«Ogni oggetto è per me miracoloso»… Pasolini nel Museo di Celestini

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Ascanio Celestini, custode e guida di un ipotetico Museo dedicato a Pier Paolo Pasolini, riannoda, con lo spettacolo Museo Pasolini, i fili di una vita breve, terminata in un massacro all'Idroscalo di Ostia, con accadimenti storici e aneddoti immaginari. Il visitatore si troverà immerso nel mondo pasoliniano più autentico e complesso e in quello parallelo frutto di ricerche sul campo di Celestini che, proprio come il poeta, non ha mai smesso di indagare e dialogare con gli ultimi e gli sfruttati.

Ascanio Celestini, custodian and guide of a hypothetical museum dedicated to Pier Paolo Pasolini, reconnects the threads of a short life, which ended in a massacre at the Idroscalo di Ostia, with historical events and imaginary anecdotes. The visitor will find himself immersed in Pasolini's most authentic and complex world and in the parallel world that is the result of field research by Celestini who, just like the poet, has never stopped investigating and dialoguing with the last and the exploited.

 

Per Orhan Pamuk ogni museo dovrebbe essere un luogo in cui «il tempo diventa spazio», capace di raccontare le storie dei singoli individui e in cui poter «esplorare ed esprimere l’universo e l’umanità dell’uomo nuovo e moderno».[1] Quasi sulla stessa scia, a partire da un’idea di luogo non-monumentale in grado narrare fatti che vadano al di là dell’ossessione di un singolo, e da sempre attratto dalla Storia e dai suoi paradossi, Ascanio Celestini nel 2021 concretizza il progetto di costruire, narrativamente, un Museo dedicato alla memoria di Pier Paolo Pasolini.[2] È, ancora una volta, la sua «corda civile»,[3] in cerca dell’uomo e delle sue parabole, a consentirgli «di scorgere le tracce del mito».[4]

In una carriera dove ha filtrato, con i racconti di testimoni comuni, i grandi temi del nostro Paese, Celestini ci restituisce uno spettacolo straziante e potente, una raccolta di oggetti simbolo per disegnare la figura del poeta friulano, affiancando ad essi la rappresentazione del Novecento italiano saturo di fascismo, di golpe di stato, di democrazie tormentate e di una «busta de stracci che invece era n’omo morto». Una «corrispondenza d’amorosi sensi» che ben si spiega con la capacità dell’attore romano di raccontare storie controverse con la cifra di una disarmante onestà in grado di mescolare registri plurimi. Celestini, peraltro, non è nuovo all’esplorazione di Pasolini.[5] Nel 1998, quando ancora si considerava un «teatrante per caso», incontra Gaetano Ventriglia, e con lui – discutendo di cucina, di emozioni e del loro comune interesse per ‘il poeta delle ceneri’ – dà vita a Cicoria. In fondo al mondo, Pasolini, un po’ spettacolo[6] e un po’ libero pensiero. Al centro di questo esperimento si pone infatti una riflessione discontinua sul tema della morte che avvicina un padre (già trapassato) ad un figlio (nel momento del trapasso), emblematicamente identificati come Cicoria padre e Cicoria figlio. Questa coppia, che in modo scoperto discende da Totò-Ninetto Davoli di Uccellacci e uccellini, richiama anche il riflesso di altre opere, secondo un progetto in forma di palinsesto, instabile e promettente allo stesso tempo.

Cicoria proveniva da un’improvvisazione. Io e Ventriglia ci siamo incontrati per alcuni giorni e abbiamo costruito un testo nel quale si incrociavano storie e modalità performative diverse. Mi ricordo che a un certo punto ci siamo ispirati a una scena in particolare del film Accattone, quella in cui il protagonista sogna di essere morto e cerca un posto al sole almeno nel camposanto. Forse ci bastava avvicinarci a Pasolini, ma avevamo bisogno di portare in scena soprattutto quello che immaginavamo di lui, non ciò che davvero aveva prodotto.[7]

I Cicoria – eredi di quell’Italia proletaria e periferica, amara come il gusto di questa verdura di campo – sono in cammino verso un misterioso punto di arrivo, cui allude anche il sottotitolo In fondo al mondo, Pasolini, perché è forse tra gli emarginati dell’umanità, alla fine del mondo, che si trovano i prediletti di Pasolini.

Cicoria, come evidenziato da Andrea Porcheddu, andava spiegato, in quegli anni, con la necessità di riattivare una memoria collettiva: «c’era bisogno di punti di riferimento, di luoghi riconoscibili, di un pensiero politico che potesse incanalare le energie e lo scontento di molti […]. In quest’ambito si può anche collocare, ad esempio, la riscoperta pasoliniana».[8]

Il teatro degli ultimi anni Novanta e dei primi anni del nuovo secolo ha ruotato attorno all’effige del Pasolini profeta e combattente; ma se Cicoria, in fin dei conti, evocava non tanto il soggetto osservante, ma l’oggetto osservato, ovvero i reietti cari al firmamento pasoliniano, l’intento di Museo Pasolini appare sin da subito differente; se per un lungo tratto Pasolini era apparso a Celestini come un «antenato culturale»,[9] qui il vissuto e l’opera dell’artista fungono da specchio di rifrazione della nostra Storia, se non altro di tutta l’ambiguità del cosiddetto ‘secolo breve’. Alla base di questo approccio c’è l’illuminante considerazione di Vincenzo Cerami (negli anni Cinquanta allievo di Pasolini presso la scuola media di Ciampino, poi sceneggiatore e suo aiuto regista), che proponeva di prendere tutto il lavoro di Pasolini e di ordinarlo secondo una cronologia, così da riuscire ad ottenere il ritratto dell’Italia dalla fine degli anni del fascismo fino alla metà degni anni Settanta. L’opus letterario di Pasolini rappresentava quindi per Cerami l’ordito di un pezzo di Storia, realizzato da chi, conducendo un esercizio di realismo folgorante, aveva saputo con occhi di poeta parlare al corpo del Paese attraverso la fibra della scrittura, muovendosi «nello scandalo / e nella rabbia»,[10] con l’innocenza di una «bestia al macello».[11]

