Videointervista ad Antonella Anedda

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Il 27 settembre 2014 la redazione di Arabeschi ha incontrato a Pisa, negli spazi del CTL (Centro di elaborazione informatica di Testi e Immagini nella Tradizione Letteraria), Antonella Anedda, che per più di un’ora ha parlato del suo rapporto con la visualità e della profonda ispirazione che le immagini forniscono alla sua poesia. Tale intrinseca relazione tra linguaggio visivo e verbale rende la poesia di Anedda caso esemplare per chi voglia confrontarsi con le ibridazioni tra codici e sugli esiti creativi che esse possono generare.

Riprese audio-video: Giulio Barbagallo, Gaetano Tribulato. Montaggio: Simona Sortino, Gaetano Tribulato.

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista. Si ringrazia Alessandro Giammei per la presenza amichevole durante l’intervista. 

 

Antonella Anedda © Cristina Savettieri

D: Siamo partiti dall’occasione specifica che ha portato oggi Antonella Anedda a Pisa, cioè la mostra Una forma di attenzione (organizzata da Silvana Vassalo presso la Galleria Passaggi di Pisa) realizzata in dialogo, come dice lo stesso titolo, con Antonella Anedda. All’interno del lavoro e delle applicazioni, molto varie, di Antonella Anedda ci è sembrato di vedere una costante, negli anni, che è la collaborazione con gli artisti, in questo caso una mostra legata in particolare alla forma del libro d’artista, ma partendo da Residenze invernali, e quindi dal rapporto con Ruggero Savinio ci è sembrato di riscontrare questo incessante dialogo con artisti visuali. Al contempo una centralità della riflessione sull’immagine e sulle arti visive nella scrittura, tanto saggistica quanto poetica, di Antonella. Partendo, appunto, dal rapporto con gli artisti la prima domanda che ci è venuta in mente è su come avvengono questi incontri e come funziona la loro dinamica, e se c’è una direzione privilegiata nello scambio tra parole e immagini.

Locandina della mostra Una forma di attenzione, Galleria Passaggi, Pisa 10 maggio - 26 settembre 2014

R: L’incontro con Ruggero Savinio è stato legato a un’amicizia comune, Gianluca Manzi, che ci ha fatto conoscere. Io sono molto grata a Ruggero Savinio, perché lui era un artista affermato, io ero invece una ragazza che scriveva. Lui è stato così generoso da dedicare questa cartella d’artista ad alcuni testi di Residenze invernali. Anche gli altri sono stati dei veri e propri incontri, anche sul piano umano. Quello con Jenny Holzer è stato un po’ più mediato ma altrettanto importante: si trattava di un’artista che io ammiravo e ammiro molto. Lo stesso vale per l’incontro con Sabrina Mezzaqui, nel senso che ci siamo incontrate casualmente, perché c’era stato un convegno organizzato proprio qui, alla Scuola Normale, da Rossana Dedola sul rapporto tra parola e immagine. C’erano Ana Blandiana, una film maker Sabine Gisiger e, appunto, Sabrina Mezzaqui. Buber dice ci sono incontri e disincontri e questi sono stati degli incontri, direi, segnati da un’alleanza, da un rispetto reciproco. Probabilmente se non fossero state persone di cui stimavo il valore forse questo incontro non sarebbe avvenuto, però sono stati incontri all’insegna, come poi dev’essere per la poesia, della gratuità. Una convergenza di passioni, se posso dire così.

D: Sotto la lettera ‘A’ della raccolta Il Catalogo della gioia, del 2003, troviamo una poesia il cui titolo, che al contempo è un incipit dalle risonanze baudeleriane, ci ha molto colpito: Adorare le immagini, riferendosi appunto alla famosa affermazione di Baudelaire in Mon cœur mis à nu su l’unico culto che il poeta tributa alle immagini.

Saremmo grati ad Antonella Anedda se la leggesse per noi.

