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L’epigrafe sciasciana, tratta dall’Ordine delle somiglianze, con cui nel ’76 Vincenzo Consolo apre il Sorriso dell’ignoto marinaio si rivela la spia di un dialogo intertestuale tra i due scrittori siciliani che ruota intorno all’isola e alla pittura di Antonello e che si arricchisce nel tempo di echi e richiami, concentrati soprattutto nell’articolo di Sciascia sul fortunato libro di Consolo e, per mano di quest’ultimo, nella Nota dell’autore, vent’anni dopo, stesa nel ’96 per la nuova edizione del proprio celebre romanzo presso Mondadori. Sullo sfondo di questi testi si staglia l’immagine della Sicilia offesa, e quindi l’impegno e l’amore per l’arte, la sofferenza dei contadini (e dei personaggi ritratti da Antonello) e l’indifferenza dei Gattopardi, con Sciascia e Consolo che nel loro colloquio a distanza si scambiano ruoli e maschere all’ombra del personaggio del Barone di Mandralisca, il fine intellettuale protagonista del Sorriso, che da appassionato collezionista d’arte si lascia alla fine prendere dalle urgenze sociali della sua terra.

Sciascia’s epigraph, taken from Ordine delle somiglianze with which, in 1976, Vincenzo Consolo started Sorriso dell’ignoto marinaio proves to be the sign of an intertextual dialogue between the two Sicilian writers. This dialogue about the island and Antonello’s painting, with time, was continually enriched with echoes and calls concentrated above all in Sciascia’s article about Consolo’s successful book and in Nota dell’autore vent’anni dopo written by Consolo himself in 1996 for the new reprint of his famous novel edited by Mondadori. The background of these texts reflects the image of an offended Sicily, and therefore the commitment and love for art, the suffering of the farmers (and of the characters painted by Antonello), the apathy of the Gattopardi. In the meanwhile Consolo and Sciascia in their remote dialogue exchange their roles and masks in the shadow of a character, the baron of Mandralisca, the refined  intellectual main character of Sorriso, who is a keen art collector but at the end gets involved in the urgent social needs of his native land.

 

In un articolo del 1996, ora raccolto in Di qua dal faro e dedicato e intitolato alle Epigrafi (a quelle di Leonardo Sciascia in particolare), Vincenzo Consolo si sofferma sul valore semantico di queste scritture prese in prestito da altri e poste alle soglie dei testi. Contrariamente allo scarso uso che ne fa Calvino, autore spesso presente nell’immaginario letterario consoliano, le epigrafi compaiono invece di frequente ad apertura dei libri sciasciani e, nell’articolo in questione, si sottolinea come questo abbia in qualche modo a che fare con la ‘sicilitudine’. Consolo parla di Sciascia, ma tra le righe lascia trasparire a tratti anche l’ombra del se stesso che a distanza di vent’anni, proprio in quel 1996, riattraversava e riconsiderava per la nuova pubblicazione mondadoriana Il sorriso dell’ignoto marinaio. Rispetto all’affabulatore Calvino,

Sciascia, dunque, le epigrafi, la Sicilia, la sfiducia nella narrazione e nella storia (palcoscenico di «menzogna e sconfitta») e, sullo sfondo, il ‘ritorno’ di Consolo sul suo romanzo più celebre, segnato dalla forte impronta dell’epigrafe sciasciana posta in apertura a mo’ di implicita dedica.[2] Sembra anzi che nel riferirsi alle epigrafi dell’amico Leonardo, Consolo abbia in mente la propria, di cui indirettamente mette in risalto il ruolo chiave nella lettura del testo:

Sulla scorta di questo suggerimento d’autore, alla luce dell’Ordine delle somiglianze, il celebre saggio sciasciano della seconda metà degli anni Sessanta citato in esergo al Sorriso, è opportuno porre pertanto anche il romanzo consoliano, alla ricerca della cifra profonda del debito del testo con quell’altro testo e con quell’altro scrittore, pure in questo caso senza dubbio «scelto per ammirazione e immedesimazione».

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The new reading of Lampedusa’s novel here proposed follows the many references to the images that characterize the work. Canvas and frescos display the double dimension of the text: the realistic representation of events and characters, and the display of the fictitious nature of such representation. From the very beginning of the text, the images return this twofold dimension, as they express both a fiction which claims to reproduce reality and a truth which the images’ fallacy allow metaphorically to appear. This per imago story interwoven in the novel fully conveys its deep meaning; it underlines how, further than general approvals, strangled revolutions, and new and old kings, in the text, the dispute between old and new implies also the passage from a world of symbols and rites to a dimension which does not recognized them any longer.

Al di là del celebre attacco con funzione di mortifero paradigma, il quale ipoteca semanticamente l’intera opera («Nunc et in hora mortis nostrae. Amen»), l’ouverture del Gattopardo riserva al proprio interno pure altre cifre in grado di porsi a guida, magari più discreta, nell’attraversamento del testo, quali fili alternativi delle trame lampedusiane che concorrono a vario titolo ad arricchire la densità metaforica della narrazione.

Non meno indicativo della formula d’esordio è infatti l’intero paragrafo di apertura del romanzo, immediatamente successivo alla chiusa in latino della preghiera: in esso compare da subito il motivo della «recita» («La recita quotidiana del Rosario era finita»), ovvero di una riproduzione all’insegna della finzione, di una ripetizione che aspira a rivestirsi di senso e di verità, metafora essa stessa del doppio fondo del romanzo (affresco di passato e immagine camuffata del presente, elegia della conservazione e lucida testimonianza della inesorabile «sostituzione di ceti»).

Questa doppia dimensione sottesa alla lettera del testo si conferma d’altronde ulteriormente e pienamente quale elemento centrale nell’economia di esso già in quello stesso paragrafo iniziale, allorché viene descritta l’atmosfera in cui si era consumata l’orazione giornaliera:

La «recita» condiziona la realtà delle cose, le fa diventare altre, finte; e la logica di questa ‘verità’ testuale si fa ancora più intrigante se si considera che a subire la temporanea mistificazione sono delle figure riprodotte, quelle dei «pappagalli» sul parato (che appaiono «intimiditi», malgrado la loro magnificenza iridata) e della «Maddalena» tra le due finestre (la «biondona» che si trasforma in «penitente»): a propria volta, quindi, rappresentazioni iconiche, e in quanto tali tese a sostituire e insieme ad evocare ciò che viene in esse ritratto. Finzione e verità convivono accanto alla dimensione simbolica che nelle due immagini coniuga d’altronde contrapposizioni fondanti del romanzo, quali la vitalità e il ripiegamento, la sensualità e la rinunzia. E se, attraverso l’affresco sulla parete, l’immagine della bionda Maddalena introduce, dopo quello della morte (e insieme alla progressiva affermazione della forte componente metaforica del testo), un altro dei motivi dominanti del libro, e cioè quello dell’eros, la descrizione dei pappagalli di seta, che anticipa l’insistita presenza degli animali nelle pagine del Gattopardo, ricollega idealmente anche questo bestiario alla ricorrenza, nel romanzo altrettanto insistita, di immagini (per lo più pittoriche) che si impongono come elementi significanti costantemente interagenti con la narrazione.

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