 

1. La ‘scena’ del Museo

Con Museo Pasolini Celestini riesce a instaurare un’immaginaria collaborazione tra due visioni che si compenetrano. E lo fa convocando un dispositivo narrativo quale è il museo, di fatto una sofisticata macchina narrativa, un modello di distretto culturale legato alla valorizzazione e alla messa in prospettiva di testimonianze; oggi, probabilmente, l’istituzione culturale più densa di segni, simboli, contenuti della contemporaneità in grado di porsi in dialogo attivo con tutte le altre forme d’arte al fine di costruire nuove storie. Inglobando il museo nell’ordito diegetico, Celestini lo eleva a luogo privilegiato di una continua negoziazione tra «spazio reale e spazio finzionale».[12]

A partire dalle cinque funzioni indicate dall’International Council of Museums (ricerca, acquisizione, conservazione, comunicazione, esposizione), e dal tentativo di trovare risposte ad alcune domande (qual è il pezzo forte del Museo Pasolini? Quale oggetto dobbiamo cercare? Cosa siamo tenuti a fare per conservarlo? Cosa possiamo comunicare attraverso di lui? E infine: in quale modo dobbiamo esporlo?), prende vita lo spettacolo che debutta nel 2021[13] e che viene preceduto, secondo una pratica comune ai protagonisti del cosiddetto ‘teatro di narrazione’, da una serie di prove aperte, dal nome Appunti per una visita guidata al Museo Pasolini, pensate per far partecipare attivamente il pubblico così da ricavarne rimandi e ispirazioni.[14] La lunga gestazione del progetto, la scelta di lavorare per accumulo di segmenti da incastrare in una struttura sempre più ampia, conferiscono al modello drammaturgico un carattere unico, che si smarca da ogni tentazione imitativa dello stile pasoliniano e giunge a definire invece un format che consolida l’impronta affabulatoria di Celestini.

Per capire fino in fondo tale unicità ha senso recuperare la lezione foucaultiana, ovvero l’ormai nota proposta teorico-filosofica di archivio come «bordo del tempo che circonda il nostro presente», come «ciò che sta fuori di noi e ci delimita».[15] Ancora oggi questa definizione ci ricorda che l’archivio vale «come nostra diagnosi».[16] La riflessione sulle diverse forme e funzioni di archivio ha portato negli anni a proposte di esposizione in cui si riflette sulle possibili coincidenze tra una idea di deposito in movimento e la presa d’atto del museo come luogo della messa in scena di eventi. Un archivio si declina artisticamente in varie tipologie, ciascuna con diversi presupposti, possibilità e caratteristiche, con configurazioni che vanno dall’atlante-mappa all’album-diario, fino al museo-Wunderkammer. I reperti esposti allora nelle stanze del Museo Pasolini tanto più si prestano alla funzione di reliquie laiche quanto più sono considerati da Celestini icone di una ‘camera delle meraviglie’ che si fa espressione di un carattere mitologico (in linea con la devozione popolare del medioevo o l’invenzione dei musei risorgimentali).

Gli oggetti sono accostati per analogia e assurgono a sistema grazie al quale il narratore cerca di ricostruire un mondo, una totalità privata. Sono cinque le ‘mirabilie’ attorno alle quali si orchestra il percorso espositivo-narrativo: la prima poesia scritta a sette anni, «bene inconsumabile e inconsumato»; il paese di origine della madre, Casarsa della Delizia e, soprattutto il cimitero, memoria familiare dove giace il fratello Guido, partigiano ucciso da altri partigiani; l'innocenza del Partito Comunista, rappresentato dalla ‘bandierina’ rossa che il Partito aveva nascosto durante le drammatiche giornate dell’occupazione di Budapest, «piegata come una bandiera e chiusa in un cassetto»; la borsa in similpelle contenente una bomba inesplosa e ritrovata il giorno dell'attentato a piazza Fontana; e l’ultimo oggetto, il pezzo forse più prezioso della collezione, il corpo martoriato del poeta. Si tratta, in fondo, di un museo immateriale, come lo è qualsiasi spettacolo, dentro il quale poter depositare non solo le opere-tracce, ma anche ciò che non si trova più.

Punto di convergenza e principio ordinatore di questo materiale estremamente eterogeneo è il soggetto narrante; Celestini, accogliendo molteplici visioni e dando vita a un serrato montaggio di inserti e passaggi narrativi, si trasforma in un metafisico custode, nella guida loquace ma anche nel fondatore di questo luogo immateriale, introducendo gli spettatori alla visita attraverso la diegesi della vicenda biografica di Pasolini, nominato durante il monologo semplicemente ‘il poeta’, perché solo i poeti sono in grado di fornirci oggi nuove lenti con cui guardare il reale, consentendoci di attivare un ‘altro sguardo’ capace di trasformare le cose, financo la vita stessa, in un’opera.

