Nel sonno degli schermi. Pornografia, espiazione, glorificazione in Dai cancelli d'acciaio di Gabriele Frasca

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Nell'ultimo romanzo, ad oggi, di Gabriele Frasca, Dai cancelli d'acciaio (2004-2011, essendo uscito in due diverse versioni) gli schermi occupano una posizione preminente a livello diegetico, con implicazioni che toccano alcune questioni decisive della contemporaneità, dalla storia dei media (via McLuhan) a complessi nodi di carattere religioso, psicoanalitico, socio-politico (con echi di San Paolo, Lacan, Beckett). Agli schermi è infatti affidato il destino di passione di due dei protagonisti del romanzo: uno, il sacerdote gesuita Saverio Juvarra, per la violenta cerimonia audiovisiva di espiazione cui è sottoposto; l'altro, il videogiocatore compulsivo Valentino Mormile, perché un videogioco online sarà lo strumento per il compimento del suo drammatico destino. Il presente intervento cercherà di mostrare quale complesso ruolo di sollecitazione sessuale, mortificazione ed espiazione, affermazione del potere e negazione della vita giochino gli schermi tanto nel testo di Frasca quanto nelle illustrazioni del duo di artisti napoletani Cyop & Kaf che arricchiscono il volume.

In Gabriele Frasca's most recent novel, “Dai cancelli d'acciaio” (From the Steel Gates; 2004-2011) cameras, screens and several technically advanced gadgets occupy a prominent position, with implications involving some decisive issues of the contemporary Western world, including but not limited to media history (via McLuhan), religion, psychoanalysis, society and politics, terrorism, literature (with echoes of St. Paul, Lacan, Joyce, Beckett). The dramatic destinies of two of the main characters of the novel (the Jesuit priest Saverio Juvarra; the young compulsive video game player Valentino Mormile) are also entrusted to a perverse media network. This essay underlines the complex role of sexual stimulation, mortification and expiation, affirmation of power and denial of life, played by audio-visual apparatuses and entertaining devices in this novel.

 

 

La morte è forse altro

che questo

entrare in uno schermo

Carlo Bordini, I sogni


 

Se sopra è il Cielo […] e sotto è già l'Inferno, dov'è la terra?

Gabriele Frasca, Dai cancelli d'acciaio

 

1. Sono schermi, solo schermi

 Copertina di G. Frasca, Dai cancelli d’acciaio

Difficile censire il numero esatto di schermi presenti in Dai cancelli d’acciaio, terzo romanzo di Gabriele Frasca, apparso a fascicoli nel 2004 e poi riproposto in volume nel 2011: siamo certo ben oltre le settanta unità, il che, considerata anche la presenza di lettori mp3, smartphone e altro, ne fa un buon candidato al titolo di testo narrativo con la maggior incidenza di congegni audiovisivi nella storia della letteratura italiana. In realtà tutta l’opera multimediale di Frasca, dagli esordi fino al videodramma Nei molti mondi (2014), presenta miriadi di schermi sia reali sia metaforici, entro un raffinato gioco linguistico dove il vocabolo oscilla tra il suo significato tradizionalmente letterario (penso all'accezione medievale, cortese, del termine ‘schermo’, nel senso di diaframma) e quello corrente riferito agli apparecchi che consentono differenti esperienze di fruizione, dalla spettatorialità cinematografica a quella televisiva, fino alle pratiche videoludiche. Tuttavia la compresenza di più media, ciascuno dei quali gioca un ruolo decisivo nel romanzo, anche a livello diegetico, qualifica senz’altro Dai cancelli d’acciaio come l’opera dove Frasca ha affrontato in modo più articolato e volutamente ambiguo il tema dello schermo quale dispositivo di visione e occultamento;[1] non solo, ma la centralità della questione è come ribattuta e sottolineata dalle immagini del duo artistico napoletano Cyop&Kaf, che intervallano con ritmo ternario i quindici capitoli del romanzo, non tanto illustrandolo quanto interpretandone figurativamente alcuni aspetti salienti.

