La narrazione per immagini nelle pagine del Gattopardo

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The new reading of Lampedusa’s novel here proposed follows the many references to the images that characterize the work. Canvas and frescos display the double dimension of the text: the realistic representation of events and characters, and the display of the fictitious nature of such representation. From the very beginning of the text, the images return this twofold dimension, as they express both a fiction which claims to reproduce reality and a truth which the images’ fallacy allow metaphorically to appear. This per imago story interwoven in the novel fully conveys its deep meaning; it underlines how, further than general approvals, strangled revolutions, and new and old kings, in the text, the dispute between old and new implies also the passage from a world of symbols and rites to a dimension which does not recognized them any longer.

Al di là del celebre attacco con funzione di mortifero paradigma, il quale ipoteca semanticamente l’intera opera («Nunc et in hora mortis nostrae. Amen»), l’ouverture del Gattopardo riserva al proprio interno pure altre cifre in grado di porsi a guida, magari più discreta, nell’attraversamento del testo, quali fili alternativi delle trame lampedusiane che concorrono a vario titolo ad arricchire la densità metaforica della narrazione.

Non meno indicativo della formula d’esordio è infatti l’intero paragrafo di apertura del romanzo, immediatamente successivo alla chiusa in latino della preghiera: in esso compare da subito il motivo della «recita» («La recita quotidiana del Rosario era finita»), ovvero di una riproduzione all’insegna della finzione, di una ripetizione che aspira a rivestirsi di senso e di verità, metafora essa stessa del doppio fondo del romanzo (affresco di passato e immagine camuffata del presente, elegia della conservazione e lucida testimonianza della inesorabile «sostituzione di ceti»).

Questa doppia dimensione sottesa alla lettera del testo si conferma d’altronde ulteriormente e pienamente quale elemento centrale nell’economia di esso già in quello stesso paragrafo iniziale, allorché viene descritta l’atmosfera in cui si era consumata l’orazione giornaliera:

mentre durava quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.[1]

La «recita» condiziona la realtà delle cose, le fa diventare altre, finte; e la logica di questa ‘verità’ testuale si fa ancora più intrigante se si considera che a subire la temporanea mistificazione sono delle figure riprodotte, quelle dei «pappagalli» sul parato (che appaiono «intimiditi», malgrado la loro magnificenza iridata) e della «Maddalena» tra le due finestre (la «biondona» che si trasforma in «penitente»): a propria volta, quindi, rappresentazioni iconiche, e in quanto tali tese a sostituire e insieme ad evocare ciò che viene in esse ritratto. Finzione e verità convivono accanto alla dimensione simbolica che nelle due immagini coniuga d’altronde contrapposizioni fondanti del romanzo, quali la vitalità e il ripiegamento, la sensualità e la rinunzia. E se, attraverso l’affresco sulla parete, l’immagine della bionda Maddalena introduce, dopo quello della morte (e insieme alla progressiva affermazione della forte componente metaforica del testo), un altro dei motivi dominanti del libro, e cioè quello dell’eros, la descrizione dei pappagalli di seta, che anticipa l’insistita presenza degli animali nelle pagine del Gattopardo, ricollega idealmente anche questo bestiario alla ricorrenza, nel romanzo altrettanto insistita, di immagini (per lo più pittoriche) che si impongono come elementi significanti costantemente interagenti con la narrazione.

Su di esse indugia per altro questa sequenza ancora relativa alla scena d’apertura:

Le donne si alzavano lentamente, e l’oscillante regredire delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche che si disegnavano sul fondo latteo delle mattonelle. Rimase coperta soltanto un’Andromeda cui la tonaca di Padre Pirrone, attardato in sue orazioni supplementari, impedì per un bel po’ di rivedere l’argenteo Perseo che sorvolando i flutti si affrettava al soccorso ed al bacio.
Nell’affresco del soffitto si risvegliarono le divinità. Le schiere di Tritoni e di Driadi che dai monti e dai mari fra nuvole lampone e ciclamino si precipitavano verso una trasfigurata Conca d’Oro per esaltare la gloria di casa Salina, apparvero subito colme di tanta esultanza da trascurare le più semplici regole prospettiche; e gli Dei maggiori, i Principi fra gli Dei, Giove folgorante, Marte accigliato, Venere languida, che avevano preceduto le turbe dei minori, sorreggevano di buon grado lo stemma azzurro col Gattopardo. Essi sapevano che per ventitré ore e mezza, adesso, avrebbero ripreso la signoria della villa. Sulle pareti le bertucce ripresero a far sberleffi ai cacatoés.[2]

Le figure disegnate sul pavimento svelano la propria presenza dopo essere state nascoste dai personaggi, quasi controfigure di questi e infatti impegnate a glorificare e sorreggere l’immagine del Gattopardo, anch’essa effige di un animale che, proprio in questa prima apparizione pittorica, viene indicato come emblema del casato. In più luoghi del testo, di quell’animale rappresentato nello stemma dipinto sul soffitto, e da cui deriva il titolo del romanzo, è significativamente incarnazione il protagonista stesso,[3] in un’ulteriore, ancora timida sottolineatura della forte interdipendenza che nel testo si viene ad istituire tra dinamiche narrative e immagini pittoriche. Gli «Dei maggiori» degli affreschi («Principi fra gli Dei», come principi erano anche don Fabrizio e i suoi familiari) vengono del resto indicati in Giove, Marte e Venere, emblemi della signoria, della guerra e dell’eros, e cioè di motivi che si impongono da subito come centrali della «commedia» messa in scena da Lampedusa («una commedia, una rumorosa, romantica commedia con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca»).[4] Le figure dipinte avvolgono i personaggi dal pavimento e dal soffitto così come dalle pareti: loro è la «signoria della villa», anche se questa principesca sovranità (ideale duplicazione di quella della famiglia Salina) deve fare i conti, sempre nello schermo delle pitture, con i premonitori «sberleffi» fatti dalle bertucce ai pappagalli, in una nuova riproposizione della semantizzazione iconografica degli animali all’interno del libro.

