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Ascanio Celestini, custode e guida di un ipotetico Museo dedicato a Pier Paolo Pasolini, riannoda, con lo spettacolo Museo Pasolini, i fili di una vita breve, terminata in un massacro all'Idroscalo di Ostia, con accadimenti storici e aneddoti immaginari. Il visitatore si troverà immerso nel mondo pasoliniano più autentico e complesso e in quello parallelo frutto di ricerche sul campo di Celestini che, proprio come il poeta, non ha mai smesso di indagare e dialogare con gli ultimi e gli sfruttati.

Ascanio Celestini, custodian and guide of a hypothetical museum dedicated to Pier Paolo Pasolini, reconnects the threads of a short life, which ended in a massacre at the Idroscalo di Ostia, with historical events and imaginary anecdotes. The visitor will find himself immersed in Pasolini's most authentic and complex world and in the parallel world that is the result of field research by Celestini who, just like the poet, has never stopped investigating and dialoguing with the last and the exploited.

 

Per Orhan Pamuk ogni museo dovrebbe essere un luogo in cui «il tempo diventa spazio», capace di raccontare le storie dei singoli individui e in cui poter «esplorare ed esprimere l’universo e l’umanità dell’uomo nuovo e moderno».[1] Quasi sulla stessa scia, a partire da un’idea di luogo non-monumentale in grado narrare fatti che vadano al di là dell’ossessione di un singolo, e da sempre attratto dalla Storia e dai suoi paradossi, Ascanio Celestini nel 2021 concretizza il progetto di costruire, narrativamente, un Museo dedicato alla memoria di Pier Paolo Pasolini.[2] È, ancora una volta, la sua «corda civile»,[3] in cerca dell’uomo e delle sue parabole, a consentirgli «di scorgere le tracce del mito».[4]

In una carriera dove ha filtrato, con i racconti di testimoni comuni, i grandi temi del nostro Paese, Celestini ci restituisce uno spettacolo straziante e potente, una raccolta di oggetti simbolo per disegnare la figura del poeta friulano, affiancando ad essi la rappresentazione del Novecento italiano saturo di fascismo, di golpe di stato, di democrazie tormentate e di una «busta de stracci che invece era n’omo morto». Una «corrispondenza d’amorosi sensi» che ben si spiega con la capacità dell’attore romano di raccontare storie controverse con la cifra di una disarmante onestà in grado di mescolare registri plurimi. Celestini, peraltro, non è nuovo all’esplorazione di Pasolini.[5] Nel 1998, quando ancora si considerava un «teatrante per caso», incontra Gaetano Ventriglia, e con lui – discutendo di cucina, di emozioni e del loro comune interesse per ‘il poeta delle ceneri’ – dà vita a Cicoria. In fondo al mondo, Pasolini, un po’ spettacolo[6] e un po’ libero pensiero. Al centro di questo esperimento si pone infatti una riflessione discontinua sul tema della morte che avvicina un padre (già trapassato) ad un figlio (nel momento del trapasso), emblematicamente identificati come Cicoria padre e Cicoria figlio. Questa coppia, che in modo scoperto discende da Totò-Ninetto Davoli di Uccellacci e uccellini, richiama anche il riflesso di altre opere, secondo un progetto in forma di palinsesto, instabile e promettente allo stesso tempo.

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Perché dopo quarantacinque anni Nanni Moretti ha sentito il bisogno di andare a Santiago e di riparlare del golpe di Auguste Pinochet che rovesciò il governo socialista cileno e uccise il presidente Salvador Allende?

Il documentario Santiago, Italia sembra motivato non solo dal racconto delle vicende dell’epoca, ma dalla necessità di riflettere – attraverso quei fatti – sulla cospicua differenza di comportamento socio-politico tra l’Italia di allora e quella di oggi. In questo senso il documentario ripropone in termini nuovi, se non inediti, il rapporto Italia-Cile attraverso una serie di interviste a uomini e a donne cileni, che in vario modo hanno vissuto gli accadimenti del 1973. In questa prospettiva tali interviste somigliano più a finestre sul mondo ovvero a racconti liberi, ma puntuali dove la vicenda o il ricordo personale coincidono con il ripensamento sul valore della sfera pubblica, ridefinendo in tal modo lo spazio del reale dentro la messa in scena docu-filmica.