Non soltanto si lavora, in poesia, ma si vive in poesia, quindi se uno viene considerato poeta viene considerato poeta fin dal momento in cui sta vivendo la sua vita, la sua giornata […], ma se lei per poeta intende un lavoro specifico allora probabilmente va bene, accetto questa qualifica. Ricordo che avevo 7 anni e mezzo, facevo la seconda elementare e mia madre, non so per quale ragione, ha scritto un sonetto che mi riguardava […], attraverso questo sonetto […] ho capito che si poteva scrivere la poesia […] e così due giorni dopo ho scritto anche io una poesia, mi ricordo che era rivolta a un usignolo non bene identificato, c’era della rugiada, e anzi l’usignolo era chiamato rosignolo…[17]

Ascanio Celestini è alla ricerca di un modello che sappia usare ora le parole penetranti della verità ora quelle opache della poesia. La regola di questo dispositivo è enunciata fin dalle prime battute con trasparente plasticità; tutto si gioca sul potere della parola, attraverso il quale un affabulatore come lui compone, muovendosi tra primi piani e campi lunghi, il suo museo narrativo, conducendo lo spettatore lungo un viaggio che ripercorre la denuncia di Petrolio in una fulminea sintesi di pluri-vocalità teatrale. Si va così dal romanesco colorito e irriverente dei popolani e dei borgatari romani al linguaggio grottesco di Borghese e dei golpisti, dipinti come macchiette tragicomiche, burattini manovrati da un potere più in alto di loro; fino al linguaggio appassionato e tagliente dello stesso Celestini. A predominare sono, anche in questo caso, le strategie narrative proprie della letteratura orale:[18]

Il nostro Museo ha le sue peculiarità: il numero di parole, la quantità di parole, è decisamente superiore, sproporzionatamente superiore rispetto agli oggetti esposti. […] Gli oggetti esposti all’interno di questo Museo, il nostro patrimonio, corrispondono a una definizione dei burocrati dell’Unesco ovverosia ‘patrimonio immateriale’ o ‘patrimonio culturale vivente’. Questo aggettivo mi fa sorridere, ‘vivente’, perché il fulcro di questa visita guidata è un poeta morto.[19]

Le parole che introducono il visitatore all’interno del Museo aspirano a diventare merce inconsumabile, documentando quella dimensione poetica e immaginifica tipica della ricerca artistica e drammaturgica di Celestini, che non si è mai separata dalla passione per le storie degli ultimi e dei marginali.

 

2. Frammenti di una narrazione

La genesi di questo oratorio teatrale su Pasolini risale a un incontro di Celestini con Graziella Chiarcossi, moglie di Cerami e cugina del poeta, che gli ha metaforicamente e concretamente aperto l’album di famiglia. A partire dalle tracce della biografia dell’autore, Celestini, secondo una metodologia di lavoro che gli è cara, comincia a intervistare chi lo ha conosciuto, chi lo ha studiato o anche solo chi lo ha amato attraverso le sue opere. L’indagine parte dalla «città piena di portici», Bologna, dove Pasolini nasce nel 1922, e dove si forma, frequentando il liceo Galvani e poi l’Università.[20] Com’è noto qui fonda, con Roberto Roversi e Francesco Leonetti, la rivista di poesia “Officina” e al Portico dei Servi girerà il finale dell’Edipo Re nel 1967, mentre Villa Aldini diventerà il set del suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Di questo primo tratto dell’avventura personale e creativa dello scrittore Celestini recupera suggestive immagini che riportano lo spettatore negli anni e nei posti più significativi della biografia pasoliniana.

L’attore all’inizio del racconto segue molto da vicino, e in maniera piana e ordinata, lo svolgersi dell’infanzia e dell’adolescenza del poeta, attraverso un susseguirsi di date: dal racconto dell’incontro dei nonni materni Domenico e Giulia, che apriranno una distilleria a Casarsa, alla nascita dei sei figli, tra cui Susanna madre del poeta e la zia Giannina «anche lei insegnante… omosessuale. Come lo zio Gino, come il nostro poeta…»;[21] una sosta nel 1925, anno in cui nasce il fratello Guido e si istituisce il saluto romano, «virile e igienico»,[22] fino allo scoppio della guerra. I tempi serrati del monologo conducono verso il primo oggetto in esposizione: la poesia scritta da Pasolini nel 1929, l’anno della firma dei patti Lateranensi, quando aveva solo sette anni.

La narrazione prosegue con il periodo dell’istruzione, l’incontro con Longhi, la «folgorazione figurativa»,[23] i soggiorni a Casarsa, l’interesse per la poesia, la pubblicazione del primo volume di poesie in lingua friulana e l’istituzione della prima scuola elementare a Versuta dove insegnerà nel periodo in cui vivrà da sfollato nel piccolo borgo. Il fratello Guido diventa partigiano, «nome di battaglia Ermes, fazzoletto al collo verde, Brigata Osoppo-Friuli»,[24] trovando la morte a Porzus il 12 febbraio del 1945, anno XXIII dell’era fascista.

Il visitatore giunge così al cospetto del secondo reperto custodito nel Museo: «Se invece di andare a Parigi al Louvre a vedere La Gioconda […] ti capita di andare a Casarsa della Delizia in Friuli […] c’è un piccolo cimitero, il cimitero i Casarsa, ovverosia il secondo oggetto esposto nel Museo Pasolini, ovvero nel nostro piccolo museo».[25] In questo cimitero di campagna riposano i Colussi e lo stesso poeta con accanto l’amata madre, in un’unica isola verde delineata da una pianta d’alloro e da una di gelsomino.