Che gli affreschi della casa (così come ogni genere di quadro e raffigurazione pittorica) non siano rappresentati nelle pagine del Gattopardo solo come mero ornamento, ma invece come presenza strettamente connessa ad altri importanti tasselli della narrazione è del resto ribadito pure in relazione alla passione di don Fabrizio per l’astronomia (passione ‘visiva’ anch’essa, d’altro canto)[5] e alla convinzione del Principe «che i due pianetini che aveva scoperto (Salina e Svelto li aveva chiamati, come il suo feudo e il suo bracco indimenticato) propagassero la fama della sua casa nelle sterili plaghe fra Marte e Giove e che quindi gli affreschi della villa fossero stati più una profezia che un’adulazione»:[6] all’ombra dell’ennesima figura del bestiario lampedusiano e del feudo che dà il nome al casato del Gattopardo, le pitture del soffitto vengono apertamente riconosciute come ‘profetiche’ portatrici di verità ma, allo stesso tempo, anche come immutabili e metaforici contraltari di essa, visto che «il povero Principe Fabrizio viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano e stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancor minor voglia di porvi riparo».[7]

Il valore simbolico delle rappresentazioni pittoriche va tuttavia nel romanzo ben oltre la descrizione degli affreschi di villa Salina, dal momento che numerosissimi sono i luoghi del testo in cui esse fanno capolino nella narrazione rimarcandone sfumature e significati: e così la stessa cialtroneria ben poco regale, che caratterizza la monarchia borbonica ormai al declino (tratto di assoluto rilievo della rappresentazione storica lampedusiana), viene infatti sì resa attraverso la «cordialità plebea» con cui il sovrano accoglie Don Fabrizio in visita a Caserta e l’ostentazione di una parlata dialettale «di gran lunga» più accentuata di quella del ciambellano di corte, ma viene altresì ad essere sottolineata dalla confusa eterogeneità dei quadri presenti nello studio del re dove campeggiano «un ritratto del Re Francesco I e uno dell’attuale Regina, dall’aspetto inacidito», mentre, in un’accozzaglia senza stile, «al di sopra del camino una Madonna di Andrea del Sarto sembrava stupita di trovarsi contornata da litografie colorate rappresentanti santi di terz’ordine e santuari napoletani».[8]

Qualche pagina più avanti, saranno del resto ancora dei quadri, quelli delle stanze dell’amministrazione a dire dell’importante cambiamento epocale in cui il vecchio ordine era ormai pienamente coinvolto, raccontando per immagini del lento ma inesorabile, declino economico di casa Salina:

Dalle pareti a calce si riflettevano sul pavimento tirato a cera gli enormi quadri rappresentanti i feudi di casa Salina: spiccanti a colori vivaci dentro le cornici nero e oro si vedeva Salina, l’isola delle montagne gemelle, attorniate da un mare tutto trine di spuma, sul quale galere pavesate caracollavano; Querceta con le sue case basse attorno alla Chiesa Madre verso la quale procedevano gruppi di pellegrini azzurrognoli; Ragattisi stretto fra le gole dei monti; Argivocale minuscolo nella smisuratezza della pianura frumentaria cosparsa di contadini operosi; Donnafugata con il suo palazzo barocco, meta di cocchi scarlatti, di cocchi verdini, di cocchi dorati, carichi a quanto sembrava di femmine di bottiglie e di violini; molti altri ancora, tutti protetti sotto il cielo terso e rassicurante dal Gattopardo sorridente fra i lunghi mustacchi. Ognuno festoso, ognuno desideroso di esaltare l’illuminato imperio tanto “misto” che “mero” di casa Salina. Ingenui capolavori di arte rustica del secolo scorso; inatti però a delimitare confini, precisare aree, redditi; cose che infatti rimanevano ignote. […] Di già alcuni di quei feudi tanto festosi nei quadri avevano preso il volo e permanevano soltanto nelle tele variopinte e nei nomi. Altri sembravano quelle rondini settembrine ancor presenti ma di già radunate stridenti sugli alberi, pronte a partire.[9]

Il riflesso dei quadri sul pavimento sembra voler ribadire la natura stessa di essi, riproduzioni per immagini della realtà, che nel romanzo si rivelano puntualmente cifre indicative di snodi semantici di rilievo. All’interno del passo appena citato essi si fanno specchio di una posizione sociale che tenta di sopravvivere ad una condizione economica profondamente mutata, e nella puntuale descrizione di ogni singola pittura la narrazione cerca quasi di dare un’effimera patina di consistenza a ciò che non ce l’ha più. Ancora una volta le immagini rappresentate raccontano di una dimensione parallela che nella sua alterità restituisce comunque una parte di verità: nel loro aspetto «festoso» esse esaltano e allo stesso tempo vengono protette dal Gattopardo sorridente, ma proprio per la loro stessa natura di dipinti (per di più «ingenui») non possono che essere «inatti» a dire di confini, aree e redditi, facendosi metafore perfette della situazione dell’aristocrazia che, nell’elusione di quella nota verità, cercava di dare corpo alla propria sopravvivenza. A sancire ciò la sfera delle immagini si salda ancora una volta con quella degli animali, anch’essi metafore privilegiate delle dinamiche del romanzo, e che assumono in questo caso le fattezze di rondini già volate via o pronte a farlo, esattamente come i feudi dei Salina rappresentati nei quadri. Nella stanza dove campeggiano queste rappresentazioni pittoriche, che esprimono una cosa e insieme ne suggeriscono un’altra, la scrivania del Principe appare coerentemente «scavata e truccata come un palcoscenico», mentre la sua passione per l’astronomia, passione ‘visiva’ già posta in dialogo con la logica delle pitture, viene apertamente assimilata alla «morfina» («una medicina scoperta da poco negli Stati Uniti d’America che permetteva di non soffrire durante le operazioni più crudeli»), quale alleato contro il doloroso pensiero della migrazione dei feudi-rondini e la crudeltà delle «immagini di Ragattisi perduto e di Argivocale pencolante».[10] Lampedusa insiste del resto a sovrapporre nella narrazione considerazioni derivanti dall’osservazione delle stelle con quelle relative all’osservazione dei dipinti, esperienze visive poste costantemente a fare da pendant alla realtà rappresentata, canali paralleli ad essa, ma con essa costantemente interagenti per contrasto o per assimilazione: quando, dopo aver parlato con Tancredi, il Principe cerca di allontanare le preoccupazioni politiche sprofondandosi nelle sue astrazioni astronomiche, il narratore commenta puntuale che «per mezz’ora quella mattina gli dei del soffitto e le bertucce del parato furono di nuovo posti al silenzio»,[11] così come sono sempre i protagonisti di quegli affreschi tanto familiari (e con essi le amate stelle e i pianeti) a venire in mente al protagonista a proposito degli imminenti rivolgimenti e della possibile sostituzione del vecchio re con uno nuovo («“[…] Del resto neppure Giove era il legittimo re dell’Olimpo”. Era ovvio che il colpo di stato di Giove contro Saturno dovesse richiamare le stelle alla sua memoria»).[12] In quelle pitture senza tempo è straordinariamente già contenuto il senso della storia, un senso che emerge spesso attraverso lo sguardo di Don Fabrizio, magari coniugato con le considerazioni del narratore, e che tende a colorarsi sempre di più dei toni distaccati e amari dell’ironia:

