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Abstract: ITA | ENG

Nell'ultimo romanzo, ad oggi, di Gabriele Frasca, Dai cancelli d'acciaio (2004-2011, essendo uscito in due diverse versioni) gli schermi occupano una posizione preminente a livello diegetico, con implicazioni che toccano alcune questioni decisive della contemporaneità, dalla storia dei media (via McLuhan) a complessi nodi di carattere religioso, psicoanalitico, socio-politico (con echi di San Paolo, Lacan, Beckett). Agli schermi è infatti affidato il destino di passione di due dei protagonisti del romanzo: uno, il sacerdote gesuita Saverio Juvarra, per la violenta cerimonia audiovisiva di espiazione cui è sottoposto; l'altro, il videogiocatore compulsivo Valentino Mormile, perché un videogioco online sarà lo strumento per il compimento del suo drammatico destino. Il presente intervento cercherà di mostrare quale complesso ruolo di sollecitazione sessuale, mortificazione ed espiazione, affermazione del potere e negazione della vita giochino gli schermi tanto nel testo di Frasca quanto nelle illustrazioni del duo di artisti napoletani Cyop & Kaf che arricchiscono il volume.

In Gabriele Frasca's most recent novel, “Dai cancelli d'acciaio” (From the Steel Gates; 2004-2011) cameras, screens and several technically advanced gadgets occupy a prominent position, with implications involving some decisive issues of the contemporary Western world, including but not limited to media history (via McLuhan), religion, psychoanalysis, society and politics, terrorism, literature (with echoes of St. Paul, Lacan, Joyce, Beckett). The dramatic destinies of two of the main characters of the novel (the Jesuit priest Saverio Juvarra; the young compulsive video game player Valentino Mormile) are also entrusted to a perverse media network. This essay underlines the complex role of sexual stimulation, mortification and expiation, affirmation of power and denial of life, played by audio-visual apparatuses and entertaining devices in this novel.

 

 

La morte è forse altro

che questo

entrare in uno schermo

Carlo Bordini, I sogni


 

Se sopra è il Cielo […] e sotto è già l'Inferno, dov'è la terra?

Gabriele Frasca, Dai cancelli d'acciaio

 

1. Sono schermi, solo schermi

Difficile censire il numero esatto di schermi presenti in Dai cancelli d’acciaio, terzo romanzo di Gabriele Frasca, apparso a fascicoli nel 2004 e poi riproposto in volume nel 2011: siamo certo ben oltre le settanta unità, il che, considerata anche la presenza di lettori mp3, smartphone e altro, ne fa un buon candidato al titolo di testo narrativo con la maggior incidenza di congegni audiovisivi nella storia della letteratura italiana. In realtà tutta l’opera multimediale di Frasca, dagli esordi fino al videodramma Nei molti mondi (2014), presenta miriadi di schermi sia reali sia metaforici, entro un raffinato gioco linguistico dove il vocabolo oscilla tra il suo significato tradizionalmente letterario (penso all'accezione medievale, cortese, del termine ‘schermo’, nel senso di diaframma) e quello corrente riferito agli apparecchi che consentono differenti esperienze di fruizione, dalla spettatorialità cinematografica a quella televisiva, fino alle pratiche videoludiche. Tuttavia la compresenza di più media, ciascuno dei quali gioca un ruolo decisivo nel romanzo, anche a livello diegetico, qualifica senz’altro Dai cancelli d’acciaio come l’opera dove Frasca ha affrontato in modo più articolato e volutamente ambiguo il tema dello schermo quale dispositivo di visione e occultamento;[1] non solo, ma la centralità della questione è come ribattuta e sottolineata dalle immagini del duo artistico napoletano Cyop&Kaf, che intervallano con ritmo ternario i quindici capitoli del romanzo, non tanto illustrandolo quanto interpretandone figurativamente alcuni aspetti salienti.