R:

“A” Adorare le immagini
La bellezza dei giardini minuscoli e dei boschi
una sedia appoggiata alla parete e il vapore dei faggi.
Gettando lo sguardo sui balconi dove una tovaglia ondeggia
e per un attimo sembra
ci si metta sul cuore
colmandolo di azzurro, placandolo
col suo tonfo nel vento.
E adorare i quadri che gli esseri umani hanno dipinto
i mondi senza vento che respirano quieti nei musei
quelle tempeste senza schiume, quel sangue senza grido
e le bestie, mille volte benedette, ferme vicino ai tronchi.
Asini e conigli, pozzanghere dentro cui scintilla il cielo
pastori vicini al loro gregge
striati di pioggia e luce verde…
siamo esistiti davvero davanti a quei colori
in un tempo perfetto, la grande tela di allora, dipinta con amore
piena di azzurro e porpora, di boschi, di preghiere…

… tela che ancora dura, soltanto non dipinta, tessuta
cardata con cautela e ora di nuovo
forse, pronta per il colore.

 

Antonella Anedda © Cristina Savettieri

D: Grazie. Abbiamo voluto prendere questa poesia come punto di partenza anche per il resto della conversazione. La seconda domanda è se ci può dire qualcosa su dove nasce questa gioia nell’immagine: questa raccolta si chiama Il Catalogo della gioia e non a caso è una raccolta di cose che danno gioia. Si tratta di un rapporto che sembra molto intimo e che va al di là di una formazione accademica (Antonella Anedda è laureata in storia dell’arte). E se questo rapporto con le immagini lei lo considera, in qualche modo, un presupposto fondativo anche per l’innesco della sua parola poetica, per l’inizio del suo poetare.

R: Credo di sì, anche se questa gioia, che poi è più una difficile allegria che una vera e propria gioia, è stata un po’ recuperata negli anni. Il mio rapporto con la storia dell’arte è passato attraverso la dura scuola dell’iconologia, per cui tutto ciò che andava al di là dell’elemento storico l’ho vissuto a lungo con un po’ di senso di colpa. Poi ho recuperato quello che mi aveva spinto a studiare storia dell’arte: la passione per l’immagine e la passione per i dettagli in particolare. Accanto poi alle letture di poeti che amavo c’era anche questa continua gioia nell’osservare. «Il dettaglio ci chiama» – frase famosa di Arasse –, è proprio così, ci fa un cenno. E allora penso che anche quando scrivo sia il dettaglio della realtà – ma è la realtà che poi ritrovo nei quadri – a farmi un cenno.

Piero di Cosimo, Morte di Procri, 1495, London, National Gallery

Ieri, durante la chiusura della mostra Una forma d’attenzione, Alberto Casadei diceva: «Ci sono poeti legati più alla musica e poeti legati più alle immagini». Io sicuramente sono un poeta ( ...questa parola...) che ha un forte legame con le immagini, con quello che vedo. Mi chiama quella frazione di tetto oltre la finestra. Quindi la gioia di cui parla questo libro è proprio legata al semplice atto di guardare, di riconoscere, di portare questo dettaglio in quello che annoto.

D: All’interno di questa riflessione – che penso sia anche molto difficile perché chi riflette sull’origine della propria passione, del proprio fare è davanti a delle grosse domande – abbiamo pensato di chiederle qualcosa riguardo a due poli che ci sono sembrati essenziali. Da un lato il suo rapporto con la Sardegna e dall’altro il suo rapporto con Roma e in particolare ci ha colpito questo approfondimento del concetto, se così vogliamo chiamarlo, o forse meglio della condizione di insularità, anche in riferimento al libro che lei ha recentemente dedicato all’arcipelago della Maddalena.

Antonella Anedda, Isolatria. Viaggio nell'arcipelago della Maddalena, Roma, Laterza, 2013, copertina

La domanda è bipartita: è possibile immaginare – con tutto quello che comporta un’affermazione del genere, ovviamente – uno sguardo insulare, in un certo senso? E la seconda cosa appunto che ci colpiva – anche pensando a questa un po’ mitica ipotesi di una originaria lingua nuragica come lingua ideografica – se lei crede, come sostiene la psicanalisi, che esista un pensiero preverbale che si sviluppa per immagini e che poi può generare anche un tipo di scrittura che è impregnata di questo carattere prelogico e sicuramente prealfabetico.

