Officina Pasolini

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Tra le iniziative dedicate a Pier Paolo Pasolini nel quarantesimo anniversario della sua morte, una in particolare merita di essere isolata dalla proliferazione di mostre, performance, concerti che nel corso del 2015 hanno voluto omaggiare la figura dell’intellettuale. Allestita nell’ambito del progetto Più moderno di ogni moderno ideato dal Comune di Bologna, e promossa dalla Fondazione Cineteca, Officina Pasolini (18 dicembre 2015-28 marzo 2016) offre una sintesi di rara attendibilità della vita e della vastissima e poliedrica produzione del poeta-regista, conducendo per mano il visitatore tra i testi originali, le opere figurative, le fotografie, gli estratti audio e video selezionati dai curatori Marco Antonio Bazzocchi, Roberto Chiesi e Gian Luca Farinelli. Sono le sale del MAMbo, Museo d’Arte Moderna di Bologna, ad ospitare la mostra ed è proprio dai frequenti contatti dello scrittore con la sua città natale che essa prende avvio.

Nello spazio introduttivo, infatti, secondo un percorso che segue un ordine cronologico, sono esposti documenti che rinviano ai periodi e alle occasioni in cui la biografia e l’attività di Pasolini hanno trovato a Bologna uno scenario privilegiato. Dall’atto di nascita e dalle numerose fotografie (d’infanzia, in divisa militare o durante gli anni universitari) si passa alla proiezione delle sequenze di Edipo Re e Salò o le 120 giornate di Sodoma ambientate rispettivamente in Piazza Maggiore e tra le pareti di Villa Aldini, solo per citare alcuni esempi. Nel primo segmento dell’esposizione è già racchiusa la formazione dell’autore; ad essa fanno riferimento la proiezione nella parete centrale, la prima visibile, del documentario su Carpaccio (1947) di Roberto Longhi e la nota tesi di laurea Antologia della lirica pascoliana. Introduzione e commenti. Poesia e pittura, dunque, si manifestano simultaneamente e rivendicano la natura composita degli studi dello scrittore, il loro continuo intrecciarsi in una ininterrotta sperimentazione, ulteriormente rimarcata dalla presenza – in alto, quasi a specchiarsi sulla teca in cui è custodita la tesi – delle fotografie di Pasolini intento a tracciare, nella dependance della Torre di Chia, il profilo di Longhi. Al critico d’arte allude anche il titolo della mostra, giacché ‘officina’, oltre ad essere il titolo della rivista fondata negli anni Cinquanta da Pasolini, Roversi e Leonetti, è anche la parola utilizzata da Longhi in un saggio del 1934 sulla pittura ferrarese.

