Introduzione a Almeno in due. Donne nel cinema italiano

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A guidare questo nuovo percorso alla ricerca delle donne del cinema italiano è una eco, che risuona fin dal titolo, di Luce Irigaray, e precisamente del suo Essere due (1994). Da lì e dunque da un testo che disegna il mondo a partire dalla differenza sessuale in azione e in continuo dialogo con l’altro da sé, è tratto il filo di un pensiero che vorremmo ritessere all’interno della produzione filmica e audiovisiva nazionale, uno scenario per lungo tempo tratteggiato come monosessuato, quasi fosse abitato da un (dal) soggetto unico.

Negli ultimi anni anche in Italia cominciano a prendere corpo altre narrazioni, storie diverse che, mutando la prospettiva, aprendosi alla concretezza delle pratiche (il fare) e misurandosi con la molteplicità delle esistenze (le vite), lasciano intravedere un paesaggio cinematografico più ampio, in tensione e in divenire, un paesaggio vivificato dalla presenza delle donne. Guardando a questo panorama nuovo, che per molti versi è ancora incerto e lacunoso, ci accorgiamo che per esistere e porsi come soggetto è essenziale, per le donne, essere almeno due, ossia fare leva sulle energie e le risorse della relazione femminile. Difatti, il reciproco affidamento, le varie tattiche e strategie di sostegno, di complicità, o semplicemente di vicinanza, ancor prima che il femminismo ne riconoscesse il potenziale rivoluzionario, sono tratti ritornanti nei vissuti di molte donne, comprese quelle che si sono trovate a confrontarsi con uno spazio, quello del cinema, plasmato dallo sguardo maschile. Così, nell’esplorazione del panorama audiovisivo nazionale abbiamo voluto mettere a tema proprio questi legami fra donne - intrecciando e in parte forzando il filo di Irigaray - per indagare le fantasiose e a volte invisibili potenzialità delle relazioni femminili.

Studiare le donne cercandone almeno due significa invero scardinare alcuni luoghi comuni e abitudini di pensiero sottilmente misogine che hanno informato, e ancora in parte informano, le narrazioni correnti. Ci riferiamo anzi tutto all’idea che le peggiori nemiche delle donne siano le donne stesse; ed anche al convincimento che sia il talento e la genialità di una singola a fare la differenza, consentendole di affermarsi da sé sola nel mondo maschile. Certo, la storia delle donne nel cinema si può raccontare anche in questi termini, mettendo al centro l’antagonismo e la contrapposizione fra soggetti. Ma questa è una storia che non ci interessa giacché riduce le pratiche e le esistenze concrete alla antica dialettica servo-padrone e tralascia l’essenziale, ossia manca di mettere in luce le opportunità di mutamento prodotte (o anche soltanto promesse) dall’ingresso delle donne, intese come soggettività nuova e plurale, nel quadro della produzione filmica (e nel mondo).

 Anna Magnani e Giulietta Masina posano per i fotografi

Abbiamo dunque chiesto alle autrici di immaginare dei ritratti (almeno) doppi, di cogliere le registe, le attrici, e, nel loro insieme, le fautrici del cinema italiano, comprese le personagge, in relazione fra loro, almeno due, appunto. Così, in apertura, Giulia Fanara tiene insieme Monica Vitti e Valeria Bruni Tedeschi in una fitta rete di assonanze e rime segrete, distanti ma vicine nel dare corpo ai percorsi imprevisti che la libertà femminile disegna sugli schermi italiani. Nella stessa sezione, Relazioni simboliche in cerca di sé, si intrecciano biografie e autobiografie femminili negli studi di caso di … con amore, Fabia (Maria Teresa Camoglio, 1993) e Poesia che mi guardi (Marina Spada, 2009). Segnati entrambi da un desiderio di restituzione, questi film elaborano e rielaborano, attraverso forme narrative e poetiche differenti, le esistenze di due letterate del Novecento, Grazia Deledda e Antonia Pozzi, attraverso le invenzioni delle due registe, che per raccontarle finiscono per raccontare anche se stesse. La sezione successiva, Nello sguardo dell’altra, mette a tema il legame fra donne nello spazio del set: Luisa Cutzu affronta il sodalizio fra Gabriella Rosaleva e Daniela Morelli, rendendo conto di una collaborazione lunga e fruttuosa, mentre Stefania Rimini racconta l’incontro di Costanza Quatriglio e Nada Malanima, individuando nello spazio relazionale dell’affidamento il nodo nevralgico di Il mio cuore umano (Costanza Quatriglio, 2009). Cristina Colet, invece, narra il rapporto contrastato fra Giulietta Masina e Anna Magnani, che forse non sono riuscite a cogliere appieno il guadagno dell’essere due. Eppure quella burrascosa relazione fra prime donne sembra chiedere indagini ulteriori, lontane dall’eco morbosa dei rotocalchi d’epoca e più attente al reciproco riconoscimento, che spesso si trova altrove, nel dispiegarsi più intimo delle esistenze. Alla ricchezza del groviglio relazionale guarda infatti la sezione seguente, Genealogie in divenire, che esplora i dintorni dello schermo e comincia a delineare uno sguardo nuovo, capace di tenere insieme donne di generazioni differenti: è il caso di Micaela Veronesi, che propone un viaggio nel cinema femminile contemporaneo attraverso le relazioni fra attrici e registe; di Farah Polato, che ci avvicina all’idea di tessitura, inseguendo, dentro e fuori dal carcere, il nastro morbido della pellicola che sa ricucire strappi esistenziali apparentemente irrimediabili; e di Cristina Gamberi, che esamina la radice genealogica dei film di Alina Marazzi. La quarta sezione, Essere due: l’avventura delle personagge, sposta l’attenzione sul piano finzionale, affrontando le relazioni agite sullo schermo da figure femminili fuori dagli schemi, capaci di forzare le convenzioni e gli stereotipi di genere.