Sedette su un divano e mentre aspettava notò come il Vulcano del soffitto rassomigliasse un po’ alle litografie di Garibaldi che aveva visto a Torino. Sorrise. “Un cornuto”. […] Un raggio di sole carico di pulviscolo illuminò le bertucce maligne.[13]

Comparse da subito nell’immaginario offerto dagli affreschi, le dispettose «bertucce» sono il contraltare degli dei e di quegli uomini che si credono dei («Vengono [i garibaldini] per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dei»),[14] presenze demistificanti e «maligne», significativamente ‘messe in luce’ quali simboli di un’irrisione dall’interno di quel mondo che finge di poter sopravvivere a se stesso. Il raggio di sole che le illumina nel salone aveva del resto poco prima messo «in ombra» i quadri dei feudi («la luce entrava adesso di traverso e dai quadri dei feudi, ora in ombra, [il Principe] non ebbe a subire rimproveri»),[15] in un gioco di chiaroscuri pittorici che visualizza l’ambiguo slittamento tra l’elegia di un declino e l’aspetto grottesco di esso.

Elementi non secondari nell’economia narrativa del testo, gli affreschi della villa sono anche lo spunto per un primo incontro del protagonista con i Piemontesi («così continuava a chiamarli il Principe per rassicurarsi, allo stesso modo che altri li chiamavano Garibaldini per esaltarli»),[16] recatisi in visita a palazzo per ammirarne le bellezze:

Preannunziato ventiquattr’ore prima da Tancredi, […] si era presentato a villa Salina un generale in giacchettino rosso […] aveva urbanamente chiesto di essere ammesso ad ammirare gli affreschi dei soffitti. Venne accontentato senz’altro perché il preavviso era stato sufficiente per allontanare da un salotto un ritratto di re Ferdinando II in pompa magna ed a farlo sostituire con una neutrale “Probatica Piscina”, operazione che univa i vantaggi estetici a quelli politici.[17]

 

Se le pitture dei saloni procurano ai Salina l’opportunità di entrare in contatto con i «“bau-bau” in camicia rossa», la sostituzione di un quadro con un altro racconta visivamente delle cautele e dei compromessi politici che consentono al Principe e alla sua famiglia di restare al passo con i tempi: si tratta di un cambiamento che sembra contraddire la (se pur fallace) idea di immutabilità restituita dalle tante riproduzioni pittoriche presenti nel romanzo, specchio di un mondo che in esse si illude di raffigurare la propria conservazione.

All’arrivo a Donnafugata il primo segno di una conservazione in grado di prevalere sui cambiamenti politici intervenuti è dato proprio dai quadri («tutto era in perfetto ordine: i quadri nelle loro cornici pesanti erano spolverati»).[18] Immutabile nel tempo ed espressione di una dimensione incorruttibile è, all’interno del palazzo donnafugasco, anche la fontana di Anfitrite, cui è dedicato uno degli esempi più importanti di ekphrasis nel Gattopardo, culminante nel rammarico del Principe per quella sensualità lì così bene rappresentata ma a lui ormai quasi estranea («Don Fabrizio si fermò, guardò, ricordò, rimpianse»):[19] solo apparentemente infatti l’inalterabilità delle opere d’arte riesce a dare sponda al corteggiamento dell’immobilismo declinato da Lampedusa e dai suoi aristocratici personaggi, proprio a Donnafugata destinati a confrontarsi con la rivoluzione sociale incarnata da Don Calogero e da sua figlia Angelica. Nel salone dove i principi attendono l’arrivo dei due, i quadri sembrano significativamente occupati da immagini inattuali («gli smisurati ritratti equestri dei Salina trapassati non erano che delle immagini imponenti e vaghe come il loro ricordo»),[20] simboli mortiferi ed in contrasto con la vitalità e la freschezza della giovane Sedara.

Se nel romanzo le rappresentazioni pittoriche intercettano di continuo le dinamiche narrative portanti, non è senza significato che proprio Angelica si trovi ad essere riassorbita in un quadro nelle fantasticherie amorose di Tancredi, che scrive allo zione di averla ravvisata dietro le fattezze della Madonna di Andrea del Sarto («nello studio di Ferdinando II ho visto una Madonna di Andrea del Sarto che mi ha ricordato la signorina Sedara»)[21] già menzionata dal narratore nella descrizione della visita fatta da Don Fabrizio al re borbone: lì il prezioso dipinto era stato posto in contrapposizione con i mediocri ritratti del re e della Regina «inacidita», in confronto ai quali era chiaramente cosa altra, così come cosa altra rispetto a quei sovrani del vecchio ordine è Angelica, figlia adorata dell’«uomo nuovo» Don Calogero.

Per parte sua, anche Don Calogero (quello stesso Don Calogero che in occasione del Plebiscito riceve indicativamente il Principe all’ombra di un’oleografia di Garibaldi e di una di Vittorio Emanuele)[22] viene, nel momento di svolta della propria ascesa sociale, ricondotto puntualmente all’interno della dimensione pittorica, passaggio a quanto pare quasi obbligato di ogni tratto narrativo di rilievo: il Principe si accinge ad incontrare Sedara per chiedergli a nome di Tancredi la mano di sua figlia, quando «davanti alla memoria gli passò l’immagine di uno dei quadri storici francesi nei quali marescialli e generali austriaci, carichi di pennacchi e gale, sfilano, arrendendosi dinanzi a un ironico Napoleone; loro sono più eleganti, è indubbio, ma il vincitore è l’omiciattolo in cappottino grigio; e così, oltraggiato da questi inopportuni ricordi di Mantova e di Ulma, fu invece un Gattopardo irritato ad entrare nello studio».[23]