R: Forse sì. Forse posso solo riflettere su quella che è stata la mia esperienza. Certamente questo legame con l’isola è molto forte, ho anche riflettuto su questo, su quanto poi l’isola sia, ovviamente, isolata, ma ci sia anche questo elemento molto forte di esposizione, in particolare per la Sardegna, ancora di più per la Maddalena, l’isola esposta al vento. Lo dico sempre, il vento è come un grande maestro, perché, sembra sempre, soprattutto quando è forte, sembra che ci scardini, quindi insegna la nostra insignificanza. Credo che poi il paesaggio sia un elemento fondamentale per chi scrive. Se devo pensare ad un ritmo penso a quello delle donne che tessevano, nel paese nel centro della Sardegna, che tessevano questi tappeti, e quindi questo andare avanti e indietro della spoletta, ma anche al suono dei pastori che spingono il gregge, legato a quel particolare tipo di silenzio. Credo che tutto questo ci sia. Quello che mi ha in qualche modo sorpreso è stato il ritrovamento proprio di questa limba, che pensavo non esistesse, e che è avvenuto in due momenti. Il primo è un po’ buffo, mi avevano commissionato una poesia su Roma – una delle mie rare poesie a pagamento –, ma non sono riuscita a scriverla. Era già scaduto il tempo – mi ero operata, quindi, chissà, forse l’anestesia aveva prodotto qualche danno, – e abbastanza sorprendentemente sono come affiorati questi suoni da una memoria che non pensavo neppure di avere. Questo suono in qualche modo ha anche chiarito quello che era il mio italiano. I suoni sardi del logudorese hanno molte consonanti, è una lingua molto asciutta, molto scabra, che si lega al paesaggio. Credo che questo in qualche modo possa forse dare ragione a quello che diceva lei. L’altro momento è stato legato ad una perdita, ad un lutto, quando mancavano le parole. Ho scritto questi attitosattitos viene da attittare, si piange colui o colei che è stato allattato –; ho scritto questi otto attitos in maniera abbastanza sorprendente anche per me, imparando, imparando molto, perché andando e venendo da una lingua all’altra era come se l’una chiarisse l’altra, soprattutto per sottrazione.

D: Molto interessante, anche per l’eco sonora di un fenomeno visivo che lei ha descritto, che mi sembra molto interessante per la generalità del fenomeno poetico. L’altro polo era Roma.

R: Io sono nata a Roma e con Roma ho un rapporto di incantamento per tanta bellezza, e allo stesso tempo – non mi viene la parola – starei per dire di distacco, nel senso che vedo la bellezza, la ammiro – forse sono troppo paesana –, ma in qualche modo è come se non riuscissi ad immergermi in quella bellezza. L’ho anche scritto e forse spiegato meglio di quanto non stia dicendo ora. L’ho sempre vissuta come il luogo del ritorno, il luogo della scuola, della disciplina – sembra buffo dirlo per Roma – però non sono ancora riuscita a instaurare una relazione profonda. È come se qualcosa mi sfuggisse – probabilmente è colpa mia –, forse il legame più forte ce l’ho con altri luoghi o con altre città. Penso a Lisbona, che è una città in cui mi sono sentita più legata a quello che vedevo, ma è un problema davvero di tipo psicologico.

D: Un’altra costante che abbiamo riscontrato nel suo lavoro è stata l’attenzione alla scrittura delle donne. Le avevo indicato due poli da Saffo ad Ann Carson ma passando per moltissimi altri esempi. Abbiamo riflettuto sull’ekphrasis e abbiamo pensato a due miti presenti in Ovidio, che è un autore che lei ha tradotto, che sono quello di Progne e Filomela e il mito di Aracne, entrambi miti legati alla tessitura a cui lei ha fatto cenno prima, entrambi espressioni di due voci femminili alle quali il lògos è negato e che si esprimono attraverso un altro linguaggio. Naturalmente poi in Ovidio, soprattutto nel caso di Progne c’è un’ambiguità rispetto al fatto che le note siano immagini tessute oppure siano parole tessute, ma non cambia il nucleo significativo del mito. Vogliamo citare questo bel passaggio di un articolo di Heffernan che si chiama The museum of words che dice: «L’aspetto più significativo della voce di Filomela è che è letteralmente una voce grafica, non testuale ma tessile, non verbale ma visuale. Il potere della parola di Filomela in questa storia è intrecciato e, quindi, legato al potere che hanno le immagini di parlare, di rompere il silenzio in cui esse, come le donne, sono tradizionalmente costrette». Ecco, volevamo sapere se lei è d’accordo con l’ipotesi che nella parola poetica femminile sia rimasta traccia di una intrinseca vocazione, in senso lato, ecfrastica o meglio che la donna quando scrive sia più vicina alla dimensione dell’eikòn che alla dimensione del lògos.