 Cyop&Kaf, Click/Fuck in P. Giovannetti (a cura di), Il compagno d’acciaio, pp. 71-72

Dai cancelli d’acciaio è ambientato alla periferia dell'immaginaria città di Santa Mira durante una sola notte, quella tra il 26 e il 27 settembre dell’anno 2008. Tutto si svolge nell’arco di quattro ore e in un unico ambiente, la megadiscoteca Il Cielo della Luna, ogni fine settimana letteralmente presa d'assalto da migliaia di avventori. In particolare è nella parte sommersa dell'edificio, il misterioso e terribile sottosuolo – la cui struttura ricalca il cono dell’inferno dantesco –[2]che hanno luogo gli eventi narrati nel romanzo: qui, tra le 23.30 del venerdì e le 3.30 del sabato, sotto la direzione della fatale Regina Mori, si tengono terribili ‘giochi’ a base di immagini estreme di sesso e violenza, sorta di riti catartici destinati a un numero molto ristretto di partecipanti. Protagonisti dell'opera sono cinque personaggi-camera, come l’autore stesso li definisce,[3] due dei quali saranno oggetto della presente trattazione: Padre Saverio Juvarra, sacerdote gesuita e segretario del Cardinale Bruno, e Valentino Mormile, giovane videogiocatore affetto da una grave malattia mentale che lo induce a credere di possedere un viso mostruoso. Entrambi saranno coinvolti nei ‘giochi’, sebbene in ruoli specularmente opposti, ed entrambi incontreranno nel corso di quella fatidica notte il proprio destino. Un destino forgiato da un ambiguo regime scopico di matrice medico-estetico-voyeuristica, in un gioco di schermi che il lettore è chiamato a ‘spiare’ dal buon vecchio buco della serratura del medium cartaceo.

Il motivo per cui Padre Juvarra prende parte ai ‘giochi’ del Cielo della Luna viene chiarito da progressivi flashback: deve espiare una grave colpa, quella di aver tradito il Cardinale Bruno, di cui è segretario (e in certa misura allievo), impedendogli di diffondere un testo apocrifo, un vangelo protogiovanneo che avrebbe scosso dalle basi i dogmi della fede cristiana.[4] Disposto in croce, imbracato «come un quarto di bue in un alveare di schermi rilucenti»,[5] il sacerdote è issato al di sopra di un vertiginoso abisso catodico e costretto a guardare – ma anche a essere visto mentre guarda – un estenuante carosello di oscenità, una ballardiana ‘mostra delle atrocità’ vomitata da decine di schermi che trasmettono immagini progressivamente sempre più estreme e violente.

 Cyop&Kaf, Fo(t)to di gruppo in P. Giovannetti (a cura di), Il compagno d’acciaio, pp. 87-88

Quanto a Valentino Mormile, la sua partecipazione ai ‘giochi’ avviene letteralmente dall'altra parte dello schermo: il ragazzo è infatti tra coloro che non solo in modo consenziente, ma anzi desiderandolo con ardore, sono chiamati a figurare nel ruolo di vittime in quegli stessi efferati filmati che padre Juvarra è forzosamente costretto a visionare. Siamo insomma in presenza di due vittime sacrificali, ciascuna delle quali riveste un diverso ruolo e che soprattutto conosceranno un differente destino. Ad accomunarli, però, c'è il fatto che per l'uno come per l'altro lo schermo non funzioni come un elemento transitivo, trasparente, bensì come uno specchio dai riflessi incrociati. Uno specchio attraverso cui vedere in aenigmate, secondo la lezione paolina ripresa da Philip K. Dick e poi riletta via Alain Badiou: Dai cancelli d’acciaio è infatti un testo incomprensibile se non si tiene conto del ruolo che vi gioca il tema gnostico della negazione della corporalità in nome della salvifica triade rivelazione-fede-conoscenza.