Don Calogero-Napoleone è infatti il trionfatore di quell’incontro e non lo «sciacalletto timoroso» che poco prima il Gattopardo aveva pensato di poter facilmente schiacciare con la propria superiorità; metafore animali e pittoriche si intrecciano ancora una volta, ma a raccontare la verità delle cose è appunto l’immagine del quadro d’epoca che, meglio di ogni altra descrizione, riesce a rendere lo spirito della situazione. A contratto matrimoniale concluso, è del resto di nuovo una similitudine iconografica (nella quale ad essere rappresentato in effigie è ancora il mondo animale) a dare il senso del patto stipulato e dell’abbraccio seguitone tra i due,[24] mentre l’associazione tra le rondini e le proprietà terriere, già occorsa a proposito dei quadri dei feudi presenti nello studio del Principe, torna a riproporsi nella definizione dei termini economici dell’accordo nuziale e della dissestata situazione patrimoniale di Tancredi («“[…] tutto, tutto è andato via; voi lo sapete, don Calogero”. Don Calogero infatti lo sapeva: era stata la più grande migrazione di rondini della quale si avesse ricordo»).[25] Nell’impari confronto economico tra la fortuna di Sedara e la rovina del casato Falconeri a ristabilire un minimo di valore all’ultimo possedimento di Tancredi sono i pregi artistici dei decori («È una bella villa: la scala è disegnata da Marvuglia, i salotti erano stati decorati dal Serenario»),[26] segno di una distinzione sociale e culturale alla quale il futuro suocero resta grottescamente estraneo nel prometterne un pronto restauro con tanto di storpiatura dei nomi degli artisti («“[…] E con questo [denaro] si possono rifare tutte le scale di Marruggia e tutti i soffitti di Sorcionero che esistono al mondo. Angelica dev’essere alloggiata bene”. La volgarità ignorante gli sprizzava da ogni poro»).[27]

Se a villa Salina a far da padroni della scena ‘pittorica’ del romanzo sono soprattutto gli affreschi, nel palazzo di Donnafugata ad essere chiamati in causa sono in modo particolare i quadri, che affollano saloni e corridoi e la cui presenza contrappunta la narrazione in più di una circostanza: in occasione dell’inaspettato e per tutti emozionante ritorno di Tancredi, il vento sembra quasi animarli, facendo «fremere le tele dei ritratti»,[28] e, poco dopo, lo schietto linguaggio del suo amico Cavriaghi provoca il divertimento di tutti proprio perché in netto contrasto con l’«arcigno salone con la sua doppia fila di antenati corazzati e infiocchettati»;[29] le fughe di Tancredi e Angelica per le stanze abbandonate del palazzo sono sorvegliate «soltanto [da] un ritratto a pastello sfumato via e che l’inesperienza del pittore aveva creato senza sguardo»,[30] in una complicità ‘pittorica’ nel «ciclone amoroso» della quale partecipa anche un austero ed «enorme quadro posato a terra» di «Arturo Corbera all’assedio di Antiochia», dietro cui Angelica, con «ansia speranzosa», finge di nascondersi e proteggersi dall’assedio erotico di Tancredi:[31] quadri e pitture continuano ad interagire con le dinamiche del racconto e significativamente durante l’inseguimento amoroso anche gli affreschi mostrano «su un soffitto obliterato una pastorella subito consenziente» e, nelle stanze proibite scoperte dai due giovani, una serie di «bassi bizzarri stucchi colorati che l’umidità aveva fortunatamente resi incomprensibili».[32]

Pure l’incontro dell’inviato piemontese Chevalley con il Principe è preceduto da un giro del palazzo al fine di fargli «ammirare la quadreria e la collezione di arazzi»,[33] simbolo di una nobile e antica superiorità del casato dei Salina che, come già avvenuto in occasione della descrizione dello studio del Principe alla villa (con la lunga carrellata dei quadri dei feudi), anche nello studio di Donnafugata, in cui si svolge il colloquio con l’inviato sabaudo, viene nuovamente ribadita all’insegna dell’ekphrasis attraverso una rassegna di miniature familiari poste in bella mostra:

al di sopra della grande poltrona destinata ai visitatori, una costellazione di miniature di famiglia: il padre di Don Fabrizio, il principe Paolo, fosco di carnagione e sensuale di labbra quanto un Saraceno, con la nera uniforme di Corte tagliata a sghembo dal cordone di S. Gennaro; la principessa Carolina, già da vedova, i capelli biondissimi accumulati in una pettinatura a torre ed i severi occhi azzurri; la sorella del Principe, Giulia, la Principessa di Falconeri seduta su una panca in un giardino, con alla destra la macchia amaranto di un piccolo parasole poggiato aperto per terra ed alla sinistra quella gialla di un Tancredi di tre anni che le reca dei fiori di campo (questa miniatura Don Fabrizio se la era cacciata in tasca di nascosto mentre gli uscieri inventariavano il mobilio di villa Falconeri). Poi più sotto, Paolo, il primogenito, in attillati calzoni da cavalcare, in atto di salire su un cavallo focoso dal collo arcuato e dagli occhi sfavillanti; zii e zie varie non meglio identificati, ostentavano gioielloni o indicavano, dolenti, il busto di un caro estinto. Al sommo della costellazione, però, in funzione di stella polare, spiccava una miniatura più grande: Don Fabrizio stesso, poco più che ventenne con la giovanissima sposa che poggiava la testa sulla spalla di lui in atto di completo abbandono amoroso; lei bruna; lui roseo nell’uniforme azzurra e argentea delle Guardie del Corpo del Re sorrideva compiaciuto col volto incorniciato dalle basette biondissime di primo pelo.[34]

Il brano è lungo almeno quanto quello contenente la descrizione dei quadri dei feudi e, come in quel caso, le pitture rappresentano qualcosa che non è più, o comunque destinato a sparire presto; come in quel caso, le immagini delle miniature sono restituite qui dalla narrazione con estrema dovizia di particolari, quasi a dare con essi consistenza di realtà alle figure in effigie, di fatto tuttavia allo stesso tempo ambiguamente respinte verso una dimensione lontana e alternativa al reale dalla nuova sovrapposizione tra dipinti e mondo delle stelle, su cui di fatto si apre e si chiude il passo: ab initio si legge infatti che quella visibile sulla parete è «una costellazione di miniature di famiglia», laddove, alla fine della rassegna, la miniatura del Principe è raffigurata «al sommo della costellazione» e «in funzione di stella polare». Sia le stelle che i quadri raccontano di una verità altra, fuori dal tempo la prima, custode di esso la seconda, la quale tenta una difficile saldatura semantica tra la storia che fluisce e ciò che, nella sua immutabilità, alla storia si sottrae.