R: È una domanda a cui non sono certa di saper rispondere. La citazione è molto bella, credo che risponda alla domanda. In genere per quanto riguarda la scrittura, esito a dire femminile, è un terreno e tema molto complesso, a cui non è facile rispondere. Forse no. Le donne stanno uscendo, sono uscite dal silenzio. Sono sempre perplessa di fronte a delle letture così ‘incastonate’. Certamente poi pesa la tradizione e quello che è stato, però non mi sentirei di escludere gli uomini da un’affermazione del genere. Carlos Williams scrive delle meravigliose poesie ‘ecfrastiche’ su Bruegel. Ci sono ‘persone’ che scrivono, poi credo che il sesso sia casuale, come avere gli occhi azzurri. Poi c’è un’attenzione, sicuramente. Mi sono occupata di donne che scrivono, però anche di uomini, quindi non so rispondere in maniera decisa a questa domanda.

D: È già una risposta. Vorrei tornare un momento al verbo ‘adorare’, che avevamo sentito risuonare all’inizio della sua lettura, che è una cosa che potrebbe sviare, perché nell’idea dell’adorazione c’è un’idea statica, feticistica o addirittura ipnotica dell’icona. Oppure, dall’altro lato, un’interpretazione rigidamente iconologica, quindi legata ad un dover essere accademico particolare. Ma nell’ultima strofa vediamo che questo movimento ecfrastico si scompone e rimanda ad una ritessitura che presuppone un dissolvimento dell’immagine adorata, e mi sembra che questo concetto sia centrale ne La vita dei dettagli, un saggio che ci veniva in mente all’inizio della conversazione, il cui sottotitolo è Scomporre quadri, immaginare mondi, dove c’è una dialettica molto precisa che va da questo atto primario dell’attenzione – che è richiamato anche nel titolo della mostra con Mezzaqui – di origine, ovviamente arendtiana, quindi a una forte valenza etica, a mio parere – il dovere dell’attenzione –, fino all’emergere del dettaglio e del particolare che chiama, che poi finisce per sfondare il quadro e aprire sull’ignoto, una nuova dimensione. A noi è sembrato che questa dimensione ecfrastica di cui si faceva cenno prima sia in atto in una maniera, per così dire, sbriciolata, nella sua poesia, ci sembra di trovare dettagli e anche un fenomeno simile per quanto riguarda le citazioni degli altri poeti, mai il fronteggiamento sguardo a sguardo, ma questo procedimento di tagliare e ricucire. Ha mai affrontato l’ekphrasis in modo diretto, come i poeti che ha studiato?

Sabrina Mezzaqui, Cucire (A.A.) 2014, ricamo su tessuto, quaderno aperto 23x31 cm. Courtesy Galleria Passaggi, Pisa. Foto Rino Canobbi

R: Forse sì, ho scritto una cosa sulle grottesche, che però ho perduto. Mi avevano chiesto un testo sulle grottesche, però penso che anche lì sia avvenuta una operazione di sbriciolamento, perché poi ho parlato di tutt’altro. La parola ‘adorare’ ha anche una valenza ironica, è molto vero questo fatto che ci sono due poli, lo sguardo e poi il dissolversi dello sguardo. Mi interessa molto anche questo elemento di perdita, che credo che sia fondamentale, almeno per me. È proprio lo sbriciolarsi che, credo, mi abbia condotto attraverso la stesura di questo libro, La vita dei dettagli, perché il libro comincia in modo ‘serio’, con delle riflessioni su poeti, con una ripresa della Galeria di Marino, però rovesciata, quindi poeti che hanno parlato di quadri: c’è Jaccottet che parla di Morandi, c’è Jamie McKendrick che riflette in questa poesia molto bella su Carpaccio, Henri Cole su Piero della Francesca, e poi mentre scrivevo questa riflessione sulla perdita è diventata sempre più forte, fino a scomporre il libro, e questa idea di scomposizione, poi, da questi resti anche di dettagli, si è composto questo strano collage sulla perdita, per cui è un libro abbastanza inclassificabile, perché non è molte cose.