 

2. Conversione alle immagini

Dai cancelli d'acciaio presenta almeno tre diverse tipologie di schermi, ciascuna delle quali mostra differenti tipi di immagini in movimento: il telone cinematografico, il monitor, il display. Conviene partire dai primi due. Padre Juvarra è un gesuita nella cui formazione intellettuale e spirituale la storia del cinema, intesa come evoluzione di un dispositivo tecnico-formale dalle complesse ricadute teoriche (filosofiche, teologiche) ed esistenziali, ha giocato un ruolo fondamentale. Frasca sa bene con quanta attenzione gli intellettuali cattolici in generale, e i gesuiti in particolari, abbiano guardato, sin dal Dopoguerra, alla civiltà dello spettacolo: si pensi soltanto alla figura di Amédée Ayfre, alle sue riflessioni sulla teologia dell'immagine nella Francia del secondo Dopoguerra e all'idea, sviluppata a partire dalle teorie dell'amico André Bazin, del realismo cinematografico come strumento di rivelazione del Prossimo.[6]filmologue, padre Polara, non già allo studio degli scialbi, e spesso modesti, film devozionali, bensì alla scoperta del cinema d'avanguardia (là dove maggiormente si concentra la riflessione sul tempo) e dei film di genere (opere che con straordinaria incisività hanno riflettuto sull'esperienza del Male). Tra i nomi che più frequentemente ricorrevano sulla bocca del prelato cinéphile c'erano quelli di due filmmakers statunitensi scandalosi ed esplicitamente omosessuali, ossia Andy Warhol (le cui opere permettono di acquisire la consapevolezza che l'immagine delle cose è anche quella della loro durata) e Stan Brakhage (i cui capolavori degli anni Sessanta consentono di educare lo sguardo a scivolare sotto la superficie del visibile).

 Fotogramma da A. Warhol, Empire (1964) Copertina di S. Brakhage, Metaphors on vision (1963)

Di quelle lontane lezioni di padre Polara, mandate a mente visionando tra grandi sbadigli e repressi appetiti erotici interminabili rulli di pellicole sperimentali, Saverio si ricorderà proprio nella fatidica notte del 26 e 27 settembre, durante i terribili ‘giochi’. I filmati con scene di pornografia e violenza progressivamente sempre più esplicite ed estreme trasmessi a getto continuo da settantadue monitor ultra-tecnologici che il prelato dovrà ingurgitare per ore sono infatti tutti molto brevi, della durata massima di un minuto,[7] e soprattutto realizzati a camera fissa, senza montaggio. Da sottolineare il fatto che a confezionarli provvede un altro allievo della scuola cinefila di padre Polara, forse colui che meglio ne ha compreso la lezione: Toni Giusti, responsabile della macchina visuale del Cielo della Luna e in particolare della messa in scena dei ‘giochi’, in certa misura braccio destro di Regina Mori oltre che antico amore di Saverio. I prodotti audiovisivi che Nello Scopio (nome d'arte di Toni, e soprattutto nome omen) realizza sono dunque, e padre Juvarra ha la cultura cinematografica necessaria per capirlo, concettualmente prossimi a quelli con cui Polara istruiva i suoi giovani discepoli: cinema nel senso di Warhol e di Brakhage, e non in quello della prassi hollywoodiana classica, o delle avanguardie storiche. Non solo, ma anche cinema riconducibile alle teorie di André Bazin sul piano sequenza, sul montage interdit e sul ridotto movimento di camera, sia pure totalmente distorte nelle intenzioni e nei contenuti.