In questa dinamica rientrano pure le pitture presenti nel ‘fuori opera’ del romanzo, quella parte quinta relativa al soggiorno di Padre Pirrone a San Cono, in cui si vede far bella mostra, sul calesse che porta il prelato al suo paese natale, una serie di «pitture patriottiche dipinte di fresco sui pannelli del carretto e che culminavano nella retorica raffigurazione di un Garibaldi color di fiamma a braccetto di una Santa Rosalia color di mare»:[35] la storia e la dimensione dell’immutabile (in questo caso quella del sentire popolare) si tengono ancora una volta «a braccetto» (malgrado la «nausea» che quella profanante commistione procura al povero gesuita), raccontando di fatto, meglio di ogni diffusa narrazione, lo spirito profondo di quanto avvenuto. E, sempre nella stessa sezione del romanzo, quadri di santi sono appesi anche alle mura della modesta camera della casa del religioso, puntualmente descritti ognuno nelle proprie specificità, in un’elencazione di per sé priva di rilievo semantico («Sant’Antonio mostrava il Divino Infante, Santa Lucia i propri occhi divelti e San Francesco Saverio arringava turbe di Indiani piumati e discinti»),[36] se la logica di questa presenza non venisse immediatamente rimandata ad una dimensione altra e ‘siderale’, così familiare nell’economia dell’opera: «fuori, nel crepuscolo stellato, il vento zufolava e, a modo suo, era il solo a commemorare».[37]

La valenza semantica di quadri e pitture, discretamente ma diffusamente significativa lungo il corso del romanzo, ha nelle tre parti conclusive la propria ideale summa, visto che le diverse tipologie di rappresentazione iconografica disseminate nelle precedenti parti del testo ricompaiono qui come ad esplicitare il proprio ruolo, ricongiungendo metafore e ribadendo decisamente la propria centralità.

Ad essa viene eloquentemente ricondotto l’inserimento di Angelica nella buona società, chiave di volta del rivolgimento sociale soffertamente consumatosi perché tutto potesse in apparenza restare com’era:

Le lunghe visite al palazzo di Donnafugata avevano insegnato molto ad Angelica, e così quella sera [la sera del suo debutto al ballo di palazzo Ponteleone] ammirò ogni arazzo ma disse che quelli di palazzo Pitti avevano bordure più belle; lodò una Madonna del Dolci ma fece ricordare che quella del Granduca aveva una malinconia meglio espressa; […] essa cominciò già da quella sera ad acquistare la fama di cortese ma inflessibile intenditrice di arte che doveva, abusivamente, accompagnarla in tutta la sua lunga vita.[38]

La competenza artistica, che schiude alla giovane Sedara le porte del mondo dei Gattopardi, è in realtà frutto di una mistificazione, di una recita protratta nel tempo, di una verità alterata, a vario titolo nota costante del romanzo e della quale si erano da subito fatte emblemi le figure degli affreschi di villa Salina ritratte nelle prime pagine del libro. Nel corso del ballo a palazzo Ponteleone proprio le immagini di apertura, descritte nella scena del Rosario, vengono indirettamente rievocate come a chiarirne e insieme ad arricchirne la portata semantica: le bertucce irridenti che in quegli affreschi si contrapponevano alla regalità e alla bellezza degli Dei rappresentati, a propria volta proiezione dell’aristocratica eleganza degli abitanti della villa, sono ora identificate con le ragazze presenti alla festa, espressione e parte stessa di quel mondo, metafore di un degrado della ‘razza’ che quasi non contempla più la bellezza femminile;[39] così come quegli stessi Dei dipinti sul soffitto, presenti tanto a villa Salina quanto a palazzo Ponteleone, si fanno improvvisamente simboli di un mortifero destino che incombe su di loro non meno che sugli inconsapevoli danzatori del ballo («Nel soffitto gli Dei, reclini su scanni dorati, guardavano in giù sorridenti e inesorabili come il cielo d’estate. Si credevano eterni: una bomba fabbricata a Pittsburgh, Penn. doveva nel 1943 provar loro il contrario»).[40] L’inconsapevolezza degli Dei e degli invitati alla festa trasforma dunque tutto in un’involontaria recita (su una «recita» si era del resto aperto il romanzo), che nella sua morsa luttuosa stringe pure Tancredi e Angelica, «attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione», e inutilmente inebriati «dalla reciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire».

Proprio l’idea della morte è al centro dell’ekphrasis forse più nota e rilevante dell’intero romanzo; Don Fabrizio si è appartato nello studio di palazzo Ponteleone per qualche minuto di tregua dalla confusione e dal frastuono della festa:

Si mise a guardare un quadro che gli stava di fronte: era una buona copia della “Morte del Giusto” di Greuze. Il vegliardo stava spirando nel suo letto, fra sbuffi di biancheria pulitissima, circondato dai nipoti afflitti e da nipotine che levavano le braccia verso il soffitto. Le ragazze erano carine, procaci, il disordine delle loro vesti suggeriva più il libertinaggio che il dolore; si capiva subito che erano loro il vero soggetto del quadro. […] Subito dopo chiese a sé stesso se la propria morte sarebbe stata simile a quella: probabilmente sì, a parte che la biancheria sarebbe stata meno impeccabile (lui lo sapeva, le lenzuola degli agonizzanti sono sempre sudice, ci sono le bave, le deiezioni, le macchie di medicine…) e che era da sperare che Concetta, Carolina e le altre sarebbero state più decentemente vestite. Ma, in complesso, lo stesso.[41]

Il quadro racconta esplicitamente del Principe e della sua stessa morte (e indirettamente della sorte della stessa Concetta),[42] anticipando in modo quasi premonitorio il contenuto delle parti restanti del romanzo: le pitture sono dunque chiaramente portatrici di verità, canali privilegiati per accedere ad essa, in modo diretto (come in questo caso), così come talora per allusioni e metafore.

