Incisione

di

     

Quando alzava gli occhi dalle carte, e meglio quando appoggiava la testa sull’orlo dell’alto e duro schienale, la vedeva nitida, in ogni particolare, in ogni segno, quasi il suo sguardo acquistasse un che di sottile e puntuto e il disegno rinascesse con la stessa precisione e meticolosità con cui, nell’anno 1513, Albrecht Dürer lo aveva inciso. L’aveva acquistata, molti anni prima, ad un’asta: per quell’improvviso e inconsulto desiderio di possesso che a volte lo assaliva di fronte a un quadro, una stampa, un libro.

L. Sciascia, Il cavaliere e la morte (1988)

Un anno prima di morire, ormai tormentato da un male incurabile che lo pone a una distanza siderale dal ‘contesto’, Leonardo Sciascia si mette davanti alla macchina da scrivere e dà vita al suo penultimo romanzo. A ispirare Il cavaliere e la morte è proprio l’acquaforte di Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo, che lo scrittore tiene nella sua casa della Noce di fronte all’incisione di Goya Murió la verdad.

Questo è in realtà l’indizio di una passione durata una vita, che lo ha portato a interessarsi di una nutrita schiera di incisori – da Bruno Caruso e Domenico Faro a Edo Janich –, a collezionare febbrilmente le loro opere – molte delle quali sono oggi conservate nella pinacoteca della Fondazione Sciascia – e a farsi editore di acqueforti con la collana dei Quaderni della Noce: pubblicazioni che abbinavano le prose di scrittori amici e le illustrazioni di artisti altrettanto amici. Complice di questa passione, risoltasi in un consueto scambio di doni, Gesualdo Bufalino, che allo Sciascia amateur d’estampes (oggi titolo di un prestigioso premio internazionale di grafica) dedica un pezzo confluito nel Fiele ibleo: «Era una passione, la sua, benché assoluta, di benevola latitudine, sì da allargarsi a comprendere parecchi territori limitrofi: film muti, vecchie fotografie, manifesti d’una volta... tutto quanto, insomma, è figura minore e segreta del mondo, alfabeto di segni più che di colori. […] La parzialità in favore degli arcani dell’incisione di contro ai lumi perentori della pittura, come se Sciascia sentisse più familiare, più consanguinea l’opera di chi gremisce di rune il rame, il legno, la pietra e in un minimo spazio cattura gl’infiniti emblemi e prodigi della vita. Un’impresa di meticoloso rigore, pari a quella ch’egli stesso era venuto compiendo nel corso della sua carriera con testi sempre più avari, anche se carichi di tutte le virtualità dell’espressione creativa». Un alfabeto di segni affilati, dunque, un complotto di bianchi e neri che Sciascia sente familiare, essendo l’arte più vicina al nero su bianco della scrittura e ai colpi di spada della sua penna.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Malinconia

di

     

Avaro di parole e di gesti, la sua intensa vita interiore egli non rivela nella «confessione» spesso frenetica e tediosa, ma piuttosto in un cordiale silenzio: e la fisica malinconia propria al siciliano in questo silenzio addolcisce e anima di nitide immagini. […] Crepuscolare, riferendoci ad un tono più che a un contenuto, vorremmo dire la deformazione delle sue figure, soprattutto di quelle femminili. Irregolarità e asimmetrie creano nei volti non sai che assorta malinconia: come una dolcissima attesa, un musicale rapimento.

L. Sciascia, “Male di vivere” nella scultura di Greco (1951)

Con una prosa insolitamente contorta, nel 1951 Leonardo Sciascia abbozza un ritratto dello scultore catanese Emilio Greco. Sul volto dell’artista, così contrastato dalla luce e dal lutto, quasi ricalcato sul tema siciliano – e in particolare brancatiano – dell’apprensione e dell’ansietà, lo scrittore marca due tratti precisi: la malinconia e il silenzio di cui egli stesso dirà in un celebre passo del racconto Il quarantotto. Caratteristiche proprie dei siciliani che non si agitano, che si rodono dentro e soffrono, e che l’Emilio Greco di Sciascia condivide con il colonnello Carini, anch’egli, «sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma ad ogni momento pronto all’azione: un uomo che pare non abbia molte speranze, eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori…».

La stessa dilemmatica speranza induce un intellettuale engagé come Sciascia a scegliere l’accidiosa Paresse di Fèlix Vallotton per la copertina dell’edizione Einaudi di Cruciverba. Non si ricorda abbastanza che, accanto allo scrittore impegnato ad agire e rasserenato dai Lumi, ne esiste uno brancatiano, che si arresta malinconicamente davanti al dubbio e accumula quelle polveri barocche a cui Calvino suggeriva di dare fuoco. C’è, quindi, uno Sciascia ascrivibile al ‘barocco’, e in particolare a quello teorizzato da Brancati: il barocco che «uscendo da un ghirigoro per entrare in un altro, corre su una linea retta». E certamente si può inserire l’autore anche in un filone di pensiero e di stile che è appartenuto a Dürer: la melancholia.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →