Maggie Gyllenhaal, The Lost Daughter

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La copertina del libro di Elena Ferrante, edizioni e/o

The Lost Daughter di Maggie Gyllenhaal, nelle sale dal prossimo mese di dicembre, si è aggiudicato il premio per la migliore sceneggiatura in occasione della 78ª Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Risultato prevedibile, data la nobile origine letteraria che vede nuovamente Elena Ferrante punto di riferimento per un originale progetto cinematografico, dopo il successo de L’amore molesto (di M. Martone, 1991), I giorni dell’abbandono (di R. Faenza, 2003) e la lunga scia della serie L’amica geniale (di S. Costanzo, 2018-). La scrittrice, protagonista di una vera e propria Ferrante fever,[1] è stata insignita per altro, pochi giorni dopo la conclusione della Mostra, di due importanti riconoscimenti internazionali:[2] il premio Belle van Zuylen dell’International Literature Festival in Olanda e il Sunday Times Award for Literary Excellence nel Regno Unito il successivo.

La figlia oscura, romanzo pubblicato dalla Ferrante nel 2006, da cui il film è tratto, è un avvincente viaggio introspettivo nell’universo genitori-figli. Leda, docente universitaria quarantottenne dal carattere spigoloso e diffidente, sceglie di andare in vacanza in Grecia, celando dietro il rigore intellettuale della professione un oscuro segreto. L’incontro con un frastornante clan di napoletani e le matriarche Rosaria e Nina, che ne assicurano la debita prosecuzione, costringe Leda a ripercorrere le fasi della sua storia di figlia, moglie e madre. Le due giovani donne napoletane incarnano infatti due modelli di maternità distinti: l’una (Rosaria) vive la gravidanza con entusiasmo e ingenuità; l’altra (Nina) attraversa il travagliato passaggio tra la fase prenatale e l’infanzia. È verso quest’ultima che Leda proietta vissuto, difficoltà, contraddizioni.

Elena Ferrante inventa un gioco di continui rimandi fra passato e presente, presente e futuro, costruendo due personaggi (Leda e Nina) dalla specularità irreversibile. Il ponte col passato consente di definire la postura della Leda venticinquenne: moglie di un uomo devoto e assente al contempo, madre di Bianca e Marta (rispettivamente di 5 e 3 anni), nonché promettente ricercatrice universitaria. Leda vive nella costante lacerazione tra l’ambizione professionale e il ruolo vincolante di genitore. Un modello sociale imperfetto, dunque, in cui Elena Ferrante inserisce una crepa divisoria tra convenzione e realtà, distruggendo l’equilibrio psicologico in bilico fra responsabilità esterna e dimensione femminile. Il quotidiano di Leda è scandito dal ritmo alternato di accudimento ed insofferenza, armonia e tensione. Sguardi di tenerezze e complicità madre-figlie si mescolano al graduale assopirsi della carica erotica, alla negazione del desiderio:

Un corpo di una donna fa mille cose diverse, fatica, corre, studia, fantastica, inventa, si sfianca e intanto i seni si fanno grossi, le labbra del sesso si gonfiano, la carne pulsa di una vita rotonda che è tua, la tua vita, e però spinge altrove […] così a venticinque anni ogni altro gioco per me era finito (E. Ferrante, La figlia oscura, Roma, e/o, 2006, p. 35).

Nelle parole di Leda viene condensata tutta la complessità della femminilità più matura, che stride con la giovane età della protagonista, e manifesta il costante dissidio tra l’io ‘leggero’ e il dovere di tutela dei figli. La maternità «si distrae da te pur abitandoti nella pancia, gioiosa e pesante, goduta come un impulso vorace e tuttavia repellente come l’innesto di un insetto velenoso nella tua vena» (ivi, p. 35); con la maturità, il mancato adempimento del dovere genitoriale ricompare sotto forma di «una grande mosca dalle ali membranose» (ivi, p. 12), repentinamente scrollata via dalla finestra. Ferrante utilizza animali e oggetti, animati e inanimati, per suggerire una simbologia che il film ripropone sul grande schermo con la forza evocativa unica delle immagini.

La locandina del film The Lost Daughter di M. Gyllenhaal

Gyllenhaal sposa a pieno l’intensità della scrittura dell’autrice, tentando di riprodurne ferocia e delicatezza; la scelta drammaturgica e registica si orienta verso la sostituzione della narrazione di Leda in prima persona con un racconto a più voci, in cui il flusso di coscienza e le parole della protagonista diventano ‘quadri visivi’, riuscendo a produrre lo stesso effetto emotivo del libro. I silenzi, i primi piani e le inquadrature svolgono un ruolo importantissimo nella costruzione del racconto retrospettivo di The Lost Daughter. Agli spazi chiusi è associata la colpa, il dolore, la vergogna, agli spazi aperti è affidato invece il ruolo di viatico verso la libertà e verso l’espiazione dell’egoismo di Leda.