  Ascanio Celestini in Museo Pasolini, ph Riccardo Musacchio, Flavio Ianniello e Chiara Pasqualini

La narrazione riprende secondo un serrato ordine cronologico. Siamo nel 1950 e Pasolini, rimosso dall'insegnamento nelle scuole pubbliche ed espulso dal Partito Comunista, a seguito di una denuncia per atti osceni, si trasferisce con la madre Susanna nella Capitale. Seguendo le traiettorie dei vagabondaggi pasoliniani si approda nella città dentro la cui ‘forma incerta’ Pasolini collocherà la sua nuova poesia. Per effetto di un inevitabile cortocircuito le immagini evocate da PPP si saldano e si sovrappongono ai ricordi vivi di Celestini, non nuovo al dialogo con l’amato quartiere nel quadrante sud-est della Capitale, il Quadraro.

Cammino lungo una strada di Roma. Sono venuto a scrivere un racconto. Ma un racconto per cosa? Sono venuto a prendere appunti per una visita guidata in un museo. Questo museo sarebbe dedicato a Pasolini. Per cominciare ho scelto una via del Quadraro perché si tratta di un luogo nel quale Pasolini ha girato Mamma Roma. […] Questa breve strada è un oggetto da mettere nel mio museo, un pezzetto del ritratto della storia italiana che posso recuperare attraverso Pasolini. L’Italia di Mattei e del petrolio, del boom e delle speranze, dell'anticomunismo e dell'omologazione. Cammino lungo via Sagunto e vado verso l'antico acquedotto che sta nella campagna oltre via Selinunte.[26]

La geografia del monologo di Celestini coincide con la Roma cantata da Pasolini (non si dimentichi che il titolo dello spettacolo, nonché della raccolta di racconti e fiabe, Cecafumo[27] è anche il nome del quartiere romano scelto dal poeta-regista come ambientazione del film Mamma Roma). La periferia romana che a metà degli anni Cinquanta diventa, per PPP, la vera protagonista di un viaggio di ricerca e di scoperta, accompagnandolo fino alla tragica fine, è, per l’attore, la città che fino al 1974 nel Parco degli Acquedotti all’Appio Claudio ha ospitato baracche addossate alle costruzioni romane, abitate dagli immigrati italiani attivati nella Capitale.

Nella «biancheggiante città» descritta in Poesia in forma di rosa (1964), ci si può perdere e financo incontrare sul bus 109 il poeta, che diventa improvvisamente uno dei tanti narratari che costellano l’universo diegetico di Celestini.

È quella la prima volta che io ho visto il poeta. Era uno di quei giorni che tirava un vento sempre senza pace, io stavo al secondo piano della […] fabbrica che sta sulla Tiburtina e vedo il poeta che scende giù […], scendo pur io, vado pur io verso il 109, arriva il 109, sale il poeta, solgo pur io, tiriamo fuori gli spicci, famo il biglietto, il poeta se mette seduto e io gli dico: “ma scusame tanto, tu non mi sembri un abitante de ‘sta borgata triste e beduina, tu mi sembri un borghese come me, che c’è fai da ste parti…” E lui me fa “Che c’è faccio? C’è vivo”, me dice e io “ma de che vivi? Che mestiere fai?” E lui: “ma sai, di mestieri sono uno scrittore, un poeta – me fa – però per vivere faccio l’insegnante in una scuoletta […] che sta a Ciampino. Tutte le mattine mi faccio […], anche tre ore di viaggio”. “Beh, se sei un poeta […] te lascio in pace”. E lui mi fa: “Guarda che non faccio pensieri meno poetici se li condivido con te”.[28]

Un viaggio in direzione Ciampino, attraverso presepi di baracche, a cui sembrano fare eco le parole del poeta pronunciate durante le riprese di Mamma Roma: «giro per la Tuscolana come un pazzo, per l'Appia come un cane senza padrone».[29] Parlando di quelle strade, di case «sprofondate nel cielo», dei «ruderi antichi di cui nessuno più capisce stile e storia»,[30] il poeta racconta a Celestini di una Roma che non finirà mai sulle cartoline.

Entrambi da sempre attenti alla ‘forma della città’,[31] in tempi diversi hanno indagato la natura profonda della società italiana – elaborando la concezione di «mutazione antropologica»[32] – a cui affiancare le piccole storie, tragiche e comiche, dei molti personaggi ‘minori’ che, grazie alla loro personale lingua poetica, popoleranno la loro vicenda umana divenendo i protagonisti per l’uno dei romanzi e dei film, per l’altro dei racconti teatrali e dei docufilm. Il poeta e l’attore condividono il bisogno di scoprire «la città che ricomincia dove pensi che la città sia finita»,[33] e così la simulazione del loro incontro diviene il punto di svolta dell’intero edificio narrativo. Grazie al ‘personaggio’ Pasolini, Celestini ha modo di illustrare la realtà italiana degli anni Sessanta, di aprire spiragli sugli eventi politici di quel periodo, che il poeta, sempre animato da una forte passione politica, non intende tacere, anzi si sforza di denunciare apertamente: i fatti d’Ungheria e l’intervento sovietico, le serrate nelle fabbriche e il licenziamento degli operai iscritti al Pci, le manifestazioni represse dalle forze di polizia, le proteste del Sessantotto, la strage di piazza Fontana, le stragi e le bombe neofasciste, il tentato colpo di Stato di Borghese, la strategia della tensione portata avanti da settori statali per impedire l’arrivo al governo dei comunisti per via democratica. Pasolini attraversa queste vicende, diviene emblema di una rivoluzione popolare mancata, e per questo può essere ‘trattato’ come un reperto perfetto per un museo che non c’è.