Proseguendo nel percorso si entra nell’ampia sala centrale, concepita, nelle strutture architettoniche delineate dall’allestimento, come una ‘cattedrale laica’ di forte impatto visivo, dominata dalla gigantografia, posta in alto sulla parete di fondo, di una foto di scena del Decameron che vede Pasolini nei panni dell’allievo di Giotto. Un cuore pulsante di proiezioni, testi verbali, fotografie e trasmissioni audio forgia uno spazio multimediale in cui è possibile osservare il corpo ritratto di Pasolini e dei suoi attori, in cui è possibile leggere anche seguendo il tratto stilizzato della grafia dell’autore e ascoltare le poesie dalla sua stessa voce mite. La compresenza di parole e immagini che si riscontra nella parte introduttiva, dunque, caratterizza anche questa sezione della mostra e si esplica secondo una serie di nuclei tematici riconducibili ai miti pasoliniani: Il Friuli, La madre, Cristo, La tragedia classica, Le borgate, I popoli lontani. Per ciascuno di questi temi, così strettamente connessi all’evoluzione del pensiero dello scrittore, sono presenti manoscritti e dattiloscritti di poesie e sceneggiature (molti dei quali provenienti dall’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze), nonché le prime edizioni originali di alcune opere fortemente rappresentative. Tra queste, Poesie a Casarsa e La meglio gioventù sono significativamente poste sotto la proiezione di alcuni dipinti, tra cui il celebre Ritratto da giovane, e di quadri quasi tutti risalenti agli anni Quaranta; la compenetrazione tra poesia e pittura conferma ancora una volta la volontà dei curatori di non privilegiare nessuno dei linguaggi indagati da Pasolini. Alla corposa serie di materiali esposti nelle teche fanno da pendant nella parete opposta affiches, foto di scena e fotografie che integrano visivamente tutte le informazioni ricavabili dai testi scritti e ne amplificano le suggestioni. Il componimento Ballata delle madri, ad esempio, si arricchisce di sfaccettature molteplici attraverso i ritratti fotografici di Anna Magnani nelle vesti di Mamma Roma, di Silvana Mangano, madre allegoricamente borghese di Teorema, e di Susanna Colussi, madre vera e inesauribile fonte di ispirazione; così come i volumi de Le ceneri di Gramsci e di Ragazzi di vita prendono corpo, un corpo più maturo e disincantato, attraverso le fotografie scattate sul set di Accattone. Mantengono la stessa divisione tematica anche i costumi di scena provenienti dall’atelier Farani esposti lungo il passaggio centrale, elemento che insieme alla proiezione – sulle pareti, ma a una quota superiore rispetto al resto dei documenti – di sequenze di alcuni film di Pasolini (tra cui Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo, Teorema, Medea) immette il visitatore in una dimensione fruibile su più livelli. La stratificazione dei materiali esposti è un altro tratto peculiare della mostra, poiché invita a farsi leggere secondo criteri che si nutrono di congrue sovrapposizioni più che di lineare sequenzialità, sfruttando per intero lo spazio espositivo e spingendosi al di là del più consueto percorso esclusivamente orizzontale.

Le sale adiacenti sviluppano altri temi legati ai topoi pasoliniani. Alla sezione Maschere e icone seguono Pasolini e la critica della modernità e L’omologazione, che si collegano alla stagione più aspramente critica dell’attività pasoliniana. La mostra ne approfondisce i risvolti e dedica un’intera sala alla riproduzione di alcuni appunti di Petrolio e alla proiezione del documentario Vivre et encore plus (1974) curato da Michel Random, l’unico in cui Pasolini, parlando «di una raccolta di tutto ciò che so, una summa», faccia riferimento all’opera incompiuta. La dimensione quasi spettrale di questo segmento (l’unica fonte di illuminazione sono le immagini che scorrono sulla parete) è il preludio di una climax che segue gli esiti controversi e perturbanti della produzione matura di Pasolini, negando bieche censure anche alle sue espressioni più ardite. Si passa infatti, senza soluzione di continuità, dalle fotografie di Dino Pedriali che ritraggono lo scrittore nudo nella Torre di Chia a una serie di gironi, delle Visioni, della Borghesia, della Televisione: seguendo una struttura dantesca notoriamente cara a Pasolini, si continuano a fornire spunti di riflessione che non prescindono dalla ricostruzione dei contesti, come dimostrano i reciproci rinvii che si attivano tra la sceneggiatura dattiloscritta di Salò o le 120 giornate di Sodoma, la trasmissione della colonna sonora del film e i costumi della signora Vaccari e dei libertini.

Lungi dal bloccare le vie dell’interpretazione, la chiusura della mostra riapre gli interrogativi che la scomparsa dello scrittore ha lasciato in sospeso senza tentare di esaurirli. I materiali esposti in prossimità della fine del percorso non tentano di appiattire il lavoro e la vita di Pasolini su toni apocalittici, ma riprendono le diverse direzioni intraprese dall’autore sulla soglia estrema, riconfermando la validità di ciascuna di esse ed evidenziandone l’inevitabile apertura. L’estratto audio della dettatura di Pasolini al magnetofono del trattamento di Porno-Teo-Kolossal dialoga con i materiali relativi a Salò o le 120 giornate di Sodoma, ricordando che nel laboratorio pasoliniano un registro grottesco e meno pessimistico stava prendendo forma, e i telegiornali RAI del 2 novembre 1975 si trovano costretti a modificare il loro riflesso attraverso un pannello, l’ultimo, con i nomi di tutti coloro che a Pasolini hanno dedicato parte della loro ricerca artistica dopo la sua morte. Alla fine, a prevalere sono la vitalità e la vigorosa attualità di un intellettuale ancora necessario.