Varda describes Jane B. par Agnès V. (1988) as a kaleidoscope film. It is a film about an actress, an icon, a muse, Varda’s friend Jane Birkin. Unlike a conventional film homage to an actress, this collaborative project, an imaginary archive of Birkin, comprises new scenes from imagined films. In among its ways of imaging Birkin, of approaching her, the film returns to the figure of the reclining nude. This is the image Varda chooses as she responds to an actress who is her intimate friend and who is also an incarnation of female beauty. The figure of the reclining nude allows Varda to attend to and reflect on Birkin’s beauty, her erotic appeal, her pliability, her aura of nymphet and femme enfant, and her aging. Referencing Titian’s Venus of Urbino and Goya’s Naked Maja, Varda’s film pursues her career-long interest in relations between painting and cinema, while opening the figure of the reclining nude to feminist reinvention and reimagining.

 

 

Varda describes Jane B. par Agnès V. (1988) as a kaleidoscope film,[1] a film of various stories, over various seasons. It is a film of coloured facets, falling shards, about a varying woman, a starlet, an icon, Varda’s friend Jane Birkin. Unlike a conventional film homage to an actress, rich with clips and tributes, this collaborative project, an imaginary archive of Birkin, comprises new scenes from imagined films, scenarios in which Birkin might have, or would have like to have, starred. It creates a repertory to meet Birkin’s desire and to realise her possibilities. It intersperses imagined scenes with interviews between Varda and Birkin, living and alive, in moments of apparent intimacy and limpidity. In among its ways of imaging Birkin, of approaching her, the film returns to the figure of the reclining nude. This is the image Varda chooses as she responds to an actress who is her intimate friend and who is also a beautiful, notorious, and fragile star. The figure of the reclining nude allows Varda to attend to and reflect on Birkin’s erotic appeal, her pliability, her aura of nymphet and femme enfant, her availability, and provocation.

Jane B. par Agnès V. is a film about apprehending another woman’s impressionability. This is its feminist curiosity. It acquires poignancy as a portrait about mortality and vanity, responding to Birkin’s nearing the age of 40. The film is dedicated to Jane Birkin, with love, with kisses, on her fortieth birthday. Critical to the film is Birkin’s particular vulnerability at this age of her life. Interviewed in Varda par Agnès, Birkin explains her feelings of fear surrounding 40: «cela m’apparaissait surtout le moment où la peur de perdre des êtres chers vous prend [it seemed to me above all the moment when you feel the fear of losing loved ones]».[2] Her fear comes in her sensing of the fragility of life, in her apprehension of her loved ones as damageable, impermanent. It is this vulnerability that draws Varda’s interest. She explains in the same interview:

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Incisione

di

     

Quando alzava gli occhi dalle carte, e meglio quando appoggiava la testa sull’orlo dell’alto e duro schienale, la vedeva nitida, in ogni particolare, in ogni segno, quasi il suo sguardo acquistasse un che di sottile e puntuto e il disegno rinascesse con la stessa precisione e meticolosità con cui, nell’anno 1513, Albrecht Dürer lo aveva inciso. L’aveva acquistata, molti anni prima, ad un’asta: per quell’improvviso e inconsulto desiderio di possesso che a volte lo assaliva di fronte a un quadro, una stampa, un libro.

L. Sciascia, Il cavaliere e la morte (1988)

Un anno prima di morire, ormai tormentato da un male incurabile che lo pone a una distanza siderale dal ‘contesto’, Leonardo Sciascia si mette davanti alla macchina da scrivere e dà vita al suo penultimo romanzo. A ispirare Il cavaliere e la morte è proprio l’acquaforte di Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo, che lo scrittore tiene nella sua casa della Noce di fronte all’incisione di Goya Murió la verdad.

Questo è in realtà l’indizio di una passione durata una vita, che lo ha portato a interessarsi di una nutrita schiera di incisori – da Bruno Caruso e Domenico Faro a Edo Janich –, a collezionare febbrilmente le loro opere – molte delle quali sono oggi conservate nella pinacoteca della Fondazione Sciascia – e a farsi editore di acqueforti con la collana dei Quaderni della Noce: pubblicazioni che abbinavano le prose di scrittori amici e le illustrazioni di artisti altrettanto amici. Complice di questa passione, risoltasi in un consueto scambio di doni, Gesualdo Bufalino, che allo Sciascia amateur d’estampes (oggi titolo di un prestigioso premio internazionale di grafica) dedica un pezzo confluito nel Fiele ibleo: «Era una passione, la sua, benché assoluta, di benevola latitudine, sì da allargarsi a comprendere parecchi territori limitrofi: film muti, vecchie fotografie, manifesti d’una volta... tutto quanto, insomma, è figura minore e segreta del mondo, alfabeto di segni più che di colori. […] La parzialità in favore degli arcani dell’incisione di contro ai lumi perentori della pittura, come se Sciascia sentisse più familiare, più consanguinea l’opera di chi gremisce di rune il rame, il legno, la pietra e in un minimo spazio cattura gl’infiniti emblemi e prodigi della vita. Un’impresa di meticoloso rigore, pari a quella ch’egli stesso era venuto compiendo nel corso della sua carriera con testi sempre più avari, anche se carichi di tutte le virtualità dell’espressione creativa». Un alfabeto di segni affilati, dunque, un complotto di bianchi e neri che Sciascia sente familiare, essendo l’arte più vicina al nero su bianco della scrittura e ai colpi di spada della sua penna.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →