Occhio

di

     

L’occhio di Redon (che non è solo l’occhio di Redon) è invece dentro le architetture, dentro le costruzioni che non cantano ma imprigionano, senza una precisa collocazione: come un pipistrello volteggia e batte da una parete all’altra; da un angolo all’altro, da questo a quell’oggetto […]. E diciamo l’occhio, qui, non solo per dire il punto di vista, ma propriamente l’occhio, il bulbo oculare, la pupilla, il cristallino, la cornea, il nervo, i muscoli, le ciglia… In Clerici avviene come uno sdoppiamento e una metamorfosi: c’è l’occhio-punto di vista di Piero della Francesca e di Magritte, un occhio che irraggia e che raccoglie le più minuziose e ossessionanti prospettive; e c’è l’occhio-pipistrello di Redon: a volte scoperto e sezionato come una tavola anatomica; a volte mimetizzato, pietrificato, che si finge pietra tra le pietre delle rovine; altre volte ancora che si accende come carbonchio, sprigionando un dritto raggio di morte, che va ad esplodere e accecare un altro occhio, nelle teste di quei simulacri di animali mitici e sacri che stanno in una specie di «conversazione» indecifrabile e senza tempo.

L. Sciascia, Clerici e l’occhio di Redon (1973)

Nella poesia che apre la raccolta poetica di Sciascia, in quell’unica occasione di confronto col genere lirico da parte dello scrittore siciliano, faceva già la sua prima comparsa un occhio ‘pittorico’. Si tratta dell’iride del bue dipinto da Chagall («Come Chagall vorrei cogliere questa terra / dentro l’immobile occhio del bue»), metafora perfetta del legame ancestrale con il proprio villaggio. In quel «carosello di immagini» tratteggiate ne La Sicilia, il suo cuore (1952), il giovane Sciascia evoca, alla maniera del pittore russo, il carosello figurativo di cui è composta la sua memoria visuale, e al tempo stesso dichiara implicitamente la prospettiva del suo sguardo, interno al gioco della rappresentazione.

Spostando l’attenzione dalle poesie ai saggi sull’arte, il lemma «occhio» ricompare in molte occasioni. Nelle pagine di Clerici e l’occhio di Redon diventa addirittura tema e immagine posta in primo piano. Il cruciverba di citazioni che si nasconde nel saggio contiene forse, oltretutto, qualche indizio per la soluzione dell’enigma della storia raccontata in Todo modo. Giuseppe Traina attraverso una disamina iconografica dei dipinti di Clerici «da Colloquio (1970) fino almeno a Teoria cromatica degli sguardi, del ’74», in cui viene spesso messa in scena una contrapposizione fra varie figure mitologiche e «bulbi oculari» o «sguardi-laser», suggerisce una rilettura di Todo modo in chiave clericiana: «in un tempo sospeso e metafisico, in una stanza chiusa, si fronteggiano due antagonisti, che si confrontano con le armi della dialettica fino all’eventuale morte di uno dei due». Ma nel saggio dedicato a Clerici, e in fondo anche a Redon (pittori accomunati – lungo la linea evidenziata da Sciascia che va dal simbolismo al surrealismo – proprio dalle diverse e pure simili variazioni del tema dell’occhio), si sottolinea anche quella compresenza di pupille, sguardi e prospettive che identificano l’ambigua posizione dell’io narrante sciasciano rispetto alla rappresentazione. In Todo modo, infatti, il pittore protagonista è al tempo stesso la figura attraverso il cui sguardo e la cui voce è filtrata la narrazione, ma i suoi occhi sono anche dentro la cornice del quadro disegnato da Sciascia. E del resto anche la prospettiva del personaggio/io narrante è esterna e critica testimonianza dell’universo orrendo e della sua volontà di potere e però, al tempo stesso, cede alla tentazione di voler scrutare dal di dentro i suoi meccanismi. In questo delicato equilibrio fra uno sguardo interno e uno esterno alla rappresentazione ritroviamo in fondo la prospettiva scelta da Sciascia con ostinata coerenza in tutta la sua esistenza, nei confronti di una realtà per la quale valgono ancora i versi da lui tanto amati del poeta arabo-siculo Ibn Hamdis: «vuote le mani, ma pieni gli occhi nel ricordo di lei».