Il momento in cui PPP diviene personaggio è dunque l’acme dell’intero spettacolo, la vertigine estrema in cui Celestini si sdoppia e lascia ‘entrare in scena’ l’oggetto più prezioso, il fantasma del poeta, con la sua scia vivida di parole e voce. Il tema dominante del discorso è sempre una certa idea di innocenza, piegata «come una bandiera in tempo di guerra»,[34] stirata, messa nel cassetto – in attesa di tornare a dispiegarsi.

  Ascanio Celestini in Museo Pasolini, ph Riccardo Musacchio, Flavio Ianniello e Chiara Pasqualini

La cronologia della vita di Pasolini – dall’anno di nascita, 1922, anno zero dell’Era Fascista, al 1975, anno LIII dell’Era Fascista, due date in cui prende fisionomia il Novecento italiano – si fa, come detto, via via sempre più sfumata, cedendo il passo al racconto ‘corale’ in cui l’attore finisce per eclissarsi e far parlare una serie di figure, sia personaggi del popolo e delle classi subalterne delle periferie romane – «gli sfruttati» – come Don Piccicola, i Sandroni, venditori di merce «non rubata ma caduta dal camion»,[35] e tutti i baraccati delle periferie romane; sia personaggi storici e politici come il «principe nero» Junio Valerio Borghese, Alberto, il grande industriale, e il prete massone – «gli sfruttatori». Sono queste maschere assenti, con le loro storie e le loro parole, a ricostruire la vita e soprattutto il pensiero del poeta, e a introdurci alla realtà politica e sociale dell’Italia postbellica. In questo ampio arco temporale, in cui fatti e personaggi storici convivono con l’inventiva dell’attore, Celestini mostra l’Italia dei piccoli e medi conflitti, delle teorie del complotto tipiche dei golpe, dei tanti abitanti che hanno formato il paese senza scriverne ufficialmente la Storia.

Ascanio Celestini in Museo Pasolini, ph Riccardo Musacchio, Flavio Ianniello e Chiara Pasqualini

La «forza mitopoietica»[36] dei cinque reperti trova nel Museo Pasolini un’ampia e straordinaria possibilità di espressione. Gli oggetti passati in rassegna dall’io narrante danno forma al caleidoscopio di immagini impresse nella mente della voce enunciante. L’edificante e struggente storia di don Piccicola, nella realtà don Roberto Sardelli, il prete che andò a vivere tra i baraccati dell’Acquedotto Felice fondando la scuola 725, assume il valore di un’esperienza educativa collettiva.

Se io fossi il ministro dell’istruzione – dice don Piccicola – ogni tanto mischierei le classi. Quelli più piccoli con quelli più grandi. Quelli più svegli con quelli più lenti e addormentati. Il ragazzo che conosce la geometria insegna il teorema di Pitagora a quello che non lo sa. Magari tra ragazzi c’è meno ansia, meno paura di sbagliare. E forse userebbero parole più semplici, quelle della lingua dei giovani. Dei poveri. Degli stranieri.[37]

È sempre dentro il linguaggio che avviene lo scarto tra bene e male, verità e finzione. Il monologo diventa così un percorso ibrido in cui le vicende prettamente pasoliniane si fondono e dialogano con le testimonianze e le risonanze da esse evocate. Don Piccicola esce ed entra nella narrazione attraverso voci, testimonianze, correlazioni, e segna un percorso, come quello di una borsa di pelle nera, lasciata sotto un tavolo all'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana, a Milano che, alle 16.37 del 12 dicembre 1969, segnerà il prima e il dopo della Storia della Repubblica. Ma la sinfonia dell’innocenza – stirata e piegata, nascosta in un cassetto, da cui riemerge a tratti e mai è stata viva come nella volontà creativa del poeta – resiste a ogni assalto e torna come il segno vuoto lasciato da un quadro rimosso, su una parete quasi nascosta nella casa del narratore. Tale assenza si presta ad ogni manipolazione, è anche una pagina bianca, luogo del possibile, dell’immaginazione: un simbolo conteso, come l’oggetto-feticcio che sposta il senso dell’intera narrazione.

 

3. Il corpo dello scandalo

Celestini ci ha abituato a uno stile scenico evocativo e assolutamente essenziale: in scena una sedia, una lampada, una bacinella, alcune scatole e una porta bianca che funge da diaframma tra quel «io so ma non ho le prove» e ciò che è stato rimosso o che dobbiamo ancora conoscere. Un luogo fatto di parole, musica (quella registrata per la fisarmonica di Gianluca Casadei) e immagini (ogni oggetto è preceduto da una copertina illustrata di Franco Biagioni).

Per l’intera durata dello spettacolo non fa che schermare racconti e aneddoti, spingendo al massimo le strategie retoriche dell’«oralità-che-si-fa-testo»:[38] senza soluzione di continuità mima le pose di una galleria di figure ora reali ora immaginate, tra cui spicca evidentemente lo stesso Pasolini, in quello che resta l’inarcamento più significativo. Questa giostra di incarnazioni culmina con l’evocazione dell’ultimo tipo di reperto, il corpo del poeta, vera e propria immagine-icona, perno di un’esausta pulsione di vita (e di morte).

Marco Bazzocchi ha letto la stagione più importante di Pasolini nella chiave di un’ostensione del corpo tormentato dell’autore-performer,[39] che si è dato in pasto al pubblico, secondo un preciso disegno provocatorio. Più in generale, la riflessione pasoliniana sul corpo – motivo centrale e drammaticamente urgente della sua poetica – ha inizio dalla contemplazione dei bambini di Casarsa, puri e leggeri, simbolo di grazia e di bellezza del creato. Questi stessi corpi si tramuteranno presto in causa di dissidio interiore, nel momento in cui il poeta scoprirà e metterà a nudo la sua sessualità. Nell’impetuoso diario giovanile Pagine involontarie, descrive i primi turbamenti avvertiti mentre osserva i ragazzi che giocano nei giardini pubblici di fronte a casa sua a Belluno. E per definirli s’inventa un nome arcano, suggestivo ed esotico: «Era il senso dell’irraggiungibile, del carnale – un senso per cui non è stato ancora inventato un nome […] mi dissi che provavo “teta veleta”, qualcosa come un solletico, una seduzione, un’umiliazione».[40]

Approderà poi al corpo di un cinema fondato quasi interamente sulla fisicità di attori e di attrici, a partire dalla ‘folgorazione figurativa’ di matrice longhiana. Di fronte alla crisi culturale della modernità, il corpo è ciò che appartiene al «passato popolare e umanistico» – come egli stesso scriverà – quando la sua realtà fisica era «protagonista, in quanto del tutto appartenente ancora all’uomo»,[41] non ancora alienata dal conformismo, e dunque luogo di provocatoria resistenza, di elaborazione del linguaggio immediato della fisicità. Come lo era stato del resto, sia pure per ragioni diverse, per gli artisti del passato, in particolare i Manieristi. A partire dall’incontro (1967) con la pittura manierista tuttavia la sua concezione sul corpo cambia. Il rapporto tra carne e potere, le dinamiche di ‘educazione’, o meglio di ‘sottomissione’ del corpo che tendono a limitare la personalità degli individui entro una gamma ristretta di concetti e condotte esplodono in Teorema, in cui Pasolini decretava il valore della sessualità come ultima sovversione al mondo borghese, mentre in Salò – girato nello stesso periodo in cui Foucault pronunciava i discorsi sull’anomalia (1974-75) giungendo a sostenere come «il punto di focalizzazione dell’esame di coscienza … dev’essere adesso il corpo con tutti gli effetti di piacere che vi hanno sede»[42] – perduta ogni speranza, il corpo diventa l’oggetto principale dell’attenzione del potere neocapitalistico.

Eleggendo il corpo come filtro del proprio tempo, Pasolini suggerisce a Celestini una via di fuga, che si arresta di fronte al mistero di «una busta de’ stracci», ultimo atto di un destino arso nella polvere. Nel rievocare l’oltraggio della morte, l’attore si sofferma sul dileggio dello sguardo di un poliziotto che immaginava di trovarsi davanti al cadavere di un uomo che non indossava semplice biancheria intima: «strano, uno come lui me lo immaginavo con le mutandine di seta».[43] Basta questo dettaglio per stigmatizzare l’assurdità della fine del poeta, l’insensatezza di un omicidio che continua a non avere risposte e che risuona come punto cieco.

Il corpo per PPP era uno strumento di lotta declinato al futuro.

io vorrei soltanto vivere / pur essendo poeta /perché la vita si esprime anche solo con sé stessa. /Vorrei esprimermi con gli esempi. Gettare il mio corpo nella lotta. […] sarò poeta di cose. Le azioni della mia vita saranno solo comunicate, e saranno esse, la poesia, poiché, ti ripeto, non c’è altra poesia che l’azione reale.[44]

La traumatica espulsione del suo corpo dal ‘raggio’ della storia resta ancora oggi, a distanza di quasi cinquant’anni dall’omicidio di Ostia, un segnale di allarme, un monito per un tempo in fondo avaro di memoria e consapevolezza: non è difficile comprende allora perché l’ultimo reperto sia proprio quella «busta de’ stracci», metonimico sintagma di una testimonianza vitale decisiva.

Che ho detto ad Alberto: “ma che significa, che l’abbiamo ammazzato noi il poeta?” Dice “ma che ti importa, che ti cambia, perché indaghi, che ti frega? Perché, se l’abbiamo ammazzato noi resuscita? Se lo ha ammazzato un altro che fa, muore due volte? È morto. Basta. Non indagare. […] Se qualcuno ammazza un poeta all’idroscalo di Ostia, da qualche parte, qualcuno, in qualche stanza, stappa una bottiglia. Chi è il colpevole allora? Chi è il colpevole?”. “Il colpevole” – mi dice Alberto – “non è quello che si è sporcato le mani di sangue, le scarpe di fango quella notte lì, sotto la pioggia, all’idroscalo, no, il colpevole non è manco quello che ce l’ha mandato a sporcarsi le mani e le scarpe, il colpevole della morte del poeta è quello che ci guadagna di più dalla morte del poeta”. “E qual è il luogo del delitto? […] non è il mare di Ostia […] il luogo del delitto è il Novecento” – mi dice Alberto – “e chi è il colpevole? Il colpevole siamo noi”. Tu dici: “ma perché noi, io manco c’ero quella notte!” “Peggio, omissione di soccorso”. I colpevoli siamo noi – dice Alberto – noi che abbiamo vissuto in questo secolo pieno di tragedie e di utopie. “E qual è la pena che dobbiamo scontare?”, dice Alberto, perché ce sarà una pena da scontare, porca miseria, ci sarà un processo, prima o poi, ci condanneranno. E la pena che dobbiamo scontare è spalancare la porta di questo secolo e mostrarlo per intero, senza paura, senza vergogna, senza reticenza. Mostrarlo senza omissis, senza dimenticanze, senza cancellature. “Mostrarlo, se possibile” – dice Alberto – “se possibile, rispettando la cronologia”.[45]