 Le allieve del collegio di Santa Rossana nel film Un garibaldino al convento di Vittorio De Sica, 1942

Così Simona Busni rintraccia in Un garibaldino al convento (Vittorio De Sica, 1942) la forza dirompente del legame fra donne, in una delle sue rare occorrenze melodrammatiche; l’analisi di Il sole negli occhi (Antonio Pietrangeli, 1953), poi, evidenzia l’apparire nello scenario del cinema italiano del secondo dopoguerra di un soggetto imprevisto, plurale e solidale, vale a dire la comunità delle domestiche, le amiche della protagonista, Celestina, che la sostengono nella sua scelta di vita; e infine Rosamaria Salvatore chiude la sezione con le personagge di Silvio Soldini, diverse per età, provenienza e stili di vita e unite dalla loro acrobatica leggerezza e gioia di vivere. Ci sono poi le Sorellanze laboriose che punteggiano il focus dedicato al cinema di Rohrwacher, all’interno del quale Francesca Brignoli, Ilaria De Pascalis e Mariapaola Pierini indagano i film e le collaborazioni fra donne – sorelle e non solo – che hanno riscosso non piccola eco nella produzione contemporanea.

 Un corpo solo. Un’anima sola

La sezione Rappresentazioni e relazioni si colloca invece ai margini del film, al confine fra fruizione e consumo: Martina Federico propone una lettura dei trailer e del loro modo di narrare le relazioni femminili, semplificandole sovente nel segno del conflitto; mentre Mariagrazia Fanchi si occupa delle spettatrici, e in particolare delle bambine, che al cinema non sono mai sole. La sesta sezione, Essere molte: i collettivi, offre un rilancio sia nel numero – da due a molte – sia nello sporgersi oltre il cinema, nei territori del video, della sperimentazione e della computer grafica. Così Sandra Lischi racconta di Flavia Alman e Sabine Reiff, pioniere delle nuove immagini; Giulia Simi tesse la storia delle donne nell’underground degli anni Sessanta e Settanta; mentre Lorenza Fruci e Sarah-Hélèna Van Put guardano alla recente esperienza del collettivo Le ragazze del porno.

A chiudere questo viaggio nel cinema italiano ci sono due dialoghi, curati da Stefania Rimini e da Elena Marcheschi, nei quali prendono parola Costanza Quatriglio ed Eleonora Manca. Si tratta di un rilancio ulteriore, di un intreccio di voci che illumina i confini e gli sconfinamenti possibili dal cinema al video, dalla fotografia alla tessitura delle immagini, in una ricerca di sé che si realizza nell’incontro - reale e simbolico - con l’altra.

 Immagine dal set de Le meraviglie di Alice Rohrwacher, 2014 – fotografia di Simona Pampallona

Per sua natura incompleto e in continuo, vitale, divenire, questo nuovo racconto delle donne nel cinema italiano è punteggiato da molti vuoti, da zone più oscure e non ancora indagate, e da altre , assai promettenti, che paiono appena sfiorate. Eppure i passi imprevisti di quelle donne che, in vari modi, si sono accompagnate e si accompagnano nel lavoro per il cinema risuonano ormai nelle nostre orecchie con un ritmo misterioso e insieme familiare, come il ronzare dell’apiario di cui scrive Pierini, che ci affascina e ancora ci sfugge. Proprio per questo continueremo a raccontarlo.

 

Testi di

Francesca Brignoli, Simona Busni, Lucia Cardone, Cristina Colet, Luisa Cutzu, Ilaria De Pascalis, Giulia Fanara, Mariagrazia Fanchi, Martina Federico, Lorenza Fruci, Cristina Gamberi, Sandra Lischi, Giovanna Maina, Elena Marcheschi, Mariapaola Pierini, Farah Polato, Stefania Rimini, Rosamaria Salvatore, Giulia Simi, Chiara Tognolotti, Sarah-Hèléna van Put, Micaela Veronesi

 

 Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti nel film La pazza gioia di Paolo Virzì, 2016