Appena fuori da palazzo Ponteleone la stessa immagine della morte, suggeritagli dalla copia del quadro di Greuze, viene ad essere riproposta dalla visione di un carro che porta un carico di buoi uccisi al macello,[43] circostanza anch’essa preannunciata durante il ballo, allorché il Principe paragona, in una delle tante similitudini tratte dal mondo animale, le donne-bertucce al bestiame che nottetempo è condotto al macello per le vie della città. Le bertucce, affacciatesi da subito nel romanzo attraverso gli affreschi della villa, svelano apertamente in questa parte finale della vicenda narrata come in fondo i loro sberleffi impudenti non fossero altro che una forma di ironica demistificazione delle illusioni di coloro che si credevano eterni, e quindi un implicito presagio di morte: di loro si ricorda non a caso Don Fabrizio morente, che tra le cose care ripensa «ai quadri dei feudi, alle bertucce del parato», gli uni e le altre espressioni pittoriche a diverso titolo mortifere, e ormai consapevolmente catalogate come tali dal Principe («queste tele ricoperte di terre e di succhi d’erba che erano tenute in vita da lui, che fra poco sarebbero piombate, incolpevoli, in un limbo fatto di abbandono e di oblio»).[44]

Il Principe sa che quelle «povere cose» finiranno con lui, e che, per quelli che verranno dopo, esse non avranno lo stesso valore e lo stesso significato; non lo avranno gli arazzi, non lo avranno i quadri dei feudi, non lo avrà la fontana di Anfitrite che un destino tragicamente prosaico travolgerà presto,[45] ed è assai indicativo che questa distruzione imminente di tali testimoni iconografici di un intero modo di essere venga alla fine apertamente ricondotta ad una logica che con le immagini degli affreschi ha sempre a che fare: «[Don Fabrizio] aveva detto che i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina. Aveva avuto torto. L’ultimo era lui. Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto».[46]

La vittoria di Garibaldi (già assimilato al «cornuto» Vulcano ritratto nei soffitti di villa Salina)[47] sul mondo dei Gattopardi viene esemplificata nella perdita di ciò che di quella supremazia e di quella diversità era espressione: in limine mortis, il Principe lo prevede con lucida amarezza, le sue figlie zitelle lo vivranno dolorosamente, a distanza di quasi trent’anni, nella parte ottava del libro. Al centro di essa ci sono appunto delle «cose», simboli ancora una volta in cornice, che proprio per la fine di quel mondo hanno perduto la propria aura.

Il quadro e le reliquie si intitola significativamente il secondo paragrafo di questa sezione conclusiva: di nuovo un quadro e i resti di qualcosa che si credeva sacro e non lo era, non lo è più. Sempre all’ombra della dimensione iconografica, quest’ultima parte del libro racconta del varco tra verità e falsità, finzione e demistificazione, varco che inghiotte le eredi di casa Salina e con loro il senso stesso della vicenda narrata. Le anziane signorine Salina sono costrette a subire una ‘profanazione’ della casa avita ben più traumatizzante del primo arrivo alla villa delle camicie rosse garibaldine, che sessant’anni prima, nella persona di un generale appassionato d’arte, si erano presentate con deferenza per poter ammirare le celebri pitture dei soffitti. Ora sono altri ‘porporati’ a chiedere di essere ammessi alla villa, ma non per ammirare la magnificenza degli affreschi, quanto piuttosto per mettere in dubbio la sacralità di ciò che viene custodito e venerato nella cappella di famiglia quale segno di lustro antico e presente della stessa:

L’attenzione del Cardinale era stata attratta su un’immagine venerata nella cappella e sulle reliquie, sulle decine di reliquie, esposte: circa l’autenticità di esse erano corse le dicerie più inquietanti e si desiderava che la loro genuinità venisse comprovata. […] La riunione si svolgeva nel salone centrale della villa, quello delle bertucce e dei pappagalli.[48]

Ancora una volta le bertucce dipinte sono parte in causa dell’ennesimo sberleffo, a questo punto trionfante su quei pappagalli «con le ali iridate» comparsi da subito nell’immaginario del romanzo nella sequenza della «recita» del Rosario. È appunto ad una recita, ad una mistificazione (significativamente perpetrata per imago), che mette fine il Cardinale, presentatosi alla villa per l’ispezione alla cappella senza il ‘costume di scena’ consueto, sperato dalle signorine Salina;[49] la stessa cappella è del resto frutto di un camuffamento compiuto ai danni di un originario salotto e dei suoi affreschi («dal centro del soffitto venne raschiata via una pittura sconvenientemente mitologica e si addobbò un altare. E tutto era fatto»),[50] con la sostituzione di una ‘favola’ pittorica, quella mitologica, con un’altra non meno fantasiosa. Minuziosa, come in tutti i casi di rilevanza semantica, è nel testo l’ekphrasis che descrive il «quadro veneratissimo dalle signorine» posto sull’altare,[51] «una bella pittura […], molto espressiva» secondo il prelato, «una immagine miracolosa, […] miracolosissima», secondo le vecchie principesse, convinte di veder in essa raffigurata la Madonna della Lettera. Si tratta appunto però solo di una favola, tanto che, già prima del sopralluogo del Cardinale, il suo emissario rimprovera semiseriamente il cappellano per aver «avuto il fegato di celebrare per anni il Santo Sacrificio dinanzi al quadro di quella ragazza […] che ha ricevuto l’appuntamento e aspetta l’innamorato».[52] La sacralità dell’immagine rivela la propria falsità (pur essendo «qualunque cosa rappresenti […] un bel quadro e bisogna tenerlo da conto»),[53] e per indiretta emanazione quella in cui si consuma la vita di un mondo da tempo scomparso: gli unici «tesori» superstiti sono d’altronde indicati nelle cornici che racchiudono le false reliquie («tesori; che bellezza di cornici»),[54] cornici che «coprivano fitte le due parti di parete di fianco all’altare» e all’interno delle quali vi è soltanto la rappresentazione di una menzogna. Il romanzo racconta ancora una volta, come nel caso dei quadri dei feudi a villa Salina e delle miniature di famiglia dello studio di Donnafugata, di pareti tempestate di simboli in cornice, ma di essi resta ora solo l’involucro quale vestigio di un valore reale definitivamente negato al fallace contenuto.

L’ispezione si conclude con la temporanea sconsacrazione della cappella da parte del Cardinale, con la necessaria sostituzione del quadro della presunta Madonna della Lettera («A mio parere l’immagine della Madonna di Pompei occuperà degnamente il posto del quadro che è al di sopra dell’altare, il quale, del resto, potrà unirsi alle belle opere d’arte che ho ammirato attraversando i vostri salotti»),[55] con le cornici ormai vuote poste «in ordine sul tavolo della cappella» e le false reliquie, da esse rimosse, ammucchiate in un cestino di vimini adoperato «per riporvi la roba scartata»,[56] anticipazione (e nuovo esempio di saldatura semantica tra quadri e animali) della scena conclusiva del libro relativa alla carcassa del cane Bendicò, accomunata alle «cose che si scartano» e ridotta ad «un mucchietto di polvere livida» nell’angolo dell’immondizia.