D: È un elemento del fascino di questo libro. Vorrei insistere ancora un po’ su questo aspetto dello scomporre e ricomporre: la cosa che mi veniva in mente è che da un lato si riconosce un procedimento novecentista, un procedimento delle avanguardie, semplicemente il collage, oppure il più aggiornato cut up, dadaista o post-dadaista. Però mi è anche sembrato di sentire, sia nell’atto destruens di tagliare, sia in quello di rimontare, una profonda diversità da questi modelli novecentisti. Non so se è d’accordo. In cosa consiste questo tono diverso?

R: Non è facile rispondere, perché è qualcosa che ho fatto senza pensare a questi modelli. Lei parlava del fatto che queste operazioni erano caratterizzate anche da un elemento di violenza, ecco, forse semplicemente, quello che ho fatto – adesso penso a questo collage de La vita dei dettagli – è stato ritagliare con attenzione, senza voler ferire. Ritagliare e poi comporre, perché essendo la perdita il tema, c’è stato un po’ questo comporre come si compongono i morti. Quindi forse c’è un elemento di attenzione non violenta, non so come dire. In questo gesto di tagliare c’era anche, in prospettiva, quello del ricucire, del non ferire, ecco. Del non colpire, forse.

D: Continuando con questo tema, ma visto da una prospettiva completamente diversa, colpisce molto, nel titolo della sua ultima raccolta poetica, che è Salva con nome, questo sovrapporsi di uno stilema alto, che rimanda alla dimensione della parola non solo poetica, ma anche religiosa, che è quella del ‘salvare le cose’. E, insieme sentire risuonare un sintagma molto quotidiano, anzi, anche un po’ ricattatorio che chiunque abbia un programma di videoscrittura conosce: quello che ci porta a ‘salvare il lavoro fatto’. A me ha fatto venire in mente il Transito con catene di Maria Luisa Spaziani, che era appunto una indicazione stradale, del quale poi c’era tutta una risonanza dantesca. Volevo sapere qualcosa dei suoi rapporti con questi nuovi media, queste nuove tecnologie, secondo la dizione corrente, anche nell’aspetto, nella prospettiva dell’artista e del critico. Queste possibilità di scomposizione e ricomposizione, che queste tecnologie danno, le interessano in qualche modo?

R: Sì, mi interessano. A me piace il computer, non ho nessun tipo di ostilità. Ho cominciato ad usare il computer molto presto, forse perché sono una mancina corretta, e allora faccio fatica. Non mi disturba, anzi, mi piace la sera vederlo acceso: partecipa un po’ del caminetto, un po’ del pianoforte. Non sono ostile. Poi è bello anche scrivere a mano, insomma, sono mezzi. Invece rispetto al titolo, questi due elementi, tono alto ed elemento quotidiano, è quello che lei diceva prima dell’adorare e del dissolversi, sono un po’ due poli del mio lavoro. Devo dire che avevo pensato più all’elemento del computer. Volevo riflettere su questo ordine che ci viene sempre dato dal computer: ‘salva con nome’. E questo dare un nome e anche il nostro avere nome, mi interessava perché il nome è un suono, il nome è nulla. Quindi da un lato questa importanza che viene data al nome e l’invito sempre a dare nomi, e dall’altra la consapevolezza che il nome è nulla, che rimarrà questo segnetto sulla tomba – se rimane. Rimane per un po’ e poi non ci sarà più. Vado sempre, quando c’è un viaggio, nei cimiteri a vedere le tombe molto vecchie e mi dà molta pace. C’è da una parte anche questo invito, soprattutto quando si è giovani, a ‘farsi un nome’, dall’altra c’è la riflessione su quanto sia ridicolo tutto questo, su quanto sia fragile. E allora il titolo è nato anche da queste considerazioni.

