Avaro di parole e di gesti, la sua intensa vita interiore egli non rivela nella «confessione» spesso frenetica e tediosa, ma piuttosto in un cordiale silenzio: e la fisica malinconia propria al siciliano in questo silenzio addolcisce e anima di nitide immagini. […] Crepuscolare, riferendoci ad un tono più che a un contenuto, vorremmo dire la deformazione delle sue figure, soprattutto di quelle femminili. Irregolarità e asimmetrie creano nei volti non sai che assorta malinconia: come una dolcissima attesa, un musicale rapimento.
L. Sciascia, “Male di vivere” nella scultura di Greco (1951)
Con una prosa insolitamente contorta, nel 1951 Leonardo Sciascia abbozza un ritratto dello scultore catanese Emilio Greco. Sul volto dell’artista, così contrastato dalla luce e dal lutto, quasi ricalcato sul tema siciliano – e in particolare brancatiano – dell’apprensione e dell’ansietà, lo scrittore marca due tratti precisi: la malinconia e il silenzio di cui egli stesso dirà in un celebre passo del racconto Il quarantotto. Caratteristiche proprie dei siciliani che non si agitano, che si rodono dentro e soffrono, e che l’Emilio Greco di Sciascia condivide con il colonnello Carini, anch’egli, «sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma ad ogni momento pronto all’azione: un uomo che pare non abbia molte speranze, eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori…».
La stessa dilemmatica speranza induce un intellettuale engagé come Sciascia a scegliere l’accidiosa Paresse di Fèlix Vallotton per la copertina dell’edizione Einaudi di Cruciverba. Non si ricorda abbastanza che, accanto allo scrittore impegnato ad agire e rasserenato dai Lumi, ne esiste uno brancatiano, che si arresta malinconicamente davanti al dubbio e accumula quelle polveri barocche a cui Calvino suggeriva di dare fuoco. C’è, quindi, uno Sciascia ascrivibile al ‘barocco’, e in particolare a quello teorizzato da Brancati: il barocco che «uscendo da un ghirigoro per entrare in un altro, corre su una linea retta». E certamente si può inserire l’autore anche in un filone di pensiero e di stile che è appartenuto a Dürer: la melancholia.
Malinconico per eccellenza è lo Sciascia dell’ultimo periodo, che scrive Il cavaliere e la morte: è lo scrittore agonizzante che lotta con una «scheggia nella carne» e – per citare il testo di Starobinski – mette «la malinconia allo specchio», lo stesso immortalato con la mano sulla tempia nello scatto scelto a illustrare il terzo volume delle Opere Bompiani. Con la mano sotto il mento, dettaglio riconosciuto da Panofsky e Saxl quale gesto emblematico dei malinconici, se ne sta Sancio Panza in un disegno di Miguel de Unamuno che Sciascia vide a Salamanca, durante il suo viaggio dell’82: il Sancio autore di un ‘gran rifiuto’, che si dimette dal sospirato governo dell’isola di Baratteria e sprofonda in una caverna parecchio simile alla noche oscura del alma di un mistico. Tarlato dalla malattia e al culmine del disinganno, per il suo penultimo romanzo Sciascia si ispira a Dürer. Una scelta per nulla casuale, secondo Antonio Di Grado, se si considera che con Il Cavaliere, la morte e il diavolo – e con la Melancholia dell’anno dopo – l’artista tedesco ha tradotto «il mito più ossessionante del Rinascimento italiano di formazione platonica: la impossibilità della mente umana a pervenire nelle regioni della verità assoluta, dell’opera finita, dell’idea perfetta» (Salvatore Battaglia). Ne Il cavaliere e la morte la verità ha, infatti, le sembianze di una cittadella inespugnabile: di «quel castello lassù, irraggiungibile» che rimanda al fascio di luce ritratto sul fondale della Melancholia.
Come il Vice del romanzo, anche la figura alata di Dürer starà pensando: «che confusione!». E come in quell’incisione, davanti ai misteri d’Italia e al mistero della vita e della morte, Leonardo Sciascia lascia cadere una bilancia, una clessidra, un solido e un coltello: e con essi, tutti gli strumenti della ragione.