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Gli anni Cinquanta, come scrive De Tassis, erano stati quelli della Ê»mutazioneʼ per un cinema italiano che non si accontentava più delle maggiorate e del fisico Ê»fiammeggianteʼ di Lollobrigida, Loren o Pampanini. Lucia Bosé, una nuova Mangano ed Elsa Martinelli ne erano state le protagoniste, fino ai ruoli antonioniani e non solo di Monica Vitti. I corpi delle donne affiorano in primo piano come i loro desideri, invadendo gli spazi della piccola posta, le copertine dei rotocalchi, le pagine della cronaca. Ma saranno le ragazze nate nel decennio successivo a trovare nelle coetanee Jacqueline Sassard e Catherine Spaak (le Ê»straniereʼ alle quali era più facile affidare ruoli scomodi e sregolati) le figure in cui specchiarsi o grazie alle quali concepire il sogno, che non sarà solo tale, di un possibile e radicale cambiamento. Le loro Ê»personaggeʼ metteranno in scena, tra la fine degli anni Cinquanta e per tutti i Sessanta, quelle aspirazioni e nuove immagini di sé, che cominciano a emergere in forte contrasto con una società che nella sua corsa verso la modernizzazione pretende di non scalfire i valori patriarcali.

«Catherine Spaak - Paola Pitagora. Due Ê»belleʼ a confronto», recita la copertina di Bolero Film nell’agosto del 1967, giustapponendo i primi piani delle giovani attrici. Nate entrambe nella prima metà degli anni Quaranta, parte della Ê»prima generazioneʼ per la quale l’età, come scrive Capussotti, assumerà una «funzione nuova nella configurazione identitaria» (Capussotti 2004) agendo da elemento di rottura, hanno dato inizio alle loro carriere alla vigilia dei Sessanta seguendo percorsi diversi ma con vari punti di convergenza, dal loro impegno di cantautrici alla presenza in televisione. Le Ê»personaggeʼ di Pitagora non sono spregiudicate e disinvolte come quelle di Spaak in I dolci inganni, Il sorpasso, La voglia matta, La calda vita, La noia o La Parmigiana; o in commedie balneari come Diciottenni al sole, in cui il fatto che Nicole sia una turista francese giustifica il bikini, il twist e i bagni integrali. Piuttosto, i ruoli di Pitagora occupano uno spazio Ê»tra tradizione e contestazioneʼ, come titolava una rassegna recentemente dedicata all’attrice italiana. Ma è davvero così? L’appellativo di Ê»fidanzata d’Italiaʼ che le viene assegnato per il ruolo di Lucia Mondella in I promessi sposi di Sandro Bolchi del 1967 [fig. 1], quello uno degli sceneggiati di maggiore successo (oltre diciotto milioni di spettatori), non ha forse condizionato questo giudizio?

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A Bologna, per il quarantennale dalla morte di Pasolini, Andrea Adriatico e i Teatri di Vita hanno tentato una coraggiosa e complicata scommessa: portare in scena, nello spazio immersivo di un salotto teatrale, il suo ultimo romanzo, incompiuto e pubblicato postumo, Petrolio. Testo ambizioso e di difficile lettura, programmaticamente costruito per appunti e frammenti, che alterna la narrazione in terza persona ad inserti a voce viva dell’autore, Petrolio è un «brulicante dossier» su trent’anni di storia economica e politica italiana scritto mentre si infittiscono le trame oscure che vedono i vertici della nostra maggiore azienda pubblica, L’ENI, implicati nella nascente P2 e nella strategia della tensione (Pasolini attinse a un libro-verità, Questo è Cefis, uscito nel 1972 e presto fuori commercio, mentre nello stesso anno Francesco Rosi firmava, al cinema, Il caso Mattei). Ma Petrolio è al contempo un romanzo metaforico e allegorico «sull’ossessione dell’identità e la sua frantumazione» attraverso la vicenda di Carlo, il protagonista, che è segretamente abitato da due figure, l’angelico Polis e l’infero Tetis: il primo è colto intellettuale moderatamente di sinistra, ingegnere dell’Eni, che compie con dolcezza e eleganza la sua scalata al potere, il secondo è suo servo e sua ombra infernale, tutto preso dall’esasperazione del sesso prima verso donne e ragazze, poi in chiave omoerotica, lungo una degradante coazione a ripetere che non smette con la sua improvvisa metamorfosi trans.

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