Antonella Anedda, Salva con nome_Milano_Mondadori_2012

D: A proposito del farsi un nome, un nome non neutro, come è il nome di poeta, l’ultima riflessione che volevamo mettere sul tavolo è proprio quella che riguarda questo aspetto, non solo dello scrivere e del fare poesia ma anche dell’essere, di impersonare a diversi livelli questa figura. Mi è sembrato, nel suo caso, come in quello di molti poeti della sua generazione, poeti che sono eredi di quella tradizione novecentesca alla quale abbiamo accennato prima, che ci sia da un lato un tentativo di uscire dai confini ristretti di un artigianato del linguaggio, e quindi diventare performer, occuparsi di arte, tradurre. Anche questo movimento del tradurre, che nel suo caso va nei due sensi – lei ha tradotto poesie ed è stata tradotta in altre lingue – però dall’altro lato mi sembra di vedere una attenzione invece al recupero di una tradizione di parola poetica, che dire ‘cura’ è forse eccessivo, ma di poeticità della poesia che sembra ritornare ad una verticalità della parola. Vorrei che ci dicesse qualcosa su questo.

R: Per quanto riguarda la mia poesia, è una domanda sulla quale avevo molto riflettuto, perché da un lato penso che in realtà basti essere poeta. C’è una cosa molto bella che dice Giovanni Giudici. Tra l’altro ho appena finito di leggere il libro di Giulio Ferroni su Zanzotto e Giudici. Mi ha molto colpito la lettura di questi due poeti. Quando gli chiedono come immagina un lettore di poesia, lui dice: «Uno come me quando la sera legge Machado». Lì c’è veramente tutto, al di là del nome, al di là di quello che è il percorso di chi scrive poesia, che può avere più o meno riconoscimenti. C’è questo momento di assoluto raccoglimento, leggere Machado, guardare un tetto. Lì c’è il nucleo della poesia. Poi sul fatto che non basti essere solo poeti… Però penso che questo sia sempre successo. Dante è Dante perché era anche un politico, perché era un uomo che andava – scrive Mandel’stam – «con queste suole bovine delle scarpe consumate»; Giudici è stato un grande traduttore, Zanzotto ha collaborato con Giosetta Fioroni, con bellissime opere. Non so se veramente sia un fenomeno dell’ultima generazione. Io non potrei essere performer (si vede da questa intervista). Forse essere poeti basta, ma siamo esseri umani, per cui la poesia è un’arte terrena, un fare terreno, un essere sulla terra, non essere in qualche strano luogo. Quindi poi ci sono poeti che amano fare conferenze, e poeti che preferiscono la solitudine. Insomma, non credo in queste grandi definizioni. Poi ogni critico ha e difende i poeti della propria generazione, è giusto. È giusto che Ferroni dica: «Non ci sono più poeti dopo Giudici e Zanzotto», però il suo libro è interessante perché dà, in realtà, fiducia a chi legge, a chi viene dopo Giudici e Zanzotto.

Antonella Anedda © Cristina Savettieri

 

Lingua
Non hai bara da trascinare sulla neve
ma un cane che trema nel buio.
Madre-lingua sei triste
l’aglio si fa nero nel rame.
il rombo del camino sale.
I venti si confondono
Eolo soffia e Babele vive.
Figlia-lingua: scricchioli a ginepro.
Il tuo brivido alla nascita
è un frammento di tempesta tra i pianeti
e le nuvole, le nuvole ciecamente corrono
cancellando dai cieli ogni genealogia.
Limba
Non tenes baùle ‘e istrisinare in supr’e nie
Ma unu cane a trémula in s’iscuriù
Limba-matre ses triste
S’azu s’inniéddigat in sa sartàine
Sa mughit’anziat
Sos ventos si confident
Eolo survat et Babele s’isparghet.
Fiza-limba tràchitas a ghineperu.
Una tremita tua naschinde
Est ch’astula de livrina in mes’a isteddos
et sas nues, sas nues a sa thurpas fughint
iscanzellande dae chelu onzi zenìas.