Questo ennesimo tassello della storia per immagini narrata tra le righe del romanzo dice così della fine del casato, della fine di una recita sociale, della fine di un modo di essere rivelatosi un’astrazione. Ma in realtà è questo solo l’aspetto più vistoso di ciò che la parte ottava dell’opera racconta per via iconografica, visto che anche la vicenda privata e intima di Concetta, testimone ultima del sentire dei gattopardi, protagonista vicaria di quest’unica tranche del libro successiva alla morte del Principe (e quindi sua ideale sostituta narrativa), viene ad essere contrappuntata da ripetuti riferimenti ad immagini riprodotte, fruttuosamente eleggibili a metafore del senso profondo di questa conclusione.

È stata una vita a rovescio quella di Concetta, destinata ad un probabile matrimonio con l’amato Tancredi, ma di fatto estromessa da quell’amore a causa dell’irruzione del nuovo ordine rappresentato dalla ricca Angelica e da suo padre: il suo aspetto, i suoi modi e la sua stessa esistenza continuano in questa chiusa a raccontare del rammarico per quello che non era stato, facendo dolorosamente dialogare la verità del presente con la dimensione altra, relativa a ciò che avrebbe potuto essere. Ed è ancora una volta il richiamo ad un quadro a dare la misura di questa sfasatura, in un gioco di specchi e di identità scambiate che non fa che sottolineare ulteriormente il grigiore della vita della vecchia principessa:

Nella persona di lei emergevano ancora i relitti di una passata bellezza […]; questo, insieme agli occhi sdegnosi […] le conferiva un aspetto autoritario e quasi imperiale; a tal punto che un suo nipote, avendo intravisto il ritratto di una zarina illustre in non sapeva più qual libro, la chiamava in privato La Grande Catherine, appellativo sconveniente che, del resto, la totale purezza di vita di Concetta e l’assoluta ignoranza del nipote in fatto di storia russa rendevano, a conti fatti, innocente.[57]

La vita a doppio fondo di Concetta, dolorosamente sospesa tra amarezza e rimpianto, si riflette significativamente anche nella descrizione della sua «camera solitaria» («Era una di quelle stanze […] che hanno due volti: uno, quello mascherato, che mostrano al visitatore ignaro; l’altro, quello nudo, che si rivela soltanto a chi sia al corrente delle cose»),[58] una stanza di cui, oltre al mobilio, viene immancabilmente dato conto delle immagini in cornice:

Sulle pareti ritratti, acquarelli, immagini sacre; tutto pulito, in ordine. […] I ritratti erano quelli di morti non più amati, le fotografie quelle di amici che in vita avevano inferto ferite e che perciò soltanto non erano dimenticati in morte; gli acquarelli mostravano case e luoghi in gran parte venduti, anzi malamente barattati, da nipoti sciuponi; i santi al muro erano come fantasmi che si temono ma cui in fondo non si crede più.[59]

Le pitture (e i loro surrogati fotografici) mostrano ormai chiaramente e senza schermi la fallacia della propria natura e l’aleatorietà di quanto in esse è rappresentato, che tuttavia si fa contraddittoriamente espressione della profonda, dolorosa verità narrata nel Gattopardo. Proprio Concetta, nella sua non-vita, aveva erroneamente considerato quelle immagini non come emblemi degli inganni di un’esistenza che tutto travolge, ma piuttosto come proiezioni credibili di figure e sentimenti reali: inaspettatamente è lo svelamento finale della presunta verità su un battibecco, avuto cinquant’anni prima con l’amato Tancredi e che aveva segnato l’inizio del loro allontanamento, a farla riflettere sul proprio rapporto con quei vecchi ritratti e con i falsi ricordi:

Se le cose erano come Tassoni aveva detto, le lunghe ore passate in saporosa degustazione di odio dinanzi al ritratto del padre, l’aver celato qualsiasi fotografia di Tancredi per non esser costretta a odiare anche lui, erano state delle balordaggini; peggio, delle ingiustizie crudeli […]. Dal fondo atemporale dell’essere un dolore nero salì a macchiarla tutta dinanzi a quella rivelazione della verità. Ma era poi questa la verità? In nessun luogo quanto in Sicilia la verità ha vita breve.[60]

Le immagini avevano in fondo raccontato sin dall’inizio questo doppio registro, in quanto espressione di finzione che pretende di riprodurre la realtà, e allo stesso tempo cifra di verità che si manifesta metaforicamente attraverso la fallacia delle pitture. In questa parte ottava del romanzo le due istanze, poste al centro della storia tramite la vicenda del falso quadro e delle false reliquie, entrano drammaticamente in conflitto e nell’ultimo riferimento iconografico presente nel libro restituiscono laconicamente il senso della parabola semantica segnata per imago all’interno del testo:

Concetta si ritirò nella sua stanza; non provava assolutamente alcuna sensazione: le sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo che già avesse ceduto tutti gli impulsi che poteva dare e che consistesse ormai di pure forme. Il ritratto del padre non era che alcuni centimetri quadrati di tela.[61]

Le forme ormai prive di significato e di valore simbolico rendono vuoto ogni tentativo di recita, di qualsiasi ulteriore consolatoria menzogna messa in scena ad uso pubblico non meno che intimo e privato. Anche di questa finale, amara disillusione sono ancora una volta interpreti animali e pitture, accomunati nello svelamento finale, che modella l’effettivo riconoscimento del povero Bendicò quale «nido di ragnatele e di tarme» sulla presa di coscienza da parte di Concetta di come l’icona paterna non fosse altro che un pezzetto di tela dipinta.

La storia per immagini intarsiata nella tramatura del libro restituisce così pienamente il senso profondo di esso, sottolineando, al di là di plebisciti, rivoluzioni strozzate e vecchi e nuovi re, come all’interno del testo la contesa tra vecchio e nuovo ordine si consumi anche attraverso il passaggio da un mondo che viveva di simboli e riti alla prosaicità di una dimensione che non li riconosce più: le iene sono succedute ai gattopardi, ma il vero mutamento è forse quello che ha sostituito una recita creduta realtà ad una realtà senza fedi e miti: la recita del rosario era finita e un mondo ordinato a prosa aveva, nello spazio della fabula, definitivamente preso il posto di quegli dei dipinti che si credevano felicemente eterni.


1 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, edizione conforme al manoscritto del 1957, Milano, Feltrinelli, 1963, p. 23. A sostegno di questa confusione di piani è da notare come nella scena iniziale anche i verbi di percezione (‘sembrare’, ‘apparire’) contribuiscono a smorzare l’effetto realtà (cfr. I. De Seta, «Una impressione globale nello spazio» e alcune presenze fantastiche nel Gattopardo, «La libellula», II, 2, dicembre 2010, pp. 86-95: http://www.lalibellulaitalianistica.it/blog/wp-content/uploads/2010/12/10.De-seta.pdf.).