Qual è infatti la caratteristica del montaggio, se non il fatto di offrirsi come un sostituto della coscienza, una forma cioè che, lavorando sulla discontinuità, detta alla mente il ritmo del flusso percettivo? Il montaggio distrae e dunque ostacola la conoscenza di sé, impedisce di far emerge l'intima verità del reale. Viceversa, quei video di allucinata fissità, anche perché fruiti in condizione di drammatica prigionia dell'involucro corporeo, meccanicamente costretto a eccessi di godimento e interminabili frangenti di patimento, impediscono ogni ron ron d’assuefatta evasione (sia pure un'evasione nell'incubo), obbligano cioè la coscienza a mettersi al lavoro. Liberati dal «pregiudizio della logica compositiva», per dirla con il Brakhage di Metaphors on vision,[8] i fotogrammi dei Defective Vows (questo il nome dei video prodotti da Regina Mori) hanno insomma il compito di riattivare, come ha notato Fabrizio Bondi, la tecnica ignaziana di costruzione-dissoluzione delle imagines interiori, magari rivista e corretta alla luce della lezione del Marquis de Sade:[9]

Sottratta la coscienza a un senziente, il privilegio tutto a parole dello sguardo si spegne, e resta un piano sequenza ovattato e intangibile, che se non è animato dagli altri sensi assume la compostezza della roccia, o dell'acqua ferma in provetta. La fissi, lo fai pure per ore, e che vedi? […] Una volta che gli era dato sentire soltanto di sé, potevano proiettare pure gli orrori del mondo, ogni immagine non era che un roteare di pupille sotto le palpebre. Magari persecutorio, finanche bizzarro, ma un sogno. Era insomma ciò che ci metteva di suo, un residuo di anima, a destargli l’orrore, se mai per provare a svegliarlo, non quanto scorreva nel sonno degli schermi. (DCDA, pp. 510-511).

Il che obbliga padre Juvarra a ricordare un'altra preziosa lezione imparata in seminario, visionando pellicole di genere horror e fantascientifico: ovvero che la purificazione della coscienza non passa per la negazione dei sensi, bensì per il loro esaurimento. Il confronto con l'orrore libera dai legami corporei e per questo l'uomo di fede ha il dovere – così ancora padre Polara istruiva i giovani seminaristi, stavolta attraverso l’esempio di Night of the Living Dead di George Romero– di non sottrarglisi, bensì di mantenere vigile la propria coscienza, «perché è con tutti i sensi desti che si prosegue la battaglia contro il Male» (DCDA, p. 505).[10]

 Immagine promozionale di G.A. Romero, Night of the Living Dead (1968)

Ciò che gli schermi del Cielo della Luna mostrano è certamente un'«oscenità metafisica», per riprendere le parole con cui padre Ayfre commentava le riprese di una esecuzione capitale,[11] ma un'oscenità metafisica percepibile solo perché il diaframma cade e il soggetto si trova costretto a destarsi dal «sonno degli schermi» – svegliatevi, dormienti: la linea gnostica San Paolo-Philip K. Dick tanto cara a Frasca – e proiettarsi fuori dalla narcosi del cinema-spettacolo, dentro quel «residuo di anima» che gli resta.

L'immagine in movimento insomma acquista una valenza espiatoria quando lo spettatore, costretto a gettare una buona volta la maschera della propria soggettività, si ritrova facie ad faciem con l'abisso dell’orrore, che è poi il complesso groviglio dei demoni interiori incistati nella coscienza di ciascuno. Il che ci aiuta a comprendere perché padre Juvarra, per far ammenda della propria colpa di tradimento, debba sottoporsi ai ‘giochi’ del Cielo della Luna, a questa burgessiana e kubrickiana ‘cura Ludovico’ consistente in un forzato, intollerabile spoonfeeding audiovisivo,[12] restando per ore in trazione davanti agli schermi fino a «sentirsi, inebriato dall'impotenza, il centro vivo e palpitante del peccato nella mira rabbiosa di un occhio esterrefatto» (DCDA, p. 33).

