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Come testimonia il saggio ‘Why Look at Animals?’ (1980) e la successiva antologia di saggi dello stesso titolo (2009), l’analisi del dispositivo ottico e delle pratiche materiali correlate al giardino zoologico si rivela di cruciale importanza all’interno dell’opera di John Berger. Considerato un ‘monumento’ alla scomparsa degli animali non-umani dal perimetro del visibile, lo zoo è oggetto di una costruzione intermediale nella quale s’intrecciano il disegno e la scrittura saggistica di John Berger, nonché l’opera pittorica di Gilles Aillaud. Obiettivo dell’articolo è fornire una lettura comparativa di ‘Why Look at Animals?’ e delle Six Drawing Lessons (2014) dell’artista sudafricano William Kentridge – similmente interessato alla decostruzione e ricostruzione del dispositivo ottico dello zoo – per sottolineare come in entrambi i casi gli ‘sguardi sul giardino zoologico’ siano funzionali alla costruzione di una specifica poetica autoriale e, insieme, di un discorso teorico e politico che riprende le fila ed elabora diversamente una lunga tradizione culturale, paradigmaticamente rappresentata dal Rinoceronte (1515) di Albrecht Dürer.

The analysis of the optical dispositif of the zoo, as well as of the related material practices, is an essential step in the interpretation of John Berger’s oeuvre, as it can be appreciated in the reading of his essay ‘Why Look at Animals?’ (1980) and the subsequent, eponymous anthology of essays (2009). The zoo, which Berger considers to be a ‘monument’ to the disappearance of non-human animals, is at the centre of an intermedial work, where John Berger’s drawings and essay writing mix with Gilles Aillaud’s paintings. The goal of this essay is to compare Berger’s ‘Why Look at Animals?’ with the Six Drawing Lessons (2014) by the South African artist William Kentridge, where a similar deconstruction and reconstruction of the optical dispositif of the zoo is enacted. In both cases, zoos are ‘looked at’ within a specific authorial stance, whose theoretical and political implications elaborate on a long cultural tradition, paradigmatically represented by Albrecht Dürer’s Rhinoceros (1515).

 

Se si considera nel suo insieme l’attività intellettuale e politica di John Berger, prodottasi attraverso una vasta molteplicità di campi (letteratura, disegno, pittura, fotografia, televisione e cinema, per ricordare i principali) ed estesa dal secondo dopoguerra al primo decennio del ventunesimo secolo, è comunque possibile rintracciare la presenza di alcuni passaggi salienti, se non anche decisivi.

Uno di questi momenti è la decisione di devolvere metà del premio in denaro corrispondente al Booker Prize, vinto nel 1972 per il romanzo G., alla formazione politica afroamericana delle Black Panthers,[1] utilizzandone l’altra metà per finanziare il progetto creativo, avviato in collaborazione con il fotografo Jean Mohr, che avrebbe portato alla pubblicazione di A Seventh Man (1975), iconotesto dedicato alle storie dei lavoratori migranti dell’epoca, in Europa.

Di poco successiva è un’altra scelta fortemente distintiva nel percorso intellettuale e creativo di John Berger, ossia la decisione di trasferirsi in Alta Savoia, regione montana e rurale della Francia meridionale. Come ha raccontato Anthony Barnett, si è trattato di una scelta dettata da un ‘demone’ nomadico, riconosciuto come tale anche dallo stesso John Berger.[2] Barnett, tuttavia, interpreta questa decisione anche alla luce del rigido classismo dell’Inghilterra dell’epoca, un atteggiamento ideologico incapace di accettare il radicalismo dell’intellettuale di estrazione borghese e, in generale, scarsamente sensibile a tematiche di ampio respiro socio-politico come la condizione dei lavoratori migranti al centro di A Seventh Man.[3]

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Copertine

di

     

Per il disegno di copertina potrei avanzare qualche proposta? (Mi piacerebbe un disegno di Maccari: se credi posso occuparmene).

L. Sciascia, Lettera a Italo Calvino (1957)

Proposte e timidi suggerimenti in merito alle copertine dei suoi libri, e di quelli degli altri, Sciascia ne ha avanzati di continuo, perché lo scrittore – come sostiene Silvano Nigro – «i libri li pensava vestiti». Il ricordo di Ernesto Ferrero in merito alla trattativa editoriale in casa Einaudi per la pubblicazione dei romanzi sciasciani non lascia dubbi in proposito: «Non aveva richieste particolari […] al massimo si parlava dell’illustrazione da mettere in copertina del libro. Anche se le scelte grafiche della casa editrice venivano lodate come pertinenti ed eleganti, i desideri, anzi i suggerimenti di don Leonardo erano sempre graditi, perché significava che lui aveva risolto il problema. Aveva un infallibile gusto figurativo, ispirato dal trepido amore di chi sa come si salvano le cose di valore dalle discariche del Tempo. Si limitava a tirar fuori in silenzio dalla sua cartella prefettizia un’acquaforte, un disegno, la riproduzione di un quadro. I suoi libri erano dei parti rapidi e indolori». E se in questo caso si limita a consegnare alla Einaudi illustrazioni adatte al testo, quando nei primi anni Settanta inizia a collaborare con la casa editrice Sellerio, per la collana «La civiltà perfezionata», da lui ideata e curata per una cinquantina di numeri, Sciascia predispone che il ‘vestito’ di ogni volume sia confezionato su misura e commissiona ad artisti e incisori le immagini di copertina, in qualche caso suggerendo persino il soggetto. Di volta in volta mettono il proprio bulino a servizio dei vari volumi artisti come Bruno Caruso, Edo Janich, Fabrizio Clerici, Mino Maccari, Renato Guttuso, Tono Zancanaro, Emilio Greco, Piero Guccione, Aldo Pecoraino, il cui elenco disegna una costellazione caratterizzata da un preciso gusto estetico, ma suggerisce anche l’idea dell’intenso dialogo fra testo e paratesto che per Sciascia sta alla base della pubblicazione di ogni volume e alla luce del quale si potrebbe riconsiderare tutto il progetto editoriale della collana. In questo contesto basterà citare, a riprova di ciò, un solo titolo sciasciano, L’affaire Moro per il quale Fabrizio Clerici realizza l’incisione L’uomo solo, che apre, «come fosse un primo capitolo figurato» (Lombardo), uno dei libri più discussi dello scrittore siciliano.