2 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., pp. 23-24.

3 Sulla ricorrenza lessicale dell’immagine del Gattopardo all’interno del romanzo cfr. N. La Fauci, ‘Gattopardo’ nel “Gattopardo”, «Lingua e stile», I, 2010, pp. 101-116.

4 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 46.

5 All’opposto di questa passione visiva per le stelle è la passione sensuale di Don Fabrizio per le piante: il giardino della villa da lui curato era infatti «un giardino per ciechi».

6 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., pp. 25-26.

7 Ivi, p. 26.

8 Ivi, p. 29. Sulla presenza di raffigurazioni pittoriche nelle stanze studio rappresentate all’interno del romanzo cfr. I. De Seta, Ironia e dissacrazione attraverso l’ekphrasis nel Gattopardo, «OBLIO», II, 8.

9 Ivi, pp. 42-43.

10 Ivi, p. 43.

11 Ivi, p. 51.

12 Ivi, p. 47.

13 Ivi, p. 55.

14 Ivi, p. 166.

15 Ivi, p. 52. Sulla connessione tra gli ‘effetti di luce’ resi dalla narrazione e le immagini delle cose invecchiate cfr. F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Torino, Einaudi, 1993, pp. 461-462.

16 Ivi, p. 62.

17 Ivi, p. 63.

18 Ivi, p. 69.

19 Ivi, p. 76. Lo stesso Principe viene da canto suo identificato con una figura scultorea, quella dell’Ercole Farnese, nel momento in cui esce dall’acqua di un bagno ristoratore e rinvigorente. Nigro attribuisce uno specifico significato a questo richiamo: «L’Ercole Farnese è il simbolo storico della regalità borbonica, nei suoi fasti mitologici: un ricordo irravvivabile, nel Gattopardo; andato a male, e definitivamente corrottosi» (S.S. Nigro, Il Principe fulvo, Palermo, Sellerio, 2012, p. 90).

20 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 78.

21 Ivi, p. 96.

22 Ivi, p. 107. In proposito De Seta nota: «I dipinti di Garibaldi e Vittorio Emanuele sottolineano la funzione storica del luogo in cui si celebra l’annessione del vicereame borbonico alla monarchia sabauda. Le rappresentazioni artistiche, in questo come in altri casi, amplificano la funzione narrativa del luogo e il messaggio ideologico» (I. De Seta, Ironia e dissacrazione attraverso l’ekphrasis nel Gattopardo, cit., p. 10).

23 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 118.

24 Si legge infatti: «Il nobiluomo si alzò, fece un passo verso don Calogero attonito, lo sollevò dalla poltrona, se lo strinse al petto; le gambe corte del Sindaco rimasero sospese in aria. In quella stanza della remota provincia siciliana venne a raffigurarsi una stampa giapponese nella quale un moscone peloso pendesse da un enorme iris violaceo» (ivi, p. 121).

25 Ivi, p. 123.

26 Ibidem.

27 Ivi, p. 124.

28 Ivi, p. 137.

29 Ivi, p. 139.

30 Ivi, p. 145.

31 Ivi, p. 146

32 Ivi, p. 147.

33 Ivi, p. 156.

34 Ivi, pp. 158-159.

35 Ivi, p. 172.

36 Ivi, pp. 173-174.

37 Ivi, p. 174.

38 Ivi, p. 197.

39 Quella delle giovani aristocratiche presenti alla festa e riunite in uno dei saloni è per il Principe una vera e propria «visione zoologica»: «gli sembrava di essere il guardiano di un giardino zoologico posto a sorvegliare un centinaio di scimmiette: si aspettava di vederle a un tratto arrampicarsi sui lampadari e da lì, sospese per le code, dondolarsi esibendo i deretani e lanciando gusci di nocciola, stridori e digrignamenti sui pacifici visitatori» (ivi, p. 198). Insistito nel passo il ricorso a metafore animali per descrivere le giovani, «bertucce crinolinate», ma anche «ranocchie» gracidanti in uno stagno con pochi «cigni».

40 Ivi, p. 200.

41 Ivi, pp. 202-203.

42 Nigro mette in evidenza come il vero titolo del quadro di Greuze descritto nel Gattopardo sia in realtà Il figlio punito, e come dalla labile trama di esso, restituita dal romanzo, risulti significativamente omessa la figura di un giovane che sulla destra del dipinto, davanti al padre morto, si dispera per aver capito troppo tardi i propri errori: nell’intitolarlo arbitrariamente Morte del Giusto, Don Fabrizio volge il pensiero a se stesso, e Lampedusa intitola conseguentemente in modo speculare la parte settima del romanzo, La morte del Principe, per recuperare poi l’immagine del fils puni nella parte ottava dedicata a Concetta, che comprende troppo tardi i propri errori e le proprie colpe non imputabili al padre (cfr. S.S. Nigro, Il Principe fulvo, cit., pp. 75 e ss e 109-110).

43 Cfr. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 211.

44 Ivi, p. 220.

45 Cfr. ivi, p. 221.

46 Ibidem

47 Sempre nell’ambito della trama mitologica suggerita dagli affreschi, su quel «cornuto» Vulcano il Principe si prende idealmente la rivalsa nell’accogliere in punto di morte la sua Venere a lungo bramata, che gli si fa incontro «pronta ad essere posseduta» (su questo punto cfr. anche S.S. Nigro, Il Principe fulvo, cit., pp. 94-95).

48 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 230.

49 Le signorine infatti «credevano […] di poter per mezz’ora vedere aggirarsi in casa loro una specie di sontuoso volatile rosso e di poter ammirare i toni vari ed armonizzati delle sue diverse porpore e la marezzatura delle pesantissime sete. Le poverette erano destinate a rimaner deluse»: l’alto prelato si presenta infatti alla villa con un’austera tonaca nera segnata appena da bottoncini purpurei (G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 244).

50 Ivi, p. 233.

51 Cfr. ibidem.

52 Ivi, p. 235.

53 Ivi, p. 234.

54 Ivi, p. 235.

55 Ivi, p. 245.

56 Ivi, p. 246.

57 Ivi, p. 231.

58 Ivi, p. 235.

59 Ivi, p. 236.

60 Ivi, pp. 242-243.

61 Ivi, p. 246.