 Cyop&Kaf, Guardare Obbedire Combattere in P. Giovannetti (a cura di), Il compagno d’acciaio, pp. 73-74

Padre Saverio uscirà da quella dantesca esperienza di passione, da quella trappola erotico-mortifera che agisce per iper-stimolazione sensoriale, distrutto, esaurito nel corpo, svuotato di ogni basso impulso, ma proprio per questo purificato. Il congegno riparatorio architettato da Regina Mori, insomma, funziona: il flusso delle immagini trascorre sul soggetto e, in un fluire eracliteo ad azione purificante, ne monda la coscienza. Ma a quale prezzo, cosa deve accadere a chi si trova al di là dello schermo perché qualcuno, al di qua, possa pagare il fio delle proprie colpe e rifarsi una coscienza?

 

3. Guardarsi, guardarti, morire

Oltre al propedeutico telo da proiezione del cineforum seminariale, e agli implacabili monitor del Cielo della Luna, c'è nel romanzo un terzo tipo di superficie audiovisiva che occupa un ruolo decisivo: il display di un computer. La promessa affidata allo schermo è apparentemente la medesima, consentire un risveglio, un riscatto, una resurrezione. Ma il risultato perseguito dai loschi personaggi che gestiscono il Cielo della Luna è in realtà l’opposto: perché qualcuno possa riscattarsi nella realtà, altri dovranno farlo solo in sogno. Come il cardinale Bruno, maestro di Saverio, anche il giovane Valentino Mormile ha incrociato sul suo cammino padre Juvarra; credeva di aver trovato in lui una guida, un confidente e un punto di riferimento, e invece, nel momento del maggior bisogno, il sacerdote lo ha abbandonato. Anche lui ne è stato, dunque, tradito. Valentino è un ragazzo molto fragile, con grossi problemi relazionali anche perché afflitto da dismorfofobia, una malattia che lo induce a considerare il proprio volto repellente: «Quella faccia era tutta da rifare, e rimodellarla sarebbe stato lo scopo della sua vita» (DCDA, p. 263). La malattia stessa, insomma, è uno schermo, che separa e allontana Valentino dal resto del mondo (nel suo volto perennemente cangiante è da ravvisare una citazione dalla tuta disindividuante di A Scanner Darkly, celebre romanzo dickiano tradotto da Frasca negli anni Novanta).[13] C'è però un videogioco di ultima generazione, basato su una tecnologia che consente un’innovativa esperienza multisensoriale – non solo visiva e uditiva ma persino tattile – che sembra offrirgli la possibilità di ottenere un nuovo sembiante, un volto immacolato, argenteo, angelicato. Inseguendo questa promessa di palingenesi fisiognomica, il ragazzo si chiude nella propria stanzetta, dedicando ogni energia all'esperienza videoludica di Glorified Persons. Per intere settimane, Valentino indossa quell’inter/faccia assolutamente appagante che è il «volto sereno e molle del suo avatar» (DCDA, p. 344) e avanza di livello in livello, secondo un moto di ascensio ad Coelum dalle chiare connotazioni dantesche – stavolta, tuttavia, paradisiache. Un giorno, finalmente, dopo aver superato le mille insidie che il gioco propone, giunge l'atteso premio: lo schermo del monitor non rinvia più un insieme di tratti scomposti e devastati, bensì un viso di abbacinante bellezza, totalmente trasfigurato. Il sogno sembra essersi finalmente realizzato: «non era il suo avatar ad affacciarsi dallo schermo», si legge, «ma proprio lui, bello come non s’era mai visto, e radioso» (DCDA, p. 370), con chiara allusione all’episodio della trasfigurazione cristica. Dotato di quella perfezione somatica che sola è degna di una vera divinità, Valentino è ora un Resettato, o ReSeth, un individuo cioè rinato alla vita: «Sono io, si ripeteva Valentino ogni volta che si metteva di faccia allo schermo. Come dovrei essere, aggiungeva» (DCDA, p. 370).