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Incisione

di

     

Quando alzava gli occhi dalle carte, e meglio quando appoggiava la testa sull’orlo dell’alto e duro schienale, la vedeva nitida, in ogni particolare, in ogni segno, quasi il suo sguardo acquistasse un che di sottile e puntuto e il disegno rinascesse con la stessa precisione e meticolosità con cui, nell’anno 1513, Albrecht Dürer lo aveva inciso. L’aveva acquistata, molti anni prima, ad un’asta: per quell’improvviso e inconsulto desiderio di possesso che a volte lo assaliva di fronte a un quadro, una stampa, un libro.

L. Sciascia, Il cavaliere e la morte (1988)

Un anno prima di morire, ormai tormentato da un male incurabile che lo pone a una distanza siderale dal ‘contesto’, Leonardo Sciascia si mette davanti alla macchina da scrivere e dà vita al suo penultimo romanzo. A ispirare Il cavaliere e la morte è proprio l’acquaforte di Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo, che lo scrittore tiene nella sua casa della Noce di fronte all’incisione di Goya Murió la verdad.

Questo è in realtà l’indizio di una passione durata una vita, che lo ha portato a interessarsi di una nutrita schiera di incisori – da Bruno Caruso e Domenico Faro a Edo Janich –, a collezionare febbrilmente le loro opere – molte delle quali sono oggi conservate nella pinacoteca della Fondazione Sciascia – e a farsi editore di acqueforti con la collana dei Quaderni della Noce: pubblicazioni che abbinavano le prose di scrittori amici e le illustrazioni di artisti altrettanto amici. Complice di questa passione, risoltasi in un consueto scambio di doni, Gesualdo Bufalino, che allo Sciascia amateur d’estampes (oggi titolo di un prestigioso premio internazionale di grafica) dedica un pezzo confluito nel Fiele ibleo: «Era una passione, la sua, benché assoluta, di benevola latitudine, sì da allargarsi a comprendere parecchi territori limitrofi: film muti, vecchie fotografie, manifesti d’una volta... tutto quanto, insomma, è figura minore e segreta del mondo, alfabeto di segni più che di colori. […] La parzialità in favore degli arcani dell’incisione di contro ai lumi perentori della pittura, come se Sciascia sentisse più familiare, più consanguinea l’opera di chi gremisce di rune il rame, il legno, la pietra e in un minimo spazio cattura gl’infiniti emblemi e prodigi della vita. Un’impresa di meticoloso rigore, pari a quella ch’egli stesso era venuto compiendo nel corso della sua carriera con testi sempre più avari, anche se carichi di tutte le virtualità dell’espressione creativa». Un alfabeto di segni affilati, dunque, un complotto di bianchi e neri che Sciascia sente familiare, essendo l’arte più vicina al nero su bianco della scrittura e ai colpi di spada della sua penna.

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Malinconia

di

     

Avaro di parole e di gesti, la sua intensa vita interiore egli non rivela nella «confessione» spesso frenetica e tediosa, ma piuttosto in un cordiale silenzio: e la fisica malinconia propria al siciliano in questo silenzio addolcisce e anima di nitide immagini. […] Crepuscolare, riferendoci ad un tono più che a un contenuto, vorremmo dire la deformazione delle sue figure, soprattutto di quelle femminili. Irregolarità e asimmetrie creano nei volti non sai che assorta malinconia: come una dolcissima attesa, un musicale rapimento.

L. Sciascia, “Male di vivere” nella scultura di Greco (1951)

Con una prosa insolitamente contorta, nel 1951 Leonardo Sciascia abbozza un ritratto dello scultore catanese Emilio Greco. Sul volto dell’artista, così contrastato dalla luce e dal lutto, quasi ricalcato sul tema siciliano – e in particolare brancatiano – dell’apprensione e dell’ansietà, lo scrittore marca due tratti precisi: la malinconia e il silenzio di cui egli stesso dirà in un celebre passo del racconto Il quarantotto. Caratteristiche proprie dei siciliani che non si agitano, che si rodono dentro e soffrono, e che l’Emilio Greco di Sciascia condivide con il colonnello Carini, anch’egli, «sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma ad ogni momento pronto all’azione: un uomo che pare non abbia molte speranze, eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori…».

La stessa dilemmatica speranza induce un intellettuale engagé come Sciascia a scegliere l’accidiosa Paresse di Fèlix Vallotton per la copertina dell’edizione Einaudi di Cruciverba. Non si ricorda abbastanza che, accanto allo scrittore impegnato ad agire e rasserenato dai Lumi, ne esiste uno brancatiano, che si arresta malinconicamente davanti al dubbio e accumula quelle polveri barocche a cui Calvino suggeriva di dare fuoco. C’è, quindi, uno Sciascia ascrivibile al ‘barocco’, e in particolare a quello teorizzato da Brancati: il barocco che «uscendo da un ghirigoro per entrare in un altro, corre su una linea retta». E certamente si può inserire l’autore anche in un filone di pensiero e di stile che è appartenuto a Dürer: la melancholia.

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