Museo Pasolini è una costruzione complessa e stratificata, un’avventura di parole che preme oltre l’omaggio e la ‘memoria’. La scoperta metafora museale non è un facile apparato retorico quanto piuttosto un dispositivo mobile, capace di mettere in fila le date e gli eventi di una ‘cronologia’ almeno doppia, privata e pubblica, in cui ognuno sa di potersi riconoscersi, anche solo per amore dell’arte e della verità. Celestini offre una chiave di lettura chiara, che vale come via d’accesso per ogni visitatore:

La memoria è in movimento perenne, in continua trasformazione e quindi, più che a un oggetto che chiamo memoria, a me piace pensare a un’attività e a un processo che chiamo ricordare. […] La questione fondamentale è nel bisogno che oggi abbiamo di ricordare, il bisogno e l’interesse che alcuni hanno di ‘non’ ricordare…di quello che c’è dentro o, forse, guida di quello che non c’è, perché rimosso o perché qualcuno non vuole resti se non come intenzione. […] È un museo dove può finire una poesia perduta, più che una conservata, dove resta l’anima delle cose che sono state, non già gli oggetti ma le occasioni in cui c’è stata vita.[46]

 


1 O. Pamuk, ‘Un modesto manifesto per i musei’, in Id., L’innocenza degli oggetti, Torino, Einaudi, 2012, in https://www.museoetru.it/il-decalogo-di-un-museo-orhan-pamuk [ultimo accesso 1° novembre 2022].

2 Celestini è il primo a mettere in scena il suo personale omaggio a Pasolini anticipando i numerosi eventi che si sarebbero poi susseguiti a partire dal 2022. Il mondo del teatro ha infatti dedicato parecchia attenzione al centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, a cominciare dall’idea di Walter Malosti di mettere in scena, prodotte da ERT, tutte le opere teatrali pasoliniane, affidando le realizzazioni a giovani registi, per continuare, sempre in Emilia Romagna, con il lavoro di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, che hanno creato, per RAI TRE, Pasolinacci e Pasolini, muovendosi tra la Poesia e il Cinema. Anche Luigi Lo Cascio ha dedicato un assolo, con un monologo diretto da Tullio Giordana, mentre il testo di Sergio Casesi, Prima di ogni altro amore, dedicato al rapporto Callas-Pasolini ha ottenuto il Premio Enriquez come novità italiana. In questa carrellata di certo non esaustiva si ricorda infine il recente (il debutto è previsto per il mese di dicembre 2022), Corpo Eretico. Dialogo in tempo presente con Pier Paolo Pasolini di e con Marco Baliani.

3 Cfr. A. Porcheddu, L’invenzione della memoria Il teatro di Ascanio Celestini, Pozzuolo del Friuli, Il principe costante Edizioni, 2005.

4 Ivi, pp. 105-106 (nostro il corsivo.)

5 Si ricordi anche la registrazione della poesia La Terra di Lavoro, l’ultimo degli undici poemetti che costituiscono Le ceneri di Gramsci di Pasolini (1957), presente nella parte finale di Radio Clandestina, spettacolo di Celestini del 2008.

6 Il testo dello spettacolo lo si può leggere in S. Soriani (a cura di) CICORIA Del teatro di Ascanio Celestini e di Gaetano Ventriglia, Corazzano (Pi), Titivillus, 2006.

7 L. Di Gennaro, ‘Ascanio Celestini torna in scena con la storia di Pasolini (che è un pezzo di Storia d’Italia)’, in L’eco di Bergamo, 29 ottobre 2021.

8 A. Porcheddu, ‘Frammenti di memoria’, in S. Soriani (a cura di) CICORIA Del teatro di Ascanio Celestini e di Gaetano Ventriglia, pp. 39-42: 41. Sull’esplorazione dei meccanismi e delle distorsioni della memoria si legga anche S. Rimini, ‘Raccontare contromano’. Ascanio Celestini e la performance della memoria’, in Compar(a)ison, 1-2, 2006, pp.15-20.

9 C. D’Angeli, ‘Generazioni in cammino verso la morte’, in S. Soriani (a cura di) CICORIA Del teatro di Ascanio Celestini e di Gaetano Ventriglia, p. 24.

10 P.P. Pasolini, ‘Poeta delle ceneri’, in Id., Tutte le poesie, Milano, Mondadori (collana I Meridiani, vol. II), 2003, pp. 1270-1271.

11 Ibidem.

12 Nelle riflessioni di Michele Cometa «il dispositivo non è mai solamente reale (uno spazio architettonico) ma si configura, persino nello stesso precipitato architettonico, come una costante transizione tra metafora e realtà, tra verbale e visuale». M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Raffaello Cortina, 2012, p. 73.

13 Lo spettacolo ha debuttato nei giorni 1 e 2 novembre 2021 in occasione del Romaeuropa Festival. Dopo la première, è stato poi registrato a Roma presso Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini, Laboratorio creativo e Hub Culturale della Regione Lazio, Teatro Eduardo De Filippo e la versione televisiva (per la regia di Elio Di Pace, con Ascanio Celestini) è andata in onda in due puntate su Rai5 (Edizione Fabbrica in collaborazione con Archivi Audiovisivo del Movimento operaio e democratico). Rispetto allo spettacolo originario questa versione si arricchisce dei frammenti video del documentario Pier Paolo Pasolini di Carlo Di Carlo e delle interviste che sono servite a Celestini per la scrittura del testo. Le due puntate possono rivedersi ai link: https://www.raiplay.it/video/2022/03/Museo-Pasolini---Parte-1-7176494c-bcb4-4daf-8346-e1d34949c201.html; https://www.raiplay.it/video/2022/03/Museo-Pasolini---Parte-2-fc5bdc30-17f1-4d55-a08e-708ef567db34.html .