 Cyop&Kaf, Guardare virgola morire in P. Giovannetti (a cura di), Il compagno d’acciaio, pp. 89-90

Tuttavia la sua vicenda non è conclusa: terminato il percorso di paideusis videoludica, resta un ultimo passaggio, ovvero la liberazione «dal mondo della carne» e la possibilità di assurgere «in gloria al Cielo della Luna» (DCDA, p. 370). Nell'ultima tappa della sua elevazione celeste, vestito d'una tunica d’argento candida e sfolgorante come quella di Cristo apparso ai discepoli, Valentino sceglie di diventare una Persona Prossima alla Gloria, qualcuno cioè che otterrà la suprema fusione con il proprio Re-Seth (che è poi in realtà un altro giovane precedentemente ucciso, e imbalsamato all'uopo) nel momento stesso in cui, sotto l’occhio impassibile della camera, una mano si abbatterà sulla sua gola per squarciarla.[14]per interposti schermi:

[…] si era tutto stretto al suo ReSeth, così come gli era stato detto di fare, senza perdere d'occhio lo schermo. Il cuore sembrava non battergli nemmeno, tanto era tranquillo. L'immagine adesso si stagliava nitida, ed era il primo piano del viso dell'uomo che aveva prima scorto in trazione. Il volto era congestionato, sembrava quasi gli si volesse scollare dagli zigomi, e per questo ci mise un po' di tempo a riconoscerlo. Ma poi fu il suo incarnato olivastro a denunciarlo. Traditore, disse bonariamente fra sé, perché di bene gliene voleva ancora, e quello non era più il tempo del risentimento. Gli occhi dell'uomo sull'impalcatura, un tormento di pupille roteanti, si arrestarono proprio su di lui. Vide che li sgranava. Gli avrebbe sorriso, con la faccia del dolore adagiata su quella del futuro, ma non ne ebbe il tempo (DCDA, p. 455).[15]

Siamo naturalmente al climax dei patimenti di padre Juvarra, che dopo tante ore trascorse nell'«abisso catodico del Cielo della Luna» (DCDA, p. 48) è costretto ad assistere alla più straziante delle scene, la morte per sgozzamento di Valentino: «il mio castigo è guardare, si disse» (DCDA, p. 498).

 Cyop&Kaf, Game, over the rainbow in P. Giovannetti (a cura di), Il compagno d’acciaio, pp. 83-84

E tuttavia è proprio offrendo il proprio corpo in sacrificio che l'anziano cardinale, prima, e il giovane Mormile, poi, hanno consentito al sacerdote di spremere via da sé tutto il Male, e di purificarsi:[16] e proprio in tal senso padre Juvarra è un doppio dell'Iscariota, ovvero il solo cui, secondo il Vangelo di Giuda, è dato conoscere la vera identità celeste di Gesù.[17]

Ma è un Giuda, padre Juvarra, cui manca la dignità trascendentale, la grandezza metafisica del suo omologo scritturale: la purezza del discepolato è qui stravolta dal fatto che lo ‘specchio’ è opaco, inquinato dai meccanismi d'una civiltà dalle molte facies ideologiche e rituali, nient'affatto immateriali e perfette.[18] Io sono vivo, avrebbe ragione di dire don Saverio echeggiando Dick, e voi, Bruno e Valentino, voi siete morti: e questa frase suonerebbe, in ultima istanza, come una solenne beffa. Ben lo sa il già citato regista Nello Scopio, che definisce Saverio «una soubrette del rimorso» (DCDA, p. 124). Di schermo in schermo – quello su cui Juvarra scriveva il testo del vangelo protogiovanneo dettatogli dal suo maestro Bruno, quello su cui il sacerdote incontra gli occhi del discepolo abbandonato Valentino – la generazione dei padri fa piazza pulita sia degli antenati, da cui si libera con il tradimento della lettera, sia dei figli, che mette a morte dietro la fallace promessa di poter un giorno rinascere «in un mondo imperturbato» (DCDA, p. 446). Che è poi, se vogliamo dare del romanzo una lettura socio-politica, il segno di un'epoca che ha liquidato la cultura umanistica del passato destinando al futuro solo false promesse di appagamento. Di schermo in schermo, i padri, più che consapevoli, si purificano tra le lacrime, laddove gli ignari figli si offrono con gioia al sacrificio, Cristi cui tocca in sorte non il puro spirito ma un'oscena parodia della Resurrezione, un pietoso posto da manichini in uno dei tanti circhi del godimento in cui, e di cui, l’ideologia si fa schermo.

