fatto è che gli americani non se ne sono ancora accorti». Io direi che non solo gli americani. Per il resto, non saprei cos’altro dire, se non che non sento nessuna spinta a definire i miei personaggi; mi piace raccontarli, pertanto lascio al lettore decidere cosa ci vede e cosa sente. Ci penseranno i critici e i giornalisti, se vorranno, ad analizzarli.
D: Sia le tavole delle graphic novel che le strips della bambina filosofica sono innervate da una fitta trama di riferimenti variegati: una sorta di ʻmelting potʼ culturale in cui spazi tra arte pittorica, cinema, musica (soprattutto punk), teatro, design, filosofia e perfino alchimia. Insomma, il tuo fumetto stimola costantemente la curiosità dei lettori; c’è in questo una precisa volontà comunicativa, o è semplicemente il risultato dei tuoi interessi e delle tue diverse passioni?
R: Dipende... Di sicuro prima di tutto sono fissazioni o amori che mi appartengono, e quindi mi sento spinta a infilarli all’interno delle storie che racconto. Per quanto riguarda la bambina filosofica, i riferimenti letterari e filosofici, la cultura deteriore e nichilista dell’occidente sono senza dubbio il suo humus. I grandi pensatori caustici e pessimisti, così come la musica punk, sono presi, shakerati, ingeriti...e vomitati! Per il resto, prendiamo per esempio l’alchimia in Sophia: il tema è strettamente legato alla ricerca del personaggio, al tessuto della storia. È una storia che parla di malattia e di morte, ma anche di unione, di sesso e di crescita, l’alchimia è tutto questo. In un linguaggio criptico e poetico, a tratti noioso e incomprensibile, ma è questo il mistero che l’alchimia cerca di risolvere. Però sì, le mie passioni, le mie ossessioni, sono molto presenti nel mio lavoro... Forse a volte pure troppo... Penso alla lunga sequenza della seduta spiritica della bambina filosofica in cui compaiono gli spiriti di Dante, Bonifacio VIII, etc. Oppure, quando la bambina va sulla luna e incontra John e John, due «Lunigli» fan del western, e per la precisione di John Wayne e John Ford. Beh... è innegabile che qui ci sia molto di me: io amo il western! E spero che lettrici e lettori mi perdoneranno questi scantonamenti... culturali!
D: Parlando del tuo ultimo work in progress. La biografia illustrata di Frida Kahlo è una sfida sotto diversi punti di vista: per la complessità del personaggio multi-sfaccettato, e per la difficoltà di raccontare un vissuto così travagliato all’interno della misura, rigorosa e sintetica, della sequenza visiva del fumetto. Come stai conducendo questo lavoro non facile?
R: Diciamo che ho appena iniziato, sto inchiostrando le seconde venti pagine. Dall’inizio mi sono subito posta il problema di come raccontare un personaggio e un carattere così intenso e complesso come quello di Frida Kahlo. Un universo individuale completamente diverso dalla Casati e da Tamara, che sono due monoliti inamovibili dalle loro posizioni. Frida è contraddittoria, cangiante, mobile, appassionata. La cosa che di sicuro ho deciso da subito è che non si sarebbe trattato né di una specie di documentario, come per la Casati, né di un monologo, come per Tamara. Sarà un dialogo, come le Operette morali di Leopardi, o i dialoghi di Paul Valéry: L'anima e la danza, Eupalinos o l'Architetto, Dialogo sull'albero. Saranno tavole libere, con un impaginato senza regole. Sarà forse un libro di molte parole e di grandi immagini, forse un po’ più letterario. Ecco quello che posso dire ora... E il titolo: Frida, un’operetta amorale a fumetti.