14 Nel presentare Museo in forma di studio diversi saranno gli oggetti che il pubblico suggerirà a Celestini di includere nel suo progetto. Dagli occhiali, ritratti in molte foto, alla maglia numero 11 che Franco Citti depose sulla sua bara del poeta il giorno dei funerali. Ma anche la sua ultima automobile, che da arma del delitto si sarebbe così potuta trasformare in un monumento per la vita, al pari della Quarto Savona Quindici di Falcone.

15 M. Foucault, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura [1969], Milano, Rizzoli, 1994, p. 175.

16 Ibidem.

17 P.P. Pasolini, filmato di repertorio estratto dallo spettacolo televisivo Museo Pasolini.

18 Cfr. P. Bologna, Tuttestorie. Radici, pensieri e opere di Ascanio Celestini, Milano Ubulibri, 2007.

19 Ibidem.

20 Sull’importanza degli anni bolognesi si rimanda a Pasolini e Bologna. Gli anni della formazione e i ritorni, a cura di M.A. Bazzocchi e R. Chiesi, Bologna, Edizioni Cineteca di Bologna, 2022.

21 Estratto dallo spettacolo televisivo Museo Pasolini.

22 Ibidem.

23 Ibidem.

24 Ibidem.

25 Ibidem.

26 A. Celestini, ‘Ascanio Celestini, con Pasolini sulle strade della Storia’, la Repubblica, 17 settembre 2022.

27 Cfr. A. Celestini, Cecafumo. Storie da leggere ad alta voce, Roma, Donzelli, 2002.

28 Estratto dallo spettacolo televisivo Museo Pasolini.

29 P.P. Pasolini, ‘10 giugno’ (1962), in Id., Tutte le poesie, Milano, Mondadori (collana I Meridiani, vol. I), 2003, pp. 1098- 1099.

30 Ibidem. La capitale diventa per il poeta un punto di osservazione privilegiato sulle contraddizioni economiche e sociali di quegli anni; accanto a una borghesia che si arricchisce, ci sono le classi inferiori costituite da ex contadini inurbati e lavoratori sfruttati che vivono nelle distese di baracche delle periferie romane.

31 Si ricordi il film-documentario del 1974 dal titolo Le forme della città, in cui Pasolini traferisce in immagini le parole che aveva scritto negli articoli, poi pubblicati con il titolo di Scritti corsari. A tal proposito si legga nella sezione Galleria del presente numermo: S. Arcidiacono, ‘Oltre Le mura di Sana’a… Lo sguardo di Pasolini sulle città’, http://www.arabeschi.it/3-corpi-e-luoghi-36-oltre-le-mura-di-sanaa/ [ultimo accesso 30 novembre 2022].

32 Pasolini userà in prevalenza, specialmente nei suoi ultimi scritti, l’espressione “mutazione antropologica”; non di rado però scriverà anche di “degenerazione antropologica” o di “rivoluzione antropologica”.

33 A. Celestini in M. Damilano, ‘Ascanio Celestini: «Pasolini, un poeta ucciso dal Novecento»’, l’Espresso, 28 febbraio 2022, https://espresso.repubblica.it/idee/2022/02/28/news/ascanio_celestini_pasoliniun_poeta_ucciso_dal_novecento-339646234/, [ultimo accesso 30 novembre 2022].

34 Ibidem.

35 Estratto dallo spettacolo televisivo Museo Pasolini.

36 M. Fusillo, Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, Bologna, il Mulino, 2012, p. 63.

37 Ibidem.

38 Si deve a Gerardo Guccini la prima, e più acuta analisi, del sistema stilistico del teatro di narrazione: si veda in proposito G. Guccini, ‘Il teatro narrazione: fra “scrittura oralizzante” e l’oralità-che-si-fa-testo’, Prove di drammaturgia, 1/2004, pp. 15-21.

39 Cfr. M.A. Bazzocchi, Esposizioni. Pasolini, Foucault e l'esercizio della verità, Bologna, il Mulino, 2017.

40 P.P. Pasolini, Lettere 1940-1954, a cura di N. Naldini, Torino, Einaudi, 1986, p. XVI.

41 P.P. Pasolini, ‘Note e notizie sui testi’ (nota al testo Tetis) in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, (collana I Meridiani, vol. II), Milano, Mondadori, 1999, p. 1756.

42 M. Foucault, Gli anormali, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 169.

43 Estratto dallo spettacolo televisivo Museo Pasolini.

44 P.P. Pasolini, ‘Poeta delle ceneri’, in Id., Tutte le poesie, Milano, Mondadori (collana I Meridiani, vol. II), 2003, p. 1287.

45 Estratto dallo spettacolo televisivo Museo Pasolini.

46 A. Celestini in B. Chiappa, ‘Museo Pasolini: il racconto di “una poesia inconsumabile”’, la Platea, 4 novembre 2021, https://www.laplatea.it/index.php/teatro/recensioni/5774-museo-pasolini-il-racconto-di-una-poesia-inconsumabile.html [ultimo accesso 30 novembre 2022].