 Cyop&Kaf, 1+1=3 in P. Giovannetti (a cura di), Il compagno d’acciaio, pp. 65-66

 

 


1 Sull’ambigua seduzione degli schermi si veda almeno M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Milano, Raffaello Cortina, 2016. Nel momento in cui scrivo sono in corso di stampa gli Atti del XV Convegno annuale dell’associazione Compalit (Verona, 18-20 dicembre 2017) dal titolo Schermi. Rappresentazioni, immagini, transmedialità.

2 Mi sia consentito il rinvio a R. Donati, ‘Incarnazioni dantesche in Dai cancelli d’acciaio di Gabriele Frasca’, in La funzione Dante e i paradigmi della modernità. Atti del XVI Convegno Internazionale della MOD, a cura di P. Bertini Malgarini, N. Merola, C. Verbaro, Pisa, ETS, 2015, pp. 565-572.

3 «E se ancora non vi raccapezzate, per tutto il su e giù che vi tocca fare, sappiate che qui se ne inquadrano cinque, di quasi nomi propri, non di manichini da esporre se mai in un’unica vetrina. [...] Sono cinque singolarità, se volete, tutte comprese nel sei, che a loro volta riprendono, senza comprendere. Se vi sembra più calzante una vecchia immagine, è come se fossero cinque macchine da presa, e tutte della stessa marca, ma ciascuna con il suo obiettivo, l’angolazione, il tipo di pellicola, uno specifico taglio delle luci, le mascherine da inserire, con cui riprendere il set che le contiene, e che non può offrire altro, quanto a scenografia» (G. Frasca, Dai cancelli d'acciaio, Roma, Sossella, 2011, pp. 371-372. D’ora in poi citato con la sigla DCDA). Il sesto personaggio cui si allude è, chiaramente, il lettore stesso.

4 L’intero romanzo si regge sul tema del discepolato affrontato in chiave gnostica, e sull'idea che l'Iscariota sia il discepolo del tradimento divenuto apostolo della tradizione (dove il tradimento è inteso, alla lettera, come necessario strumento di consegna: «Senza il Male non c’è consegna, e senza consegna non si propaga il Bene», DCDA, p. 303). Nel testo scoperto da padre Bruno ogni frase pronunciata da Cristo riceve in risposta la eco immediata e gemella di Didimo Giuda, ossia l'Iscariota, in un dialogo a due voci che reduplica (rovesciandolo però a specchio) il messaggio evangelico. Dopo aver celato per decenni questi sconvolgenti brani apocrifi, l'anziano Cardinale aveva preso la decisione di divulgarli, dettandoli al suo fedele segretario e discepolo Saverio: il quale invece, dietro pressione di alcuni alti prelati, lo tradisce somministrandogli un farmaco che lo fa lentamente ma inesorabilmente sprofondare nella demenza, per poi eliminare ogni traccia del testo incriminato.

5 Cito dalla nota di lancio del romanzo, trascritta in G. Maffei, ‘Io ho letto Dai cancelli d’acciaio’, in P. Giovannetti (a cura di), Il compagno d'acciaio, Roma, Sossella, 2011, p. 41.

6 Il titolo di questo paragrafo è ispirato a un importante saggio di Ayme, intitolato appunto Conversion aux images (1959).

7 La durata dei video è esigua «per impedire alla mente di porvi riparo», se «l'assuefazione a un'unica scena […] può diventare un sipario dietro cui si proiettano gli agili pensieri», fino ad indurre la «messa in piega della coscienza» (DCDA, p. 73).