La scena della spiaggia, ad esempio, in cui avviene l’incontro con la madre-gemella, dà sommessamente avvio ad un secondo scenario di definizione identitaria e comportamentale. Nina, donna giovane e bella, madre di Elena (7 anni), è portavoce di un’ideale di sensualità e di erotismo consumato dalla fatica di una maternità subita, che impedisce sviluppo e autoaffermazione. L’incrocio di sguardi, la condivisione tacita del disagio, genera tra le due donne un allineamento astrale, un’attrazione silente, dal sapore quasi sessuale. Perfetta la resa sul grande schermo da parte del premio Oscar Olivia Colman e dell’attrice statunitense Dakota Johnson, rispettivamente nel ruolo di Leda e di Nina, acute interpreti della conflittualità femminile in un tempo fluido e sfumato.

Così come la giovane Leda e le figlie, la piccola Elena e la madre Nina sono un’entità primigenia, indivisibile, composta da due corpi in stato di reciproca dipendenza. La visceralità viene improvvisamente violata dalla scomparsa della bambina e della sua bambola per un breve intervallo di tempo. L’allontanamento di Elena dal ventre materno lussuriosamente adagiato sulla spiaggia rappresenta l’atto di fuga e di emancipazione dallo stato di passiva assuefazione e incompletezza, nell’urgenza dell’autonoma realizzazione. Così il vincolo è sciolto, e ad esso sopravvive solo la bambola, eredità di un accudimento autentico e simbolo di discendenze matrilineari:

Cos’è una bambola per una bambina. Ne avevo avuta una con dei bei capelli a boccoli, me ne occupavo molto, non l’avevo mai persa. Mina, mammina […]. Giocare con Mammuccia. Mia madre si era sempre concessa pochissimo ai giochi che cercavo di fare col suo corpo, non le piaceva fare la bambola (ivi, p. 45).

Il giocattolo ‘animato’ di Elena è eletto da Leda a erede di Mina (che Leda da piccola si divertiva a vestire), metafora della dimensione negata del gioco e dei sensi. Il ‘rapimento’ della bambola è, di conseguenza, atto irrinunciabile, come la separazione e il ritorno dalle figlie. Alle sue bambine Leda taglia la buccia dell’arancia con l’attenzione maniacale e asfittica con cui lo faceva da giovane, descrivendo un moto ‘serpentino’, lento e alienato, interrotto dall’incostanza prima, dalla nostalgia e dal ricordo dopo.

Il senso di vuoto attraversa la Leda adulta, come la disperazione attraversava l’Elena bambina nella perdita della preziosa bambola, custode della reciproca passione madre-figlia. Un clima di disgregazione crescente, di smembramento di legami vitali culmina nella confessione del furto della bambola, causato da un egoismo irresponsabile e fuori controllo, e nella morte spirituale della protagonista («Sono morta, ma sto bene») (ivi, p. 141).

La Ferrante abilmente testimoniata dall’opera di Maggie Gyllenhaal sviluppa una profonda anamnesi familiare lungo la linea del tempo, sottolineandone ciclicità ricorrenti e sostituendo i giudizi morali con una lucida analisi delle imperfezioni e delle debolezze umane. La regista americana riesce, con la sua sceneggiatura premiata a Venezia, ad allineare in 121 minuti di pellicola, il passato e il presente di Leda (di origini inglesi nel film e napoletane nel libro), laddove la complessità psicologica del racconto, i continui rimandi alla giovinezza e all’infanzia delle figlie, le suggestioni della vacanza trascorsa in Grecia, rischiano di annodare i diversi fili della trama. La scrittura intrecciata e complessa della Ferrante provoca un effetto di dispersione, risolto nel film con un montaggio, semplice ma funzionale, capace di separare chiaramente i due livelli temporali. Per tale ragione la sfida lanciata allo spettatore non si rintraccia nella difficoltà di dare un ordine alle sequenze, bensì nella gestione delle emozioni conflittuali che ne derivano.

 


1 Si veda in proposito l’omonimo documentario di Giacomo Durzi, scritto insieme a Laura Buffoni, e disponibile adesso su rai play (<https://www.raiplay.it/programmi/ferrantefever> [accessed 10.09.2021]).