Nella ricorrenza stabile di un architettura definita, di una fotografia nitida e di un montaggio calibrato, serrato ed incisivo, Moretti modifica di volta in volta la costruzione delle inquadrature in base ai vari ‘personaggi’ – dal primissimo piano al piano medio ad esempio – non tanto come sguardo del regista sulle storie di ogni testimone in relazione alla Storia, ma piuttosto viceversa come trasposizione nel linguaggio filmico – nella materia sensibile – delle peculiarità dei vari individui agenti all’epoca dei fatti. Moretti così entra in scena solo quando intervista un condannato per torture per sottolineare il suo (ovvio) non essere imparziale.

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Questo saggio analizza l’opera Les années (2008) di Annie Ernaux in relazione alla fotografia. All’interno del testo il ruolo giocato dalla descrizione di numerose fotografie è cruciale e si declina secondo diverse modalità: come motore di una memoria che però non è mai elegiaca ma, piuttosto, volta a cercare nel documento fotografico l’evidenza dello scollamento fra io e vita operato dal tempo, come metafora della bidimensionalità stessa della memoria, come equivalente di un vissuto collettivo cristallizzato in immagini di personaggi pubblici del cinema o della politica. Il genere autobiografico in cui si colloca Les Années viene quindi rinnovato, da racconto personale e intimo di una donna cresciuta nel dopoguerra diventa impersonale e collettivo. La forza delle immagini, oggetti di cui Ernaux postula l’esistenza extratestuale, opera verso la scrittura come un magnete: è la luce intermittente della vita, la scia luminosa letteralmente catturata dalla fotografie, ciò che la scrittura vorrebbe mimare.

This essay considers Annie Ernaux novel Les années (2008) in relation to photography. The role played in the novel by a relevant number of photographs descriptions is crucial and it takes various turns: as trigger of memory, which is never elegiac but rather a documentary evidence of the gap operated by time between the self and life, as a metaphor of the memory two-dimensional nature, as equivalent of a collective imagination gathered around public images of movies or political figures. The autobiographical genre is thus updated by Les années, from personal and intimate report of life of a french woman born and raised after World war II it becomes impersonal and collective. The power of images, meta-textual objects whom Ernaux assumes the existence – is like a magnet towards her writing: is the intermittent light of life, the luminous trace litterally captured by the camera, what she aims to reproduce.

Les années è il racconto della vita di una donna nata in Francia nel 1940 coincidente con il vissuto dell’autrice; la narrazione è scandita più che da vicende e accadimenti personali dalle fasi dell’emancipazione sociale, economica e femminile del dopoguerra, attraverso la transizione da una società dominata da valori religiosi e dall’ethos comunitario a una improntata al consumo delle merci e al godimento individuale.[1]Gli anni può essere considerato il culmine di un’aspirazione autobiografica che percorre tutta l’opera di Annie Ernaux, ma è anche il libro in cui l’autrice francese mette maggiormente in discussione e innova il genere letterario della rappresentazione di sé.

Ne La honte e ne Il posto, gli altri due testi impegnati a fare i conti con la storia il tempo e la memoria, la narrazione è condotta in prima persona, mentre ne Gli anni il perno dell’io sparisce, si insabbia in un ‘noi’ collettivo, in sostantivi di categoria – le madri, i padri, i figli – o in una terza persona generica. L’autobiografia diventa paradossalmente impersonale.[2]

Questo significa che il rapporto fra eventi individuali e sfondo sociale viene invertito, le vicende individuali altro non sono che ricadute di una storia che accade sopra la volontà e perfino la capacità di comprensione di chi la racconta.[3] Ecco come, ad esempio, viene descritto il passaggio dalla condizione di studentessa a quella di giovane madre:

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