8 Citato in A. Lonardi, Occhio mio dio. Il New American Cinema, Bologna, Clueb, 2006, p. 91.

9 Cfr. F. Bondi, ‘Una mai sopita brace. Il barocco attraverso i Cancelli’ nel volume collettivo ConFermo Volere. Per Gabriele Frasca, Roma, Sossella, 2017, p. 166. Per il paragone tra la discoteca e il sadiano castello di Durcet cfr. DCDA, pp. 64-65 e 441.

10 Così Padre Polara: «Benedetti figlioli […] non vi sto ripetendo il concetto consueto del male che può compiersi, senza nemmeno scientemente perseguirlo, in uno stato d'inconsapevolezza. Non è in questione insomma la selva oscura in cui Dante ci fa capire che si entra solo se sonnambuli. Io voglio attirare la vostra attenzione su un'altra immagine, quella della morte dell'anima […]. L'anima può morire, sul serio, prim'ancora che lo faccia il corpo, e lasciare un involucro che altri potrà così muovere a suo piacimento. E non c'è da averne paura, ma orrore. L'orrore, vedete, occorre a difendere la vita, la paura invece non fa altro che paralizzarla. È con un susseguirsi di piccole paure che si uccide l’anima, e si diventa automi. […] Noi abbiamo l'obbligo di non sottrarci all'orrore» (DCDA, pp. 504-505).

11 A. Ayfre, Contributi a una teologia dell'immagine, Roma, Edizioni Paoline, 1966, p. 219. Scrive Ayfre, e sono parole che Frasca credo sottoscriverebbe, che «il film non si contenta più di conservarci l'oggetto pietrificato nel suo istante, come l'ambra conserva i corpi intatti degli insetti di un'era passata; esso libera l'arte barocca dalla sua catalessi convulsiva» (Ibidem).

12 Per l'accostamento di Dai cancelli d'acciaio con il libro, e il film, A Clockwork Orange di Burgess/Kubrick cfr. R. Donati, ‘La maschera e il volto radioso nella ruota delle italiche generazioni’, «Il verri», 45, febbraio 2011, poi in P. Giovannetti (a cura di), Il compagno di acciaio, pp. 7-10.

13 Devo questo spunto a Luigi Weber.

14 Cfr. DCDA, pp. 452-455.

15 Il ‘controcampo’ di questa scena, dal punto di vista di Padre Saverio, si legge a p. 541.

16 Come Regina Mori spiega a Don Saverio nelle pagine conclusive del romanzo, di atrocità e orrori «qui da noi» «se ne compiono tanti, e ad altrettanti soltanto si assiste, da stiparne così fortemente il corpo, che l'anima, esaurito il male, se ne libera. Quando si gode in modo bestiale, o si sparge il fotto dinanzi a una scena che al solo pensiero dovrebbe inorridirci, non possiamo raccontarci più la frottola della nostra innata bontà. Assumiamo piuttosto il male che è in noi, e lo spremiamo una volta per tutte come un'arancia» (DCDA, p. 582).

17 Che a Valentino sia fatto credere di diventare, nel Cielo, un essere celeste, è testimoniato dall'altissima occorrenza della sfera semantica relativa al colore azzurro in tutti i brani del romanzo che riguardano la sua progressiva trasfigurazione. In realtà il suo destino sarà quello di essere imbalsamato e conservato in una cella frigorifera.

18 Molti elementi in Dai Cancelli d'acciaio suggeriscono una lettura degradato-ironica della tradizione gnostica. Si potrebbe ad esempio vedere nel personale del Cielo della Luna, e in particolare nei volgari Upholder che gestiscono la morte e pupazzesca resurrezione dei ragazzi adescati tramite Glorified Persons, una parodia delle entità pleromatiche che secondo la dottrina gnostica svolgono un ruolo fondamentale nell'avviare il processo di liberazione del credente. Più in generale tutto il Cielo della Luna, che è poi in ultima istanza una sofisticata e redditizia impresa commerciale, rovescia perversamente il